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Audizione presso le Commissioni Affari costituzionale e Giustizia del Senato sul ddl n. 1236 recante Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario

di Mauro Palma
già Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Presidente del Centro di ricerca European Penological Center, Dipartimento di Giurisprudenza, Università Roma Tre

Ringrazio, Presidente, Lei, le Senatrici e i Senatori per l’invito e per l’occasione. 

La complessità del tema mi induce a focalizzare le osservazioni solo ad alcuni specifici aspetti. In particolare, mi riferirò solo al Capo II e al Capo III del provvedimento in esame e, all’interno di questi, soltanto alcune di quelle previsioni normative che incidono sulla penalità o anche sulla complessiva privazione della libertà di carattere amministrativo.

Ritengo necessaria una complessiva premessa sulla intrinseca contraddittorietà del ricorso alla penalità quale strumento per contrastare effettivamente fenomeni e situazioni che altrove hanno origine e sviluppo; ancor più il ricorso a essa in contesti di marginalità sociale esterna, di esclusione o di quella specifica vulnerabilità dei diritti che connota le soggettività nei luoghi di privazione della libertà personale, siano essi il carcere o quei particolari luoghi – i Centri di permanenza per il rimpatrio – sui quali peraltro grava la criticità di una tutela giurisprudenziale non piena.

Il rischio non è tanto sulla stretta repressiva – altri provvedimenti anche di altri Governi sono andati in tale direzione – quanto di un mutato rapporto tra autorità e cittadino. Si può leggere nella linea che tiene insieme il provvedimento una implicita affermazione del possibile sacrificio dei diritti in nome di un principio fondante (una sorta di Gründungsprinzip) costituito dal mantenimento di un ordine sociale, predefinito come oggettivo e in realtà dipendente strettamente da una specifica lettura politica del presente e profilazione politica dei conseguenti interventi. I provvedimenti proposti su questa base divengono così da un lato sempre più rigidi, dall’altro sempre più direzionati a specifici settori sociali o a specifiche aree di comportamenti.

Questo aspetto è stato evidenziato in modo particolare dall’Associazione dei Professori di Diritto Penale (in una memoria inviata alla Commissione) che hanno espresso preoccupazione per una linea di sviluppo della politica criminale espressa dal ricorso al diritto penale in chiave simbolica di rafforzamento della sicurezza pubblica. 

Sei linee di sviluppo che connotano questo intervento, nell’area di mia considerazione in questa memoria, vanno in tale direzione e suscitano dubbi sotto il profilo della funzionalità normativa, della correttezza sociale, della compatibilità con principi generali dell’ordinamento; nonché con la loro possibile effettività nel ridurre quei fenomeni a cui si dichiara che gli interventi siano specificamente destinati. 

La prima è l’ineffettività frequente di quanto normato con i provvedimenti normativi che si sono succeduti negli anni. L’unica effettività è nel messaggio culturale che essi inviano, grave perché rafforza una errata idea di rassicurazione, pur mantenendo di fatto inalterata la situazione su cui intervengono. Valga come esempio la norma che ha introdotto la fattispecie di cui all’art. 391-ter c.p. (rubricata come «Accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti») che certamente non ha ridotto il problema dei telefoni cellulari introdotti negli Istituti. O anche, in un diverso contesto, non è certo l’introduzione dell’articolo 583-quater c.p. a poter garantire la non aggressività contro gli operatori dei servizi sanitari, quanto piuttosto la previsione di un maggior numero di operatori, di strutture informatiche di controllo e la presenza di personale addetto alla sicurezza. Il ricorso esteso al diritto penale non riesce mai a ridurre un fenomeno negativo, si limita a inseguirlo e però gioca parallelamente un ruolo di mera rassicurazione simbolica, così indebolendo progressivamente la sua funzione.

La seconda linea che emerge dalla lettura del provvedimento riguarda l’inasprimento del trattamento sanzionatorio di alcuni reati che finisce col suscitare problemi di mancata proporzionalità rispetto al fatto-reato. Così si enfatizza la rilevanza della resistenza a pubblico ufficiale, si accentuano le pene per i danneggiamenti, si punta l’attenzione sui comportamenti cosiddetti “di strada” (anche in nome del presunto valore del “decoro”). Dietro c’è l’ipotesi di utilizzo della penalità in funzione di prevenzione generale, nell’idea mai verificata che a pena edittale maggiore corrisponda minore tendenza alla commissione del reato. La consapevolezza di tale mancata corrispondenza è anche alla base del ricorso, in funzione della sempre maggior estensione della penalità, a forme "elastiche": forme troppo spesso sono presenti in questo testo. Per esempio, emblematica di questa elasticità linguistica è la circostanza aggravante applicabile a qualsiasi reato commesso «all’interno o nelle immediate vicinanze» di stazioni, metropolitane o altro (articolo 61 numero 11-decies c.p.) di cui all’articolo 11 co. 1 del provvedimento in esame. Un’aggravante introdotta per qualsiasi reato sulla base del luogo di commissione e non delle circostanze della commissione, delle modalità o delle vittime del reato stesso: la carenza di connessione con la specificità del reato indica una tassatività impropria nella sua applicazione.

La terza riguarda la tendenza a una penalità connotata dall’indirizzo verso destinatari specifici, in più senza alcuna considerazione dei fattori economici, sociali e culturali che in quei contesti interagiscono. In particolare, tale rischio di ricorso a un diritto penale definibile come “di autore” si manifesta in modo anche semi-esplicito con la previsione all’articolo 15 del testo in esame che dispone l’abrogazione dei numeri 1 e 2 del primo comma dell’articolo 146 c.p.. Il tutto nonostante che in anni recenti si siano sviluppati ampi dibattiti, con apparente largo consenso, sulla inaccettabilità dell’attuale situazione di bambini da 0 a 3 anni in carcere con le loro madri per gli effetti conseguenti sul loro equilibrato e armonico sviluppo. Ora si propone di tenere reclusi quelli tra 0 e 1 anno – implicitamente, purché appartenenti a particolari settori sociali. La prevalenza dell’interesse del minore – indicata e imposta dalla Convenzione delle Nazioni Unte si diritti dell’infanzia – non sembra essere stata considerata nel dovuto bilanciamento tra una presumibile situazione negativa del contesto di vita familiare e lo sviluppo libero della relazione affettiva nelle prime ore e nei primi giorni di vita. La nuova previsione normativa si pone in chiaro stridore con la considerazione di quel «senso di umanità» a cui richiama la Costituzione come principio che una pena non può negare. 

Del resto, la successiva disposizione di modifica dell’articolo 147 c.p. incide fortemente sulla relazione materna. Infatti interviene sul differimento della pena, distinguendo i casi in cui la prole sia tra 1 e 3 anni oppure tra 0 e 1 anno, nonché sulle ipotesi di revoca del differimento, prevedendolo anche nel caso in cui la madre non sia dichiarata decaduta dalla responsabilità genitoriale, qualora però la madre «ponga in essere comportamenti che causano un grave pregiudizio alla crescita del minore» (anche in questo caso l’accertamento pecca di tassatività documentabile). 

Lo stesso articolo prevede per le madri con prole inferiore a un anno, nei casi di non differimento della pena, che questa sia eseguita – obbligatoriamente – in un Istituto a custodia attenuata per mari (Icam); per le madri con prole tra 1 e 3 anni questa collocazione è invece una mera possibilità. 

Non tragga in inganno una norma apparentemente “protettiva” nei confronti del minore perché in realtà gli Icam disponibili sono solo a Torino, Milano, Venezia e Lauro e la misura “protettiva” diviene coattiva con detenzione in luoghi distanti dai propri contesti familiari. 

Sempre nel quadro di queste misure perimetrate attorno ad alcune tipologie sociali e irrelate rispetto alla considerazione dei contesti di appartenenza si pone anche l’articolo 16 del provvedimento in esame, in tema di accattonaggio. 

Questo insieme di misure stride con il complessivo quadro attuale del carcere, già fortemente destinato alla minorità sociale, con numeri molto alti di persone detenute senza il minimo sostegno sociale e a volte privi anche della consapevolezza soggettiva di dove siano e perché siano ristretti: attualmente in carcere quasi 1500 persone scontano una pena – non un residuo di pena maggiore – inferiore a un anno e tra ese più di 700 sono persone senza fissa dimora.

La quarta linea che caratterizza il provvedimento è l’incongrua è l’estensione del controllo penale. Lo fa attraverso le previsioni del nuovo secondo comma dell’articolo 415 c.p. e del nuovo articolo 415-bis. Da più parti si è scritto criticamente attorno a queste previsioni normative; ciò mi consente di essere più veloce attorno a esse. La rilevanza è esplicitamente data alle condotte di resistenza passiva che per numero o per contesto impediscano ai pubblici ufficiali o agli incaricati di un pubblico servizio il compimento degli atti d’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza: si concretizza nel qualificare tali condotte come «rivolta» e sanzionarle fortemente (anche in questo caso la questione della proporzionalità si pone). Questa dizione copre anche la mera resistenza passiva e, quindi, un atto non connotato da violenza o minaccia (per esempio il rifiuto di rientrare in cella o l’astensione diffusa dal cibo).

Va ricordato che l’ordinamento penitenziario ha già – nel suo articolo 41 – gli strumenti per affrontare la questione della resistenza passiva nei casi gravi, in base chiaramente però a un principio di proporzionalità.

«Articolo 41 o.p. (co. 1 e 2)
Non è consentito l'impiego della forza fisica nei confronti dei detenuti e degli internati se non sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all'esecuzione degli ordini impartiti. [la sottolineatura è mia]
Il personale che, per qualsiasi motivo, abbia fatto uso della forza fisica nei confronti dei detenuti o degli internati deve immediatamente riferirne al direttore dell'istituto il quale dispone, senza indugio, accertamenti sanitari e procede alle altre indagini del caso».

Ricordo anche che la questione del comportamento passivo è richiamata dall’articolo 53 c.p. laddove però nel «vincere una resistenza» la giurisprudenza (prevalente) ha chiarito che questa debba essere intesa come resistenza attiva. Non vi rientrano dunque i casi di resistenza meramente passiva. Anche nei pochi casi in cui la giurisprudenza ha considerato la rilevanza della passività (Cass pen. 01.2716) ha tuttavia sottolineato che dovessero ricorrere la necessità d’intervento e l’impossibilità di altri strumenti impeditivi, efficaci e proporzionati.

Inoltre, l’orientamento costante della giurisprudenza relativa all’articolo 337 c.p. è chiaro nell’indicare che la «resistenza passiva» non rileva nel configurare il delitto di resistenza a pubblico ufficiale. Sorge, quindi, un problema di equità perché lo stesso tipo di resistenza viene a essere punita in modo diverso se commesso da una persona in libertà o da una persona che sia detenuta o trattenuta in un Centro per il rimpatrio. Non solo, ma il rischio, già evidenziato da molti, è che la sostanziale equiparazione di fatto di tale comportamento a quello di violenza o minaccia finisca con l’aumentare il ricorso a tali condotte. 

Resta poi il dubbio di tassatività (art. 25 Cost) per quella vaghezza linguistica che caratterizza questi provvedimenti di ampio ricorso alla penalità: la formula adottata fa riferimento, oltre che al numero dei partecipanti alla resistenza passiva anche al «contesto» in cui questa si attua e tale contesto e un co-fattore della configurazione del comportamento in atto in termini di rivolta. La parola «contesto» lascia ampi e vaghi margini interpretativi: quali criteri definiscono in termini penalizzanti il «contesto» e come si applicano per la sua effettività applicativa?

Rileva, infine, all’interno delle considerazioni sviluppate secondo questa linea di analisi, la previsione del nuovo secondo comma dell’articolo 415 che interviene sulle forme comunicative tra persone detenute e in quelle tra l’esterno è l’interno di un Istituto. Norma che appare stridere – nella sua possibile attuazione preventiva – con le previsioni dell’articolo 18-ter o.p. che vincola il controllo della corrispondenza alla disposizione da parte dell’autorità giudiziaria.

La quinta linea che emerge dal provvedimento è l’estensione di questa disciplina relativa alla previsione del reato di rivolta anche per resistenza passiva, ai Centri di permanenza per il rimpatrio, intervenendo sull’articolo 14 del Testo Unico sull’immigrazione (d.lgs. 286/1998). Due aspetti vanno considerati in premessa. Il primo è che la tutela giurisdizionale in questi luoghi non può dirsi piena ed effettiva, avendo il Giudice di pace, titolare della convalida del trattenimento, soltanto una funzione inziale o puntiforme – per la convalida stessa, appunto, e per le sue proroghe – senza alcuna possibilità di controllo e vigilanza sulla vita all’interno dei Centri, cioè di vigilanza sullo svolgersi di quel trattenimento e, quindi, sulle concrete condizioni di detenzione. Questa previsione già di per sé può considerarsi stridente con la riserva che l’articolo 13 co. 2 Cost pone relativamente anche al controllo relativo ai «modi» in cui si attua la restrizione della libertà personale

Inoltre, i Centri di permanenza per il rimpatrio, la cui gestione è affidata a Enti privati, sono luoghi chiusi, senza relazione con l’esterno in cui nessuna attività è prevista né alcun supporto del volontariato – il disegno stesso di tali luoghi non è predisposto perché possa avvenirvi alcunché. All’interno sono trattenute soltanto persone straniere, di mille lingue e dialetti diversi con regole rigide che non prevedono possibilità espressive: solo a richiesta e sotto controllo, è possibile avere carta e penna. Impossibile pensare a qualsiasi articolazione di protesta o di confronto dialogico con il gestore in questo contesto. Se non il rifiuto: in questo caso la resistenza passiva è la forma dialogica meno grave in cui articolare il dissenso: una forma che andrebbe interpretata, decodificata e certamente non criminalizzata. Non vale l’equivalenza con la situazione carceraria, perché si tratta di una equivalenza soltanto "in negativo", nel senso che sono applicate in questi Centri tutte le regole d’ordine e repressive previste per il carcere, mentre non sono applicate le pur magre possibilità che il carcere può offrire. Così per le persone trattenute (anche fino a 18 mesi) resta soltanto la protesta del rifiuto di obbedire o quella dell’agire negativamente sulle cose o sul proprio corpo: del tagliarsi per esprimere il proprio dissenso oppure del dare luogo a comportamenti ben più gravi e indubbiamente da reprimere. In questo senso la previsione normativa, lungi dal produrre odine in questi luoghi ne diminuisce l’effettiva sicurezza.

Infine, la sesta linea che si evidenzia si esprime, sotto due aspetti che esulano alla perimetrazione a pochi punti relativa alla penalità che ho voluto porre all’attenzione. Il primo riguarda la previsione, introdotta nel passaggio del disegno di legge alla Camera dei deputati, all’articolo 27, punto 2 del provvedimento. Tale previsione incide sull’art. 19 co. 3-bis, primo periodo del decreto-legge 13/2017 (convertito in L. 13 aprile 2017 n. 17) nel senso che le parole «la realizzazione dei Centri di cui al comma 3» sono sostituite da «la localizzazione (la sottolineatura è mia) e la realizzazione dei Centri di nuova istituzione di cui al comma 3 nonché l’ampliamento e il ripristino dei Centri esistenti». Questa precisazione della «localizzazione» acquista valore nel contesto dell’articolo di riferimento in quanto tali strutture sono state già poste nell’ambito dell’articolo 233 del decreto legislativo 15 marzo 2010 n. 66, rubricato Codice dell’ordinamento militare, come novellato dal decreto-legge 124/2023 (convertito in L. 162/2023) che le prevede alla lettera s-bis) del punto 1. Per la realizzazione di tali strutture il Ministero della difesa è stato autorizzato – dal citato decreto-legge – ad avvalersi delle procedure di cui all’articolo 140 del codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36, articolo 140 rubricato procedure in caso di somma urgenza e di protezione civile), oltre all’applicazione della legge 717/1949 relativa alle strutture militari. 

Nonostante la novità introdotta dal decreto-legge 124/2023 l’intervento delle Regioni, competenti per la localizzazione, aveva in più casi impedito finora il sorgere dei Centri in talune aree del proprio territorio. Ora tale interferenza è annullata poiché anche la «localizzazione» passa alla competenza centrale, come strutture di cui al Codice dell’ordinamento militare.

Un ultimo accenno, infine, alla questione del permesso di soggiorno per acquistare una SIM. Una misura che, certamente in contrasto con la volontà del Governo proponente, rischia di favorire un commercio occulto di tali tessere telefoniche. I destinatari del provvedimento sembrano, infatti essere persone irregolarmente presenti sul territorio ma comunque perfettamente identificabili, a cui viene negata la possibilità di acquistare una SIM per il mero fatto di essere privi di un permesso di soggiorno.

A titolo di esempio ne risulterebbero coinvolti anche tutti coloro che sono in attesa di un permesso di soggiorno e che lo otterranno perché in regola con i parametri richiesti: persone non dell’Unione europea entrate regolarmente per motivi di lavoro e che attendono, dati i tempi di Questure e Prefetture, il permesso di soggiorno sarebbero così private del diritto ad acquistare una scheda telefonica e così altri gruppi in analoga situazione di attesa. Con effetti, per esempio, sul diritto alla salute (art. 32 Cost.) nell’impossibilità di contattare con urgenza un medico, sulla possibilità di partecipare a corsi di formazione in collegamento, sulla possibilità di contattare il proprio legale (art. 24 Cost.). Ciò anche al di là degli stridori che sorgono con gli articoli 3 e 15 della nostra Carta, perché tale previsione rischia di comprimere la libertà di comunicazione di un elevato numero di persone in maniera indiscriminata, in assenza di una ragionevole giustificazione. 

Anche questa previsione sembra viziata dall’eccesso di valore simbolico e dalla corrispondente assoluta impossibilità di perseguire l’obiettivo alla base della sua ideazione e formulazione.

Queste le sei linee di riflessione che, a mio parere, sorgono dalla lettura, seppure parziale, delle previsioni di cu al Capo II e III del provvedimento in esame e che pongo all’attenzione delle Senatrici dei Senatori delle Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato. Ringrazio nuovamente per l’occasione offerta all’audizione.

31/10/2024
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