«Il concorso esterno in associazione mafiosa è un reato ossimoro».
Ha destato molto interesse questa affermazione del Ministro della giustizia Carlo Nordio. E la sua affermazione è stata prevedibilmente condivisa dal prof. Sabino Cassese, che, intervistato in televisione, ha testualmente citato il ministro.
Infatti, si dice, o sei mafioso o non lo sei, non puoi essere contemporaneamente dentro e fuori dell’associazione. È una questione di «pura logica», direbbe un celebre processualpenalista.
E in realtà, presa in sé, l’affermazione è di banale evidenza: a Napoli si direbbe che è «la scoperta dell’acqua calda».
Tuttavia, spingendo la riflessione un po’ più in profondità, come sempre occorrerebbe per le questioni serie, si scopre che quell’affermazione elude un problema decisivo.
O sei mafioso o non lo sei: ma a stabilire chi è mafioso deve essere lo Stato o la mafia stessa? Questa domanda andrebbe rivolta non tanto al prof. Cassese, che è grandissimo giurista, ma non è certamente un penalista. Andrebbe piuttosto rivolta al dr. Carlo Nordio, che è un penalista.
Infatti, quando si deve stabilire se qualcuno è un mafioso, ci si trova paradossalmente di fronte a un concorso, un sovrapporsi tra norme del codice penale e regole delle associazioni mafiose.
Com’è noto sin dalle deposizioni di Tommaso Buscetta, le associazioni mafiose, nella specie Cosa nostra, hanno, come tutte le associazioni, regole precise e condivise, che stabiliscono come si aderisce al sodalizio, a quali condizioni, con quale posizione nella gerarchia interna. Ed è a queste regole che occorre dunque fare innanzitutto riferimento per accertare chi è effettivamente associato a Cosa nostra o alle altre associazioni mafiose.
Tuttavia l’associazione mafiosa, come tutte le associazioni per delinquere, è un reato a concorso necessario, vale a dire un reato per la cui consumazione è sempre necessario il contributo di più persone, a differenza di altri reati per i quali è solo eventuale il concorso di più persone.
Sicché si pone il problema di stabilire se, oltre a coloro che sono riconosciuti come associati dalla stessa mafia, possono concorrere altri soggetti, in ragione del loro contributo all’attività criminale. Ed è ormai indiscusso che nell’associazione mafiosa «assume il ruolo di "concorrente esterno" il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione e privo dell'"affectio societatis", fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo» (Cass., sez. un., 12 luglio 2005, Mannino, m. 231671, Cass., sez. II, 11 giugno 2008, Lo Sicco, m. 241813, Cass., sez. II, 7 maggio 2022, Aiello, m. 283989).
Riconosce dunque la giurisprudenza che, pur non potendo prescindersi dalle regole proprie di ciascuna associazione per definire il ruolo di chi vi è coinvolto, la responsabilità come concorrente nel reato non può non essere accertata in applicazione dell’art. 110 c.p., che disciplina il concorso di persone nel reato, perché è ovviamente la legge dello Stato, non l’associazione criminale, a stabilire chi come mafioso deve essere punito. Ed è appunto l’esigenza di questo doppio riferimento “normativo” che sfugge al ministro Nordio quando parla del concorso esterno come di un reato ossimoro.
In realtà il problema non è nel presunto ossimoro del concorso esterno in associazione mafiosa, ma è nella disciplina del concorso di persone nel reato, perché da decenni si discute della sua compatibilità costituzionale (per un’efficace sintesi da ultimo L. Carraro, La responsabilità concorsuale del professionista-extraneus in fatti di bancarotta. La compartecipazione criminosa mediante attività di consulenza, in Sist. pen., 2023). Ed è da tempo controverso in dottrina quale debba essere il criterio di rilevanza del contributo di chi partecipi a un delitto commesso in concorso da più persone. E’ indiscusso infatti che debba rispondere anche chi non compia l’azione tipica necessaria per la consumazione del delitto. Ma si discute appunto di quale debba essere “la soglia minima di rilevanza del contributo punibile”.
Anche in dottrina tuttavia è orma superato l’orientamento che esigeva un nesso di causalità tra la condotta di concorso e l’evento del reato, perché ritenuto eccessivamente restrittivo e perciò in-compatibile con lo stesso dato normativo desumibile dall’art. 114 comma 1 c.p., che, prevedendo come possibile attenuante la minima partecipazione alla preparazione ed esecuzione del reato, include evidentemente nell’ambito delle condotte concorsuali rilevanti anche quelle che del reato non furono condizioni necessarie. Infatti sono abitualmente considerate rilevanti anche condotte non necessarie, come nel furto quella del palo distratto o di chi fornì uno strumento da scasso poi non utilizzato, mentre è davvero arduo tentare una spiegazione in termini causali delle condotte umane.
Secondo la giurisprudenza, dunque, «ai fini della configurabilità del concorso di persone nel reato, il contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell'evento lesivo, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore, e cioè quando il reato, senza la condotta di agevolazione, sarebbe ugualmente commesso, ma con maggiori incertezze di riuscita o difficoltà. Ne deriva che, a tal fine, è sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l'agevolazione dell'opera degli altri concorrenti, e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l'esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato, perché in forza del rapporto associativo diventano sue anche le condotte degli altri concorrenti» (Cass., sez. IV, 22 maggio 2007, Di Chiara, m. 236853, Cass., sez. V, 21 giugno 2019, P, m. 276990).
Solo a proposito del concorso esterno in associazione mafiosa la più recente sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione ha invece affermato la necessità che «il contributo atipico del concorrente esterno, di natura materiale o morale, diverso ma operante in sinergia con quello dei partecipi interni, abbia avuto una reale efficienza causale, sia stato condizione "necessaria" - secondo un modello unitario e indifferenziato, ispirato allo schema della condicio sine qua non proprio delle fattispecie a forma libera e causalmente orientate - per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo e per la produzione dell'evento lesivo del bene giuridico protetto, che nella specie è costituito dall'integrità dell'ordine pubblico, violata dall'esistenza e dall'operatività del sodalizio e dal diffuso pericolo di attuazione dei delitti scopo del programma criminoso» (Cass., sez. un., 12 luglio 2005, Mannino, citata).
Sicché, secondo la giurisprudenza di legittimità, dovrebbe rispondere di tentato furto il palo distratto che non sia stato capace di impedire l’arresto in flagranza dei suoi complici. Ma secondo la più recente sentenza delle Sezioni unite non dovrebbe rispondere di partecipazione esterna in associazione mafiosa «l’uomo politico, che si impegna, a fronte dell'appoggio richiesto all'associazione mafiosa in vista di una competizione elettorale, a favorire gli interessi del gruppo», se non risulti «che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé ed a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell'accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell'intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali» (Cass., sez. un., 12 luglio 2005, Mannino, citata).
Questo orientamento restrittivo delle Sezioni unite è in realtà contraddetto da qualche successiva sentenza di legittimità che, richiamando i principi espressi in via generale nella interpretazione dell’art. 110 c.p., esclude sia «necessario individuare la sussistenza di un nesso di causalità tra la condotta dell'"extraneus" ed il mantenimento o il rafforzamento della cosca» (Cass., sez. II, 22 gennaio 2014, Crea, m. 258776).
Permane tuttavia nella giurisprudenza di legittimità una palese contraddizione tra l’orientamento prevalente in tema di concorso di persone nel reato, che ritiene sufficiente a integrare il concorso un contributo di agevolazione, indipendentemente dai risultati effettivamente ottenuti, e la prevalente giurisprudenza sullo specifico tema del concorso esterno in associazione mafiosa, che fa dipendere la punibilità della condotta dalla prova dell’effettiva determinazione di un risultato vantaggioso per l’associazione criminale.
È questa contraddizione tutt’altro che ossimorica, dunque, il vero problema della giurisprudenza sul concorso esterno in associazione mafiosa, perché pone in discussione il principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge (art. 3 coma 1 Cost.).