Magistratura democratica
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Note concernenti il Disegno di legge N.1236/Senato, recante Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittima dell’usura e di ordinamento penitenziario *

di Michele Passione
avvocato del Foro di Firenze

Nel far seguito a quanto già trasmesso a suo tempo per la discussione e successiva approvazione in prima lettura del D.d.l. 1660/C, si rassegnano le seguenti osservazioni, necessariamente cursorie, aventi ad oggetto alcune disposizioni ivi contenute in materia penale.

Con l’art.1 del D.d.l. (Introduzione dell’articolo 270 quinquies.3 e modifica all’articolo 435 del codice penale in materia di delitti con finalità di terrorismo e contro l’incolumità pubblica) si intende introdurre due nuove figure di reato.

Quanto alla prima, come si evince sin da subito (cfr. pg. 2 della relazione illustrativa), si sostiene la necessità dell’intervento penale in considerazione del fatto che si è in presenza di «condotta di per sé allarmante e pericolosa, a livello sociale, indipendentemente dalla effettiva realizzazione di atti terroristici, in quanto sintomatica di una progressione capace di portare repentinamente alla commissione di atti di violenza con finalità di terrorismo…si parla, a tal proposito, di terrorismo della parola».

Com’è evidente, tenendo conto della clausola di esclusione della disposizione di nuovo conio (concernente i delitti di cui agli artt. 270 bis e 270 quinquies c.p.), la condotta che si vorrebbe incriminare e punire con la reclusione da due a sei anni prevede un’ulteriore anticipazione della soglia di rilevanza penale, laddove la seconda delle norme citate non si limita viceversa all’intenzione, ma prevede un passaggio all’atto.

Di più; la novella non si misura con la giurisprudenza consolidata in materia (a partire dal leading case Cass. Sez.I, 16.7.2015, n.47479), con la quale si è affermato che «la norma dell’art.270 sexies c.p.» (Condotte con finalità di terrorismo), alla quale non può che riferirsi la disposizione di nuovo conio, «presenta una struttura complessa, nella quale, pur essendo la norma stessa dedicata alla descrizione di una finalità, sono certamente compresi elementi di carattere obiettivo, quali misuratori della specifica offensività dei fatti contemplati, e quali garanzie di un ordinamento che, per necessità costituzionale, deve rimanere distante dai modelli del diritto penale dell’intenzione e del tipo d’autore […] non basta l’intenzione del danno». Al contrario, si è giustamente affermato che «è avvertita la necessità di assicurare la specifica offensività dei comportamenti terroristici, escludendo dalla previsione progettazioni deliranti o palesemente inadeguate […] non basta che l’agente abbia intenzione di arrecare il grave danno, ma occorre che la sua condotta crei la possibilità concreta – sul piano oggettivo – che esso si verifichi, secondo lo schema di un evento di pericolo concreto, da valutarsi alla stregua del criterio della prognosi postuma, tenendo conto della natura della condotta e del contesto in cui essa si colloca».

Insomma, se già in precedenza (cfr. Cass. Sez. V, 23.2.2012, n.12252) si era chiarito come le condotte con finalità di terrorismo debbono conoscere innanzitutto una matrice oggettiva, rivelando l’esistenza quanto meno di un pericolo concreto di grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale, poiché «non è sufficiente il finalismo psicologico dell’azione, essendo necessaria anche l’identità in concreto delle condotte» (cfr. anche Corte cost., n.191/2020), il D.d.l. N.1660/C appare dimentico della tracciata ermeneutica, esponendo le disposizioni che intende introdurre a sicura censura del Giudice delle leggi.

Non meno grave appare l’analogo strappo che l’art.1 provoca con l’introduzione dell’art. 435, comma 2, c.p., i cui vizi sopra enunciati appaiono in tutta evidenza; si tratta di una ipotesi di pericolo indiretto, che necessiterebbe di maggiori precisazioni in punto di dolo specifico, per evitare interpretazioni volte a sanzionare la mera componente oggettiva della condotta.

Con l’art.10 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale, per il contrasto dell’occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui) si introduce il nuovo reato di cui all’art.634 bis c.p., Occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui.

In disparte ogni valutazione concernente i poteri concessi agli ufficiali di polizia giudiziaria prima dell’intervento dell’AG previsti dal neo art. 321 bis c.p. (Reintegrazione nel possesso dell’immobile), che non tranquillizzano affatto (per usare un eufemismo) rispetto alla regolazione in urgenza dei conflitti sociali sottesi alla disposizione di nuovo conio, nel perimetro conchiuso della norma sono riunite sotto un’unica cornice edittale condotte all’evidenza diverse, ciò che espone la stessa ad una evidente irragionevolezza, come tale costituzionalmente censurabile (cfr. sent. Corte cost. n.236/2016).

Non solo; la norma si pone in aperto contrasto con le indicazioni della Corte costituzionale (sent.n.46 del 2024, § 3.1 Considerato in diritto) quanto alla dosimetria della pena («qualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore; e i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità»). Con l’arresto citato si è altresì evidenziato come quanto al rispetto di quei limiti e al conseguente controllo la Corte «è tenuta a esercitarlo con tanto maggiore attenzione, quanto più la legge incida sui diritti fondamentali della persona. Il che paradigmaticamente accade rispetto alle leggi penali, che sono sempre suscettibili di incidere, oltre che su vari altri diritti fondamentali, sulla libertà personale dei loro destinatari».

Al dunque, il raffronto con le cornici edittali delle finitime disposizioni di cui agli artt. 633, 633 bis, 634 (nonché con l’art.610) c.p. rende evidente, quanto a queste, il manifesto tradimento delle indicazioni del Giudice delle leggi.

Infine, si segnala l’indeterminatezza della fattispecie, quanto alla prevista illiceità di una «cessione ad altri» dell’immobile occupato (comma 1 cpv.) e soprattutto la contraddizione piena dell’ipotesi di cui al secondo comma, laddove si sanziona la condotta di chi «fuori dei casi di concorso nel reato…coopera nell’occupazione dell’immobile» (termine peraltro utilizzato dal codice in materia di reati colposi, ex art.113 c.p.).

All’art.11 si prevedono Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di circostanze aggravanti comuni e di truffa.

Con il neo numero 11 decies dell’art. 61 c.p. verrebbe introdotta una nuova circostanza aggravante comune che non ha alcuna giustificazione ragionevolmente sostenibile in ordine alla necessità di aumentare la pena per qualsiasi fatto di reato commesso «all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto di passeggeri», non potendosi scorgere un nesso universale tra quei luoghi e condotte solo ivi casualmente poste in essere. Irragionevole appare altresì la sussunzione in autonoma fattispecie penale della truffa commessa con le modalità di cui all’art.640 comma 2 bis c.p., non solo per sproporzione sanzionatoria, secondo le direttrici costituzionali sopra indicate, ma anche perché espressiva di una fallace logica deterrente attraverso l’aumento delle pene (che, per vero, contraddistingue l’intero impianto del ddl).

L’art. 13 estende il c.d. Daspo urbano; è sufficiente la lettura della Relazione illustrativa, alla quale si fa rinvio per ragioni di sintesi, per cogliere appieno la voluntas di gestire la sicurezza urbana enfatizzando la marginalizzazione sociale, consentendo il divieto di accesso a determinate aree cittadine per un periodo massimo di dodici mesi anche in presenza di una semplice denuncia (perfino risalente ai cinque anni precedenti). Evidenti appaiono le frizioni con l’art.2, protocollo 4, della Cedu (cfr. sent. GC Corte EDU De Tommaso c. Italia), nonché con la riserva di giurisdizione in materia penale prevista dall’art.13 Cost. Al comma 2 del citato articolo si prevede altresì di condizionare la concessione della sospensione condizionale della pena riportata a seguito di condanna per reati contro la persona o il patrimonio commessi in determinate aree infrastrutturali al rispetto di prescrizioni imposte; anche in questo caso, attese le contaminazioni stratificatesi in materia tra divieti penali e regolamenti urbani, si prospetta il rischio di violazione della riserva di legge in materia penale.

In materia di impedimento alla libera circolazione su strada l’art.14 (ri)trasforma l’illecito amministrativo in delitto, laddove la condotta venga attuata «con il proprio corpo» anche su «strada ferrata», prevedendo altresì un’aggravante ad effetto speciale (con pena della reclusione da sei mesi a tre anni) «se il fatto è commesso da più persone riunite». Evidente l’irragionevole aumento rispetto alla sanzione della fattispecie base (punita con la reclusione fino a un mese o la multa fino a 300 euro), ed ancora in spregio rispetto alla più volte citata pronuncia della Corte costituzionale. Manifesta appare dunque la finalità repressiva del dissenso politico, peraltro espresso «con il proprio corpo», e non già con mezzi violenti. Evidenti altresì le frizioni con diritti costituzionali, quali quello di riunione (art.17) e sciopero (art.40).

Con l’art. 15 (Modifiche agli articoli 146 e 147 del codice penale in materia di esecuzione penale in caso di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti) la modifica proposta prevede che anche le donne incinte, o madri di infante di età inferiore ad anni uno, possano essere oggetto di incarcerazione, sebbene presso un istituto a custodia attenuate per detenute madri. Si tratta, all’evidenza, di una norma manifesto, dimentica del superiore interesse del bambino, di cui alle Regole di Bankok, che tra l’altro non si misura con il dato – obiettivo – della scarsissima presenza degli ICAM (che restano comunque strutture inadatte al sostegno di madri e bambini) sul nostro territorio, e provocherebbe una ulteriore lesione al principio di territorialità della pena.

Non occorre davvero disporre di particolari capacità immaginifiche per preconizzare un intervento apotropaico della Corte costituzionale alla luce del violato interesse preminente del minore, scolpito e protetto dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e adolescenza (firmata a New York il 20.1.1989 e ratificata con la L.n.176/1991), essendo già la Corte con plurime sentenze intervenuta sulla disciplina penitenziaria concernente a vario titolo il rapporto tra genitori detenuti e figli (da ultimo, cfr. sent. n.30/2022).

Con l’art.16 (Modifiche all’articolo 600 octies del codice penale in materia di accattonaggio) si prevede un aumento sbalorditivo della cornice edittale (sino ad oggi è prevista la reclusione fino a tre anni), che passerebbe a quella da uno a cinque anni. A tal riguardo, vale la pena di nuovo richiamare la recentissima sentenza della Corte costituzionale (n.46/2024). Manco a dirlo, nel caso di specie alcuna indicazione proviene sul punto dell’innalzamento sanzionatorio dalla relazione illustrativa.

Ancora, la novella estende la punibilità alle condotte concernenti i minori di anni sedici, ed al secondo comma (di nuovo) prevede un raddoppio della sanzione (da uno a tre anni di reclusione si passa ad una cornice da due a sei). Infine, con buona pace della tassatività e chiarezza che dovrebbe contraddistinguere l’utilizzo della leva penale, si introduce l’incriminazione dell’induzione all’accattonaggio, tanto di adulti che di minori, così da provocare anche la modifica della rubrica della norma. La norma costituisce la più plastica e dolente espressione dell’ormai conclamato passaggio dal welfare sociale a quello penale.

Con l’articolo 19 (Modifiche agli articoli 336, 337 e 339 del codice penale in materia di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale e di resistenza a un pubblico ufficiale) si ritiene necessaria una particolare «tutela dell’attività espletata dagli ufficiali o agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, al fine di garantire, di conseguenza, un più efficace dispiegamento dei servizi di ordine e sicurezza pubblica» (così nella relazione illustrativa). Come si vede, si intenderebbe introdurre un aumento di pena (declinata in ottica di prevenzione generale) selezionando (in violazione dell’art. 3 Cost.) a favore degli agenti di polizia tra l’amplissima categoria di cui all’art. 357 c.p. Di più; l’aumento fisso (di un terzo) e l’impossibilità di riconoscere prevalenza sulle ritenute aggravanti de quibus a circostanze attenuanti diverse da quella prevista nell’art.98 c.p. si pongono in aperto contrasto con la ricorrente giurisprudenza costituzionale sul punto (da ultimo, cfr. sent.n.197 del 2023; conformi, sentt. nn. 94, 188, 201 e 217 del 2023). Appare singolare il richiamo operato in proposito nelle schede di lettura (pg.109) alla giurisprudenza costituzionale di segno contrario alla novella, posto che si rivela del tutto incurante delle pronunce citate. Infine, non meno allarmante appare l’inserzione operata in sede referente con la previsione di un aumento di pena nel caso in cui la violenza o la minaccia siano commesse al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica. Risulta evidente anche in questo caso la normazione ad hoc (si pensi al movimento No Tav), anch’esso tratto distintivo del D.d.l.

Con l’articolo 20 (Modifiche all’articolo 583 – quater del codice penale in materia di lesioni personali ai danni di un pubblico ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio) si prevede l’applicazione della pena da due a cinque anni di reclusione nell’ipotesi di lesioni (non gravi o gravissime), senza tener conto di quanto già previsto dagli artt. 582, 576, comma 1, n.5 bis, 585 c.p. 

L’art. 24 inserisce modifiche all’art. 639 c.p., per la tutela dei beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche; non si comprende il riferimento alla finalità (dolo specifico) di ledere l’onore dell’istituzione cui il bene deturpato o imbrattato appartiene, né appare ragionevole sanzionare penalmente una condotta lesiva di «prestigio o decoro». Così disvelata la fallace indicazione del bene giuridico protetto, con la novella risulta malcelata l’intenzione di criminalizzazione del dissenso (soprattutto ad opera dei giovanissimi; si pensi al Movimento Ultima Generazione), che appare affidata alla ondeggiante lettura giurisprudenziale, vieppiù ostacolata dalla vaghezza della formulazione, in contrasto con la necessaria offensività della condotta.

L’art.26 (Modifica all’articolo 415 e introduzione dell’articolo 415 – bis del codice penale, per il rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari) a parere di chi scrive costituisce la disposizione maggiormente censurabile tra quelle previste dal D.d.l. in oggetto.

Con l’inserimento del comma secondo all’art.415 c.p. si prevede un’aggravante se le condotte ivi descritte avvengono all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute. In disparte l’incomprensibile riferimento alla comunicazione con scritti diretti a persone detenute, ontologicamente incompatibile col carattere pubblico dell’istigazione, l’aggravante si pone in aperto contrasto con la nozione di ordine pubblico materiale, e non formale, il quale solo può formare oggetto di tutela penale (cfr. sent. Corte cost n.108/1974).

A detta disposizione, già esposta al rischio concreto di una punizione di condotte di pericolo astratto e criminalizzazione del dissenso, se ne affianca un’altra, la rivolta all’interno di un istituto penitenziario, di cui all’art.415 bis c.p.

Espressione di una vera e propria meccanica del Potere, e già unanimemente criticata in dottrina e nei primi commenti, la disposizione di nuovo conio equipara, sanzionandole in modo uguale, condotte assolutamente diverse. Alla violenza o minaccia che possono accompagnare una sommossa vengono infatti aggiunte condotte di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini e i tentativi di evasione, commessi congiuntamente da tre o più persone. Evidente il rischio di eterogenesi del fine, che potrebbe indurre a ricorrere a condotte violente. 

Non solo; con l’art.34 del D.d.l. si prevede l’inclusione degli artt.415 e 415 bis c.p. tra quelli di cui all’art. 4 bis, comma 1 ter O.P. ai fini dell’accesso ai benefici, ancora una volta implementando la norma maggiormente foriera dell’overcrowding penitenziario. 

In questo modo, richiamata la sopra citata irragionevolezza quanto all’assimilazione di condotte all’evidenza diverse, qualunque condotta di dissenso (perfino includente l’ossimorica previsione di resistenza passiva, che la costante giurisprudenza esclude possa dar luogo financo al delitto di cui all’art.337 c.p.) verrà punita con la draconiana sanzione da due a otto anni di reclusione (per i promotori, organizzatori o dirigenti – la cui concreta individuazione in detti contesti appare assolutamente opinabile), e da uno a cinque per i partecipanti.

L’assunto secondo il quale (cfr. pg. 17 della Relazione illustrativa) «la descrizione delle modalità della condotta tipizza azioni già previste dall’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario a giustificazione dell’impiego della forza fisica e dell’uso dei mezzi di coercizione da parte del personale degli istituti penitenziari» prova troppo; un conto è consentire infatti una reazione, altro introdurre una fattispecie penale alla base della stessa, le cui conseguenze (oltre che sanzionatorie) non potranno che costituire, per la sua sola entrata in vigore, una micidiale arma della criminalizzazione del dissenso, anche a fronte di condotte criticabili (e perfino illecite) tenute intra moenia dal personale di polizia o da altri operatori penitenziari. Negato l’ascolto, punito il dissenso, si propone il ritorno ad un modello detentivo fondato sull’obbedienza acritica. Sul punto, inutile, e pericoloso, appare il richiamo al «numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio», al fine di selezionare le condotte a rilevanza penale, atteso per un verso lo già specificato numero di persone riunite (tre o più), e peraltro tenuto conto della vaghezza del dato contestuale inserito in sede referente. Di più; nemmeno convince il legame tracciato tra le condotte di violenza, minaccia o resistenza passiva e l’impedimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza. Chiunque abbia esperienza dei luoghi di privazione della libertà personale sa bene che dietro l’evocazione di detti interessi da proteggere si celano in realtà quasi sempre dinamiche complesse, regolatrici di equilibri che nulla hanno a che fare con l’ordine pubblico. Basti pensare (e chi scrive ne ha esperienza diretta, amaramente tratta dai numerosissimi processi in corso per tortura, quale legale della parte civile, GNPL) alle tante «spiegazioni» date da personale di polizia in relazione a condotte illecite tenute «per obbedienza all’ordine gerarchico», con evidente malintesa lettura del D.L.vo. n.443/1992 (Diritti e doveri del personale del corpo di polizia penitenziaria) e della L. n.395/1990 sull’Ordinamento del Corpo di Polizia penitenziaria. 

Infine, quanto alla presente memoria, con l’art.27 si prevedono Modifiche all’articolo 14 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n.286, per il rafforzamento della sicurezza delle strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti.

Si tratta di previsione che è esposta a parere di chi scrive alle medesime censure appena evidenziate con riguardo alla norma precedente, sia pur accompagnata da sanzione penale lievemente inferiore. L’irragionevole previsione verrebbe per lo più ad operare non solo nei C.P.R., luoghi ai cui confronti gli istituti di pena appaiono come sale da ballo, tanto indecenti (e note) sono le condizioni dei luoghi ove avviene la c.d. «detenzione amministrativa», ma perfino negli altri luoghi previsti dall’art. 14, comma 7.1 del D.L.vo. n.286/1998, come introdotto dalla novella, ovvero nei diversi posti (hotspot e centri di prima accoglienza per i richiedenti asilo) laddove neanche dovrebbe porsi questione di sicurezza e ordine pubblico, ma di sicurezza sociale e soccorso per chi cerca aiuto, e non repressione.

[*]

Documento depositato in sede di audizione presso le Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato il 17.10.2024

30/10/2024
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