Controvento
I magistrati non hanno, non “possono avere” avversari politici, ma restano liberi di maturare e manifestare, al pari di tutti i cittadini, valutazioni critiche sulle politiche economiche ed istituzionali. Si chiama libertà di pensiero, di espressione, di critica ed è a tutti garantita dalle nostre leggi. Al tempo stesso sarebbe desiderabile che alcuni politici non trattassero i giudici autori di provvedimenti sgraditi alla stregua di avversari o, peggio, di nemici politici, aggredendoli o dileggiandoli senza ritegno e senza limiti. E sarebbe ora che il Ministro della Giustizia, che per il suo ruolo istituzionale ha diritto al rispetto dei magistrati, cercasse anche di ricambiarlo, smettendo di rappresentare giudici e pubblici ministeri in termini caricaturali e mostrandosi consapevole che la magistratura è un corpo che unisce in sé un’elevata qualità culturale e professionale e una genuina dedizione a servire lealmente la Repubblica. In quest’aspra congiuntura la linea di condotta della nostra Rivista sarà quella tenuta in tutta la sua lunga vita: continuare a lavorare ed a studiare con spirito critico, replicando anche alle polemiche più accese con un instancabile esercizio di ragionevolezza.
Mentre comincia a diradarsi, grazie a illuminanti interventi svolti nel dibattito pubblico, la spessa cortina fumogena di slogan accattivanti innalzata dagli esponenti della maggioranza di governo intorno al progetto del premierato elettivo, si staglia con sempre maggiore nettezza l’inquietante figura di un “premier pigliatutto” in grado di controllare, grazie alla forza dell’investitura popolare ed al controllo della “sua” maggioranza, gli altri poteri dello Stato e di partecipare da protagonista assoluto alla provvista di tutti gli organi di garanzia. Parallelamente vengono alla luce i molti fili che legano il “premierato elettivo” e l’altra “grande riforma” costituzionale messa in cantiere dal governo, che si preannuncia come una integrale riscrittura dei rapporti tra i poteri dello Stato. Una riforma venduta all’opinione pubblica sotto la vecchia etichetta della separazione delle carriere ma in realtà finalizzata a smembrare il Consiglio superiore della magistratura e ad accrescere in maniera decisiva il peso della politica nel governo autonomo della magistratura.
E’ ancora possibile, nell’epoca della emergenza migratoria, ragionare dell’imparzialità dei magistrati andando oltre le aggressioni, le mistificazioni e l’elogio del silenzio e dell’ipocrisia?
Le reazioni politiche del Ministro della giustizia e del Presidente del Consiglio all’imputazione coatta decisa dal giudice nel caso Delmastro non esprimono solo il disappunto per una pronuncia sgradita ma contengono affermazioni di principio che sembrano preannunciare intenti di fuoriuscita dal nostro modello processuale. Teorizzare il ripristino di un monopolio assoluto ed incontrollato del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale; auspicare la rinascita di un suo insindacabile potere di cestinazione delle notizie di reato ; puntare a sottrarre l’organo di accusa al controllo giudiziale sulla sua eventuale inerzia: tutte queste scelte, che vanno in direzione dell’attribuzione di un amplissimo potere discrezionale al pubblico ministero, porrebbero – immediatamente o dopo un breve periodo di sperimentazione – il problema della responsabilità “politica” di tale ufficio. Le sortite ministeriali gettano dunque un fascio di luce sulla cultura e sulle opzioni di fondo del governo di centro destra in tema di assetto e di prerogative dell’ufficio del pubblico ministero e rendono chiaro che - con buona pace delle anime belle che “per ora” sostengono il contrario – non si mira affatto ad una separazione delle carriere di giudici e pm con il mantenimento del principio di obbligatorietà dell’azione penale e di garanzie di indipendenza dell’ufficio del pubblico ministero. Cerchiamo di spiegare come e perché l’innesto sul tronco del nostro ordinamento processuale di una logica mutuata da altri contesti istituzionali- segnatamente quello statunitense - avrebbe come ineluttabile effetto la radicale trasformazione della fisionomia del pubblico ministero e reclamerebbe o la sua sottoposizione all’esecutivo o una scelta per l’elettività.
E’ sempre più frequente la contestazione da parte di Procure della Repubblica del reato di associazione a delinquere nei confronti di quanti - partecipando a forme non ortodosse di protesta sociale, di azione sindacale, di solidarietà – possono incorrere in violazioni della legge penale. E’ una tendenza che si è manifestata in tre recenti vicende giudiziarie tra di loro diversissime -Riace, Piacenza e Padova – e che ha un inquietante tratto comune: induce a guardare fenomeni sociali complessi attraverso la lente monocromatica della criminalizzazione che trasforma gruppi ed aggregazioni in altrettante associazioni criminali ed i mezzi illegali eventualmente utilizzati negli unici e veri scopi dell’azione collettiva.
Sommario: 1. Una riforma della giustizia contestata in nome della democrazia - 2. Nel confronto politico in atto è in gioco l’identità democratica di Israele - 3. Il peso decisivo rivendicato dall’esecutivo nella selezione dei giudici - 4. La riscrittura dei poteri della Corte suprema e del Parlamento - 5. C’è spazio per un compromesso? E per quale compromesso?
I regimi che pretendono di legittimarsi e di governare in nome di un Dio sono i più oppressivi di tutti perché aspirano a disciplinare ogni aspetto della vita, penetrando la politica, il diritto, il costume, la dimensione privata.
Perciò la rivolta contro l’oppressione può assumere come sua prima forma la rivendicazione di libertà elementari negate nella sfera individuale e sociale – la scelta dell’abbigliamento, il ballo, il canto, l’affettività, la vita di relazione – scontrandosi frontalmente con steccati e divieti come l’apartheid femminile e con le enormi diseguaglianze attuate e perpetuate in nome della religione.
E’ quanto sta oggi accadendo in Iran, attraversato da un potente moto di ribellione popolare al totalitarismo teocratico dominante nel Paese.
Un movimento di giovani - spontaneo e diffuso e perciò difficile da decapitare con gli arresti, in larga misura non violento ma radicale perché mira al cuore della Repubblica islamica - sta dando vita ad una protesta rivoluzionaria. Lo fa sotto lo sguardo disattento e distratto dell’Occidente liberale e democratico e nel silenzio delle destre mentre in Italia la stordita e frammentata congerie di forze che sta all’opposizione o tace - con la sola eccezione dei radicali- o si esprime con voce flebile, mostrandosi incapace di incisiva solidarietà e di effettivo sostegno alla lotta di emancipazione e di liberazione in corso in Iran.
La piena libertà per le diverse fedi e sensibilità religiose garantita negli Stati democratici di diritto deve accompagnarsi, in Europa e nel mondo, al radicale contrasto di ogni forma di fanatismo, di intolleranza, di terrorismo e di repressione posti in essere invocando pretestuosamente la religione islamica o qualsiasi altra fede o guerra santa. Quando gli studenti iraniani gridano contro i guardiani della rivoluzione: «voi siete il nostro Isis» colgono il nesso che corre tra la violenza terrorista in Europa e in Oriente e l’oppressione interna esercitata da un regime teocratico.
La “storica” decisione della CEDU di condanna dello Stato italiano per violazione dell’art. 8 della Carta afferma il diritto della donna che denuncia una violenza sessuale al rispetto della sua vita privata, anche da parte dei Giudici che ne esaminano la credibilità, che non può essere affermata o negata in base alle sue abitudini sessuali, ed alle sue libere scelte di comportamento, in applicazione di canoni di moralità che rispecchiano stereotipi superati sul ruolo delle donne. Lo Stato è tenuto alla tutela della libertà della persona, e della sua dignità, tanto più nell’occasione dell’esercizio dell’attività giurisdizionale: un principio che Questione giustizia vuole rilanciare nel giorno della ricorrenza della istituzione della Repubblica italiana.
Nel Paese si assiste a un paradosso. A fronte del fittissimo reticolo di prescrizioni e di sanzioni per il contenimento del contagio si registra l’assenza di regole flessibili ma vincolanti e cogenti per lo svolgimento della campagna vaccinale, unica misura realmente decisiva per contrastare e debellare la diffusione del virus; con l’effetto di perpetuare un caos iniquo e dalle conseguenze potenzialmente tragiche. Esistono però le condizioni politiche ed istituzionali per dar vita ad un rapido intervento ordinatore dello Stato e per istituire forme di efficace deterrenza dirette a contrastare abusi e favoritismi.
La nuova ondata della pandemia tra preoccupazione, paura, negazionismo, impreparazione e improvvisazione. Gli uffici giudiziari penali, la loro organizzazione, l’esigenza di rendere comunque giustizia e di pensarsi come collettività.
La società aperta e policroma che i democratici auspicano non sarà realizzabile senza la quotidiana fatica di “tutti” di adattarsi alla libertà: di pensiero, di parola, di ricerca, di insegnamento, di satira. Per questo le parole - sagge - di quanti invitano al rispetto delle differenti convinzioni religiose e delle diverse sensibilità non possono essere né dette né interpretate come un invito all’autocensura o come un arretramento, sul piano giuridico o anche solo culturale, sul tema cruciale della libertà di espressione.