1. La magistratura al centro di spinte contrastanti
C’è un susseguirsi di consensi e dissensi, di aperture di credito e di preclusioni, di indicazioni correttive o alternative sulle proposte di riforma del processo penale messe in campo dal governo Draghi.
Non ci si misura solo con le tradizionali difficoltà a trovare ragionevoli convergenze sui temi della giustizia penale.
A complicare il quadro e ad alimentare reazioni di diverso segno ha infatti concorso un rapido e inaspettato cambio di prospettiva.
Al meditato e organico contributo di analisi della relazione della Commissione Lattanzi ha fatto seguito una mediazione politica che ha alterato in più punti l’originaria fisionomia della proposta riformatrice, generando effetti a cascata sui quali non si è forse ancora riflettuto abbastanza.
E’ in questo difficile contesto che si muove la magistratura italiana, situata al centro di opposti campi magnetici e delle contrastanti linee di forza che da essi si sprigionano ed oggi sospesa tra consapevolezze e timori.
I magistrati “sanno” che vi è un assoluto bisogno di interventi riformatori del processo penale che restituiscano alla giustizia penale un accettabile grado di efficienza, efficacia e celerità.
Oltre al suo valore intrinseco, il raggiungimento di questi obiettivi è uno dei presupposti indispensabili perché risulti credibile agli occhi della collettività il parallelo lavoro di risanamento etico faticosamente intrapreso in questi anni.
Se la giustizia rimane lenta, farraginosa, inefficace, una migliore “amministrazione della giurisdizione” che corregga errori e cattive prassi nel governo autonomo della magistratura non basterà, da sola, a ripristinare la fiducia dei cittadini.
Ed è altrettanto evidente che solo la tempestiva adozione di buone leggi di riforma può garantire il cambio di rotta necessario ad evitare il naufragio della giustizia sugli scogli dei referendum.
Referendum abborracciati e improbabili (alcuni irrilevanti, altri di contenuto regressivo, altri ancora inammissibili) che, però, senza una rapida virata, finirebbero con l’apparire, sia pure ingannevolmente, l’unica alternativa praticabile all’immobilismo sul fronte riformatore.
Al tempo stesso la magistratura teme il ripetersi di un copione già visto.
Il timore è che la politica si ritenga paga di consegnare a pubblici ministeri e giudici riforme mal calibrate e inadeguate, presentandole all’opinione pubblica come interventi risolutivi; con l’effetto oggettivo di caricare sulle spalle degli operatori della giustizia il peso dei possibili fallimenti.
In passato non sono mancate operazioni di questa natura che sono state almeno in parte scongiurate per la loro evidente strumentalità o per la modesta o nulla rispettabilità politica dei proponenti.
Ma oggi, paradossalmente, è proprio il capitale di credibilità di cui giustamente godono il Presidente Draghi e la Ministra Cartabia a rendere più insidiosa la prospettiva di una fiduciosa approvazione di riforme che alla prova dei fatti possano rivelarsi impari alle attese ed alle speranze suscitate.
E’ un timore razionale quello di cui parliamo che non può essere esorcizzato da generiche dichiarazioni di apertura né vinto da slanci generosi ma va superato analizzando con freddezza le ragioni che lo ispirano e lavorando per sgombrare il campo dai motivi di preoccupazione.
2. Il fattore tempo
All’origine delle maggiori difficoltà sta, ad avviso di chi scrive, il mediocre compromesso politico realizzato sul nodo cruciale dell’intervento riformatore: il fattore tempo.
Scorrendo l’ideale quadro sinottico a tre colonne che vede allineati il disegno di legge delega del Ministro Bonafede (Atto Camera 2435), l’articolato normativo proposto dalla Commissione Lattanzi e il complesso degli emendamenti della Ministra Cartabia si colgono le notevoli differenze di impostazione tra i tre testi e in particolare si nota la diversa attenzione riservata alle misure in grado di garantire una ragionevole durata dei processi.
Nella relazione e nell’articolato normativo ad essa allegato, la Commissione ministeriale presieduta da Giorgio Lattanzi si era mostrata consapevole che la riduzione dei tempi dei processi penali non si proclama né si realizza per decreto ma può scaturire solo da una pluralità di interventi innovativi e coraggiosi, destinati da incidere su diversi aspetti della giurisdizione penale e su diverse fasi del processo.
Naturalmente una politica della ragionevole durata del processo non si esaurisce neppure nella disciplina processuale giacché ha bisogno – come peraltro il PNRR prevede - di investimenti in strutture, dotazioni tecnologiche, personale di supporto oltre che di una ragionevole intensità di lavoro dei magistrati e di tutti gli operatori della giustizia.
Ma ogni politica è destinata a sicuro insuccesso se il processo si rivela un pozzo senza fondo per effetto di meccanismi processuali che determinano la vuota dispersione di energie e non favoriscono un uso oculato della risorsa scarsa e costosa del processo penale.
Di qui la scelta della Commissione di formulare un insieme di proposte operative miranti a realizzare quattro grandi obiettivi : incisiva deflazione del carico giudiziario, più ampio accesso alle alternative al processo, filtri più rigorosi dei processi destinati al dibattimento, significativa riduzione delle impugnazioni.
3. La retromarcia della politica
Su almeno tre di questi versanti gli emendamenti presentati dalla Ministra della Giustizia al ddl delega del Ministro Bonafede rappresentano un passo indietro.
a) In primo luogo appaiono ridotti e depotenziati gli strumenti miranti alla deflazione dell’insostenibile carico penale immaginati dalla Commissione.
Negli emendamenti ministeriali non vi è infatti più traccia dell’istituto dell’archiviazione meritata che la Commissione Lattanzi aveva proposto di innestare nel nostro ordinamento in considerazione della buona prova offerta in numerosi altri Paesi.
Si è così rinunciato ad un istituto che avrebbe permesso «di non esercitare l’azione penale (o di estinguere l’imputazione in un momento successivo alla sua formulazione), laddove questa appaia oggettivamente superflua, perché l’indagato (o, a seconda dei casi, anche l’imputato) ha posto in essere condotte positive nei confronti della collettività e/o della vittima di reato, idonee a compensare l’interesse pubblico e privato leso»[1].
Più circoscritti (ma non insignificanti, come dimostra il puntuale raffronto tra i testi) gli scostamenti tra Commissione e Ministero riguardanti altri due fondamentali meccanismi deflattivi: la «non punibilità per tenuità del fatto»[2] e la «sospensione del processo per messa alla prova»[3].
Meccanismi che la Commissione aveva proposto di ampliare più generosamente e la cui portata il Ministero ha inteso ridurre, dando l’impressione che in sede di mediazione politica la linea del rigorismo abbia cercato e ottenuto piccole vittorie rispetto alla più radicale e coraggiosa impostazione dell’organismo consultivo.
b) Anche sui procedimenti speciali e segnatamente sul patteggiamento la proposta del Ministero si attesta su scelte estremamente più caute e restrittive (e perciò meno intensamente deflattive) rispetto a quelle prospettate dalla Commissione.
Quest’ultima si era spinta a ritenere opportuna una «riduzione per il rito fino alla metà della pena in concreto» ed a suggerire l’eliminazione delle preclusioni oggettive e soggettive al patteggiamento previste dal comma 1 bis dell’art. 444 c.p.p.[4] mentre il testo del Ministero si limita a ribadire che «quando la pena detentiva da applicare supera due anni, l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata», con il corollario che «in tutti i casi di applicazione della pena su richiesta, l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare».
c) Del tutto abbandonata, infine, appare la prospettiva di una incisiva riduzione dei giudizi di appello, da realizzare attraverso le numerose ipotesi inappellabilità suggerite dalla Commissione ministeriale: inappellabilità delle sentenze di condanna e di proscioglimento da parte del pubblico ministero; inappellabilità per l’imputato delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa; inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e dei capi civili delle sentenze di condanna ad opera della parte civile in sede penale.
Il nascente dibattito sulle ragioni ispiratrici e sulla legittimità dell’esclusione dell’appello del pubblico ministero (e correlativamente dei molto più numerosi appelli delle parti civili) è dunque superato dalla scelta del Ministero, che si limita a riproporre le limitate ipotesi di inappellabilità già contemplate nel ddl Bonafede riguardanti le sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa e la sentenza di condanna sostituita con il lavoro di pubblica utilità.
Non è facile comprendere le ragioni della repentina rinuncia da parte del Ministro in carica a così tanti punti, numerosi e qualificanti, del progetto innovatore frutto della Commissione da lei stessa incaricata.
Lasciamo agli specialisti dei retroscena politici il compito di offrire credibili risposte a questo interrogativo.
Registriamo però che la combinazione di minore deflazione, meno agevole accesso alle alternative al processo e rinuncia al ridimensionamento delle impugnazioni allontana il raggiungimento, attraverso percorsi fisiologici, dell’obiettivo della ragionevole durata del processo e drammatizza ulteriormente il nodo, da sempre aggrovigliato, della prescrizione.
Così che la vistosa retromarcia innestata dal governo rischia di sostituire alla razionalità processuale un comando politico astratto e velleitario sui tempi da rispettare nelle fasi di giudizio successive al primo grado.
4. Una terza via sulla prescrizione?
L’inadeguatezza dell’approccio prescelto si rivela appieno a fronte del difficile compito di individuare soluzioni accettabili all’annosa questione della prescrizione.
Su questo terreno il Ministro ha scelto una terza via rispetto alle alternative che si erano delineate nel corso degli anni e che erano state ben descritte e sistematizzate dalla Commissione Lattanzi.
Da un lato c’era la prospettiva, più aderente al regime tradizionale della nostra prescrizione, di mantenere in vita i termini di prescrizione sostanziale dei reati, sospendendoli e facendoli rivivere in caso di sforamento dei termini temporali previsti per i giudizi di appello e di cassazione[5].
Sull’altro versante si profilava la possibilità di mutare sistema, optando per la cessazione della prescrizione in coincidenza con l’esercizio dell’azione penale e per l’ingresso del processo in un nuovo regime di «prescrizione processuale» concernente i tre gradi del giudizio penale[6].
Il tertium genus oggi proposto nasce da una meccanica operazione di addizione.
Al vigente regime della prescrizione adottato dalla maggioranza Cinque Stelle – Lega su impulso del Ministro Bonafede (regime evidentemente ritenuto intoccabile per salvaguardare gli equilibri politici della maggioranza) si intende sommare un successivo dispositivo processuale che sanziona con l’improcedibilità i giudizi di appello e di cassazione non celebrati entro i tempi previsti dal legislatore.
Si è dinanzi ad un sistema ibrido, in grado di produrre non pochi effetti paradossali, tempestivamente messi in luce nel dibattito che si è immediatamente sviluppato su molteplici media: non solo la stampa quotidiana e le riviste ma anche le mailing list e le chat che raccolgono le obiezioni, le reazioni e le preoccupazioni dei magistrati.
Ci saranno processi rapidamente definiti in primo grado che si estingueranno per il mancato rispetto dei termini per la celebrazione del giudizio di appello quando sarà ancora lontano il termine di prescrizione previsto dalla preesistente normativa.
Così come ci saranno processi che si concludono a ridosso della scadenza del previgente termine di prescrizione e che verranno prolungati dall’entrata in funzione degli ulteriori termini procedurali introdotti per appello e cassazione.
Ne verrà sconvolta tutta la logica che collega la prescrizione al decorso di un determinato lasso di tempo dalla commissione del reato in ragione dell’oblio prodotto dal tempo e del venir meno dell’interesse pubblico alla repressione di fatti criminosi molto risalenti nel tempo.
Ma al di là di questi effetti (che potrebbero essere minimizzati perché ritenuti occasionali, marginali e non decisivi) conteranno le già dichiarate inadeguatezze di importanti Corti di appello a rispettare i termini biennali o triennali (a seconda della gravità dei reati) contemplati dalla nuova normativa che si vuole introdurre.
Inadeguatezze, si badi, che resteranno irrisolte anche a causa della drastica riduzione dei meccanismi di deflazione prefigurati nei lavori della Commissione Lattanzi.
Né, in relazione alle Corti di appello più efficienti e virtuose - in teoria in grado di rispettare i tempi che saranno fissati dal legislatore - ci si può troppo fidare di “medie temporali” di smaltimento che possono soffrire eccezioni proprio per i processi più complessi e di maggior impatto pubblico.
L’ibrido «prescrizione sostanziale operante lungo l’arco del giudizio di primo grado – improcedibilità per superamento dei termini nei gradi successivi» rischia dunque di fallire il suo pur condivisibilissimo scopo di non relegare in una sorta di lungo o lunghissimo limbo i processi conclusi in primo grado nel rispetto dei termini della prescrizione sostanziale.
Sembra opportuno, perciò, abbandonare i puntigli politici e le proclamazioni di facciata che hanno ispirato il mediocre compromesso di cui parliamo, ritornando a considerare le soluzioni e le alternative limpidamente indicate dai tecnici incaricati del compito di districare la matassa della prescrizione e della ragionevole durata del processo penale.
Alla politica spetta naturalmente il compito di scegliere ed essa è oggi nelle migliori condizioni per farlo, rispettando le incalzanti scadenze previste per l’erogazione dei fondi europei per la giustizia.
Ma scegliere non significa confezionare l’ennesima soluzione farraginosa e confusa lasciando gli operatori della giustizia l’onere di aggirarsi nel labirinto creato dal gioco perverso dei veti, dei postulati pseudo ideologici, delle necessità propagandistiche.
[1] In questi termini la relazione della Commissione Lattanzi.
[2] La Commissione Lattanzi suggeriva di «prevedere come limite all’applicabilità della disciplina dell’articolo 131-bis del codice penale, in luogo della pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, la pena detentiva non superiore nel minimo a tre anni, sola o congiunta a pena pecuniaria, ferme restando le esclusioni di cui al secondo comma» mentre il testo del Ministro propone di «prevedere come limite all’applicabilità della disciplina dell’articolo 131-bis del codice penale, in luogo della pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, sola o congiunta a pena pecuniaria; ampliare conseguentemente, se ritenuto opportuno sulla base di evidenze empirico-criminologiche o per ragioni di coerenza sistematica, il novero delle ipotesi in cui, ai sensi del secondo comma dell’articolo 131-bis del codice penale, l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità».
[3] La proposta della Commissione era di «estendere l’ambito di applicabilità della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, oltre ai casi previsti dall’articolo 550, comma 2, del codice di procedura penale, ad ulteriori specifici reati, puniti con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a dieci anni, che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto», mentre l’emendamento ministeriale riduce la portata dell’innovazione proponendo di «estendere l’ambito di applicabilità della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, oltre ai casi previsti dall’articolo 550, comma 2, del codice di procedura penale, ad ulteriori specifici reati, puniti con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni, che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto».
[4] Questo il testo del comma 1-bis dell’art. 444 c.p.p.: «Sono esclusi dall'applicazione del comma 1 i procedimenti per i delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, i procedimenti per i delitti di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, primo, secondo, terzo e quinto comma, 600-quater, secondo comma, 600-quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies, nonché 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies del codice penale, nonché quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi dell'articolo 99, quarto comma, del codice penale, qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria».
[5] Si proponeva infatti che l’articolo 159, secondo comma, del codice penale venisse sostituito dai seguenti commi: «Il corso della prescrizione, in seguito alla sentenza di condanna di primo grado, rimane sospeso per un tempo non superiore a due anni. Quando la pubblicazione della sentenza di appello non sopravviene prima della scadenza del termine della sospensione, cessano gli effetti di questa, la prescrizione riprende il suo corso e il periodo di sospensione è computato ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere.
Il corso della prescrizione, in seguito alla sentenza di appello che conferma la condanna di primo grado, rimane sospeso per un tempo non superiore a un anno. Quando la pubblicazione della sentenza della Corte di cassazione non sopravviene prima della scadenza del termine della sospensione, la prescrizione riprende il suo corso e il periodo di sospensione è computato ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere.
I periodi di sospensione previsti dai commi precedenti decorrono dalla scadenza del termine per proporre impugnazione.
Nel giudizio di rinvio si osservano le disposizioni dei commi precedenti.
Se durante i periodi di sospensione di cui al secondo e al terzo comma si verifica una causa di sospensione prevista dal primo comma la loro durata è prolungata per il tempo relativo a tale causa».
[6] In quest’ottica si suggeriva l’introduzione nel codice penale di una norma che stabilisse che «Il corso della prescrizione del reato cessa definitivamente, in ogni caso, con l’esercizio dell’azione penale» e l’adozione di una nuova norma – l’art. 344 bis del codice di procedura penale (Improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del processo) del seguente tenore:
1. La mancata definizione del giudizio di primo grado entro il termine di quattro anni dall’esercizio dell’azione penale costituisce causa di improcedibilità della stessa. Nei processi con udienza preliminare il termine di durata è prolungato di sei mesi.
2. La mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di tre anni dalla presentazione dell’atto di appello costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale.
3. La mancata definizione del giudizio di cassazione entro il termine di due anni dalla presentazione del ricorso costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale.
4. Per i delitti puniti con l’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti, e per i delitti di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), i termini di durata massima del processo possono essere sospesi per giusta causa con ordinanza del giudice procedente, su richiesta del pubblico ministero, per un periodo non superiore a sei mesi per ogni grado di giudizio.
5. I termini previsti dai precedenti commi sono sospesi nei casi previsti dall’articolo 159, primo comma, del codice penale.
6. La declaratoria di improcedibilità non ha luogo quando l’imputato chiede la prosecuzione del processo.
7. La definizione del processo con sentenza irrevocabile di assoluzione, entro i termini massimi di durata, anche se sospesi, che risultino superiori ai termini di ragionevole durata del processo di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, non esclude il diritto all’equa riparazione attraverso l’indennizzo previsto dalla legge stessa».