1.
I più diffusi organi di stampa e di comunicazione hanno dato giusto risalto alla notizia della condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il 27 maggio scorso (Affaire J.L. c. Italie), nei confronti dello Stato Italiano per la violazione dell’art. 8 della Carta EDU, che garantisce il diritto al rispetto della vita privata e che esclude che una autorità pubblica possa ingerirsi nell’esercizio di questo diritto, se non nei ristretti limiti previsti dalla legge, per l’attuazione di misure che in una società democratica siano necessarie alla sicurezza nazionale, alla sicurezza pubblica, al benessere economico del paese, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
In sintesi, l’accusa allo Stato italiano fa seguito all’assoluzione definitiva degli imputati dall’accusa di aver compiuto una violenza sessuale di gruppo, avendo i giudici ritenuto la denunciante non credibile, non solo in considerazione delle incoerenze interne del racconto, della mancanza di riscontri esterni, ed anzi della presenza di elementi di segno contrario alla versione dei fatti da lei resa, ma altresì sulla scorta di ripetuti riferimenti alla vita privata della denunciante, alla sua vita familiare ed alle sue abitudini sessuali, e persino alle sue passate espressioni artistiche, nonché agli atteggiamenti tenuti in pubblico nei momenti precedenti l’episodio denunciato. Dall’esame di tale complesso di elementi i Giudici nazionali (la Corte d’appello di Firenze, in particolare) hanno giustificato l’assoluzione degli imputati, ritenuta provata la presenza di un consenso preventivo da parte della donna ai rapporti sessuali con alcuni degli imputati, nonostante il suo accertato stato di alterazione alcolica.
Pur premettendo che la questione della verifica della credibilità della vittima di violenza è “particolarmente cruciale” in tale tipo di processi, la CEDU esclude tassativamente che a tal fine possano essere utilizzati riferimenti alla condizione familiare della denunciante, alle sue relazioni sentimentali ed ai i suoi orientamenti sessuali o ancora alle sue scelte su come vestirsi (visto il riferimento dei Giudici italiani all’esibizione della biancheria intima di colore rosso) ed alle sue precedenti attività di carattere artistico o culturale.
La violazione dell’art.8 consiste dunque nella mancata osservanza del dovere di proteggere l’immagine, la dignità e la vita privata delle vittime di violenza, anche attraverso il riserbo sui dati personali che non abbiano relazione con i fatti. In tal senso, la facoltà concessa ai giudici di esprimersi liberamente nelle decisioni, che è manifestazione della discrezionalità del loro potere e del principio dell’indipendenza della giurisdizione, trova limite nell’obbligo di proteggere l’immagine e la vita privata dei soggetti coinvolti dall’attività giurisdizionale da ogni ingiustificato attacco.
Al di là della singola vicenda, la Corte EDU formula un giudizio molto severo sulla giustizia italiana e sulla sua capacità di contrasto delle discriminazioni di genere. Il settimo rapporto sull’Italia del Comitato ONU per l’eliminazione della discriminazione ai danni delle donne, e il rapporto del GREVIO (Gruppo di esperte sulla violenza contro le donne, organismo indipendente del Consiglio d’Europa che monitora l’applicazione della Convenzione di Istanbul in tutti i paesi che l’hanno ratificata), osserva la CEDU, non si sono limitati a constatare la persistenza di stereotipi concernenti il ruolo delle donne e la resistenza della società italiana rispetto alla causa dell’uguaglianza dei sessi: entrambi i rapporti hanno puntato il dito contro il tasso, poco elevato, di processi penali e di condanne in Italia, ciò che rappresenta la causa di una mancanza di fiducia delle vittime nel sistema della giustizia penale, e parimenti la ragione dello scarso numero di denunce di questo tipo di delitti nel Paese.
Per tornare al caso specifico, secondo la CEDU, il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello veicolano i pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che sono suscettibili di ostacolare una protezione effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere, pur a scapito di un quadro legislativo soddisfacente. Posto che le indagini e le sanzioni penali assumono un ruolo cruciale nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta contro la diseguaglianza tra i sessi, è di importanza fondamentale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre nelle decisioni degli stereotipi sessisti, di minimizzare le violenze poste in essere e di esporre le donne ad una vittimizzazione secondaria, utilizzando dei termini colpevolizzanti e moralizzatori capaci di intaccare la fiducia delle vittime nella giustizia.
Di conseguenza, pur riconoscendo che le autorità nazionali hanno posto attenzione a che l’indagine e il dibattimento fossero condotti nel rispetto delle obbligazioni positive che derivano dall’art. 8 CEDU, la Corte considera che i diritti e l’interesse della denunciante derivanti dallo stesso articolo della Carta non siano stati adeguatamente protetti alla luce del contenuto della sentenza, che non si è fatta carico di proteggere la denunciante da una vittimizzazione secondaria durante tutta la procedura, di cui la redazione della sentenza è parte integrante della maggiore importanza, tenendo conto del suo carattere pubblico.
2.
Non stupisce che alla condanna dello Stato italiano si sia dato tanto risalto, e che anzi la sentenza venga definita “storica” nell’affermazione di principi che di qui in avanti non potranno più essere trascurati o minimizzati nella loro portata. La decisione punta il dito contro quei Giudici, ma a ben vedere è della società italiana che parla, della sua impermeabilità ad una seria evoluzione in senso paritario, della sua resistenza a superare quegli stereotipi che relegano la donna in ruolo subalterno, funzionale ad un modello di società ancora fermo a schemi patriarcali, e che collega automaticamente la sua libertà comportamentale e sessuale al giudizio (morale, prima, e processuale poi) di inattendibilità. Ai Giudici si imputa di non aver saputo superare quelle barriere culturali, e di non aver sentito il dovere di sottrarsi a quei pregiudizi ed a quegli stereotipi, andando ad estendere il loro giudizio (sulla persona, più che sui fatti) ben oltre quello che era loro richiesto al fine di compiere l’esame doveroso della credibilità della denunciante. Le loro motivazioni dimostrano quanto siano ancora lontani l’affermazione di una cultura della parità, e più in generale, il superamento di ogni discriminazione, anche per via giudiziaria, dal momento che, come insegna la CEDU, è nelle aule di giustizia che si gioca un ruolo cruciale nel contrasto istituzionale alla violenza di genere e nella lotta contro la diseguaglianza tra i sessi.
L’insegnamento, ed il monito, si spingono però oltre la richiesta di un maggiore rispetto della vita privata della persona, e in particolare della donna che denuncia di avere subito una violenza sessuale. La vittimizzazione secondaria, cioè l’esposizione a processi di svalorizzazione e di intromissione nella sfera personale della denunciante, è ricaduta negativa, da stigmatizzare con severità, prescindendo dall’esito del processo, anche quando come nel caso di specie il reato è stato escluso e dunque è stato negato il riconoscimento del danno arrecato. Pur in assenza di un accertamento che riconosca alla donna che ha denunciato il ruolo di “vittima” del reato, non può lo Stato farsi artefice di atteggiamenti che alla persona arrechino comunque conseguenze negative che derivano dall’espressione di giudizi sulla sua condotta personale: lo Stato, in altri termini, non può fare della donna una “sua” vittima, nel valutare la sua denuncia (in piena indipendenza, come è sua facoltà, secondo il principio del libero convincimento, ma senza far venir meno il rispetto che è dovuto alla persona ed alla sfera della sua vita privata). Perché chi si rivolge alla giustizia per ottenere tutela deve sapere che il suo racconto, la sua credibilità saranno accuratamente ed imparzialmente verificati, innanzitutto attraverso la valutazione della coerenza intrinseca del racconto: però chi denuncia ha sempre il pieno diritto a che quella attendibilità o inattendibilità non siano desunte dalle sue abitudini sessuali e comunque dalle sue libere scelte di vita, sulle quali la pubblica autorità che giudica di un fatto non ha alcuna facoltà di formulare un giudizio di disvalore, sulla base di un qualunque canone di moralità, fosse anche in ipotesi quello prevalente nella società.
La CEDU ricorda ai cittadini, non solo ai magistrati, quanto sia terribile il potere di giudicare, e quale regola di continuo rigore e di autocontrollo sia imposta a chi è chiamato ad esercitarla. Soprattutto, quale sforzo inesauribile sia chiesto, perché ogni giudizio sia sottoposto sempre, in ogni frangente, alla verifica di tenuta nel confronto con la realtà fattuale, senza che ad essa sia consentito sovrapporre la lente della propria visione etica del mondo: lente che può arrivare a deformare la ricostruzione della verità processuale, e che comunque risulta indebita e lesiva del diritto delle persone a vedere rispettati i propri modelli e stili di vita, le proprie scelte ed attitudini. Tanto più dannosa, in quanto incapace di liberarsi di incrostazioni culturali e schemi sociali che non consentono alle donne di uscire da ruoli predeterminati e da stereotipi ormai inaccettabili, incompatibili con una società moderna, paritaria, democratica.
Una lezione di civiltà, prima che di diritto, che andrà tenuta ben presente di qui in avanti.