Le pronunce di gennaio della Corte Edu qui selezionate riguardano gli obblighi di protezione dello Stato di fronte a un fenomeno di inquinamento diffuso, il diritto di essere presunti innocenti in fase di indagini e la tutela della libertà sessuale all’interno del rapporto tra coniugi.
In Cannavacciuolo e Altri c. Italia, la Corte accerta la responsabilità statale relativa all’inerzia nell’affrontare il fenomeno di inquinamento diffuso derivante dallo scarico, dall’interramento o dalla combustione di rifiuti su terreni privati, effettuati da gruppi criminali organizzati, nelle zone della Campania note come Terra dei Fuochi, dove vivono circa 2,9 milioni di persone che ha portato ad un sensibile aumento dei tassi di cancro. La Corte ha rilevato che lo Stato italiano non ha affrontato una situazione così grave con la diligenza e la tempestività necessarie, nonostante fosse a conoscenza del problema da molti anni.
In Yoncheva c. Bulgaria, la Corte di Strasburgo bilancia la facoltà d’informare la collettività circa i procedimenti penali d’interesse generale (nel caso di specie, mediante comunicato stampa della Procura) col diritto dell’indagata, giornalista e politica bulgara, di essere presunta innocente, in forza della differenza tra il delineare uno stato di sospetto e il prospettare gli elementi da provare come già dimostrati. Nell’ambito della descrizione dei fatti, la Corte richiama il provvedimento con cui il Parlamento europeo ha rigettato l’istanza di revoca dell’immunità della ricorrente, a causa del fumus persecutionis sotteso alla denuncia presentata contro di lei dagli avversari politici.
In H.K. c. Francia, la Corte condanna lo Stato per violazione dell’art. 8 della Convenzione, in quanto i giudici, sulla base di un risalente ma consolidato orientamento giurisprudenziale, avevano pronunciato una sentenza di divorzio con addebito esclusivo alla ricorrente, a motivo del suo prolungato rifiuto di avere rapporti sessuali con il coniuge.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 30 gennaio 2025, ric. nn. 51567/14, 39742/14, 74208/14 e 21215/15, Cannavacciuolo e Altri c. Italia
Oggetto: Fenomeno di inquinamento sistematico, decennale, diffuso e su larga scala – Terra dei Fuochi – Articolo 34 (Status di vittima e legittimazione ad agire) – Associazioni ricorrenti non sono «direttamente colpite» – Mancanza di legittimazione delle associazioni – Criteri della sentenza Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri c. Svizzera non applicabili – Assenza di altre «considerazioni speciali» – Incompatibilità ratione personae di alcuni ricorrenti per mancanza di prove sufficienti. Articolo 2 (Diritto alla vita) – Obblighi positivi – Applicabilità articolo 2 – Esistenza di un rischio sufficientemente grave, reale, accertabile e imminente – Esistenza di un dovere di protezione – Mancanza da parte delle autorità della diligenza – Mancanza di una risposta sistematica, coordinata e strutturata. Articolo 46 – Sentenza pilota – Misure generali dettagliate da attuare entro due anni – Necessità di una strategia globale – Meccanismo di monitoraggio indipendente – Piattaforma di informazione pubblica.
Il ricorso è stato promosso da 41 abitanti delle province di Caserta o Napoli e da cinque associazioni con sede in Campania per denunciare le responsabilità statali relative alla nota quanto triste vicenda di inquinamento diffuso verificatosi nella c.d. “Terra dei Fuochi” – un’area di 90 comuni nelle province campane di Napoli e Caserta, in cui vive una popolazione di circa 2,9 milioni di abitanti – e causato dallo scarico illegale, dell’interramento e/o dell’abbandono incontrollato di rifiuti pericolosi, speciali e urbani su terreni privati, spesso in combinazione con la loro combustione. I ricorrenti hanno lamentato di aver subito direttamente o indirettamente gli effetti dello smaltimento illegale dei rifiuti.
Negli anni, sono state istituite in totale sette commissioni parlamentari d’inchiesta sull’illegalità nella gestione dei rifiuti che hanno che hanno portato all’individuazione nelle province di Caserta e Napoli di diversi siti di smaltimento illegale dei rifiuti, in particolare nelle campagne intorno ad Aversa e sulla costa Domizio-Flegrea e ad accertare che lo smaltimento illegale dei rifiuti, provenienti da tutta l’Italia, era controllato da gruppi criminali organizzati. Le indagini delle commissioni hanno portato ad accertare i seguenti fatti.
Gli effetti avversi dell’inquinamento per la salute degli individui era un problema noto alle autorità fin dal 1988. Un metodo di smaltimento consisteva nello scaricare e seppellire i rifiuti in discariche abusive, che spesso erano cave, corsi d’acqua o grandi fosse scavate in terreni agricoli e poi ricoperte, continuando a utilizzare il terreno per l’agricoltura. I rifiuti, quando non venivano scaricati, a volte venivano mescolati con altre sostanze da utilizzare, ad esempio, come materiale da costruzione o come compost, con impatti negativi sulle acque sotterranee. Per quanto riguarda lo smaltimento delle auto montagne di pneumatici per auto venivano bruciati.
La campagna a nord di Napoli era diventata un ricettacolo di rifiuti di ogni tipo. Uno dei primi rapporti si riferiva alla Campania come “la pattumiera d’Italia” (cfr. Rapporto della seconda commissione, 8 luglio 1998) e si affermava che l’inquinamento costituisse disastro ambientale “paragonabile soltanto ai fenomeni di diffusione della peste seicentesca” (cfr. Rapporto della quinta commissione, 5 febbraio 2013).
La contaminazione da diossina aveva provocato l’inquinamento di un’area considerevole. In alcune zone, era stata osservata una concentrazione eccezionale di metalli pesanti.
Circa l’impatto sulla salute per gli abitanti delle zone interessate dall’inquinamento, è stato notato che i tassi di cancro erano notevolmente aumentati nella zona. Rapporti italiani e internazionali, come quelli di The Lancet Oncology (settembre 2004), Epidemiologia&Prevenzione (November 2004), del Senato italiano (10 gennaio 2018) e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (gennaio 2005), hanno confermato tali anomalie nell’andamento dei tassi di cancro.
Le commissioni parlamentari hanno inoltre evidenziato gli aspetti giuridici relativi alla gestione dell’inquinamento, tra cui la deterrenza «praticamente inesistente», la mancanza della «necessaria fermezza» nella risposta dello Stato, la quasi impossibilità di ottenere condanne per reati ambientali e, tra le altre cose, i brevi termini di prescrizione. Hanno inoltre criticato l’adeguatezza dei piani di bonifica e i lunghi ritardi nella loro attuazione.
I ricorrenti hanno presentato un ricorso diretto di fronte alla Corte di Strasburgo, senza esperire alcun tentativo rimediale di fronte alle autorità giudiziarie nazionali. Di fronte alla Corte hanno invocato gli articoli 2 (diritto alla vita) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), denunciando che le autorità italiane erano a conoscenza de fenomeno di inquinamento diffuso e protratto e del suo impatto sulla loro salute, ma non avevano adottato misure adeguate a proteggerli dallo scarico, interramento e incenerimento illegali di rifiuti pericolosi nelle loro zone. Le autorità avevano inoltre omesso di fornire una adeguata informazione al riguardo.
Prima di affrontare nel merito il ricorso la Corte ha preso posizione su alcune questioni preliminari relative all’ammissibilità dei ricorsi sulla scia dell’evoluzione giurisprudenziale che si è avuta in questa materia.
Innanzitutto, la Corte ha deciso circa la legittimazione ad agire delle associazioni ricorrenti. Nel farlo ha preso posizione sulla applicabilità dei criteri di riconoscimento dello status di vittima alle associazioni ricorrenti ovvero sulla possibilità di estendere i criteri di riconoscimento del locus standi in qualità di rappresentanti delle persone i cui diritti sono o saranno presumibilmente pregiudicati come elaborato dalla recente sentenza climatica Verein Klima Seniorinnen Schweiz e a. c. Svizzera.
Per quanto riguarda il riconoscimento dello status di vittima, la Corte ha ricordato i suoi principi consolidati in base ai quali: alle associazioni viene normalmente concesso lo status di vittima solo se sono state direttamente colpite dalla misura in questione. In forza del divieto di actio popularis, il solo fatto che un’organizzazione non governativa si consideri custode degli interessi collettivi dei suoi membri non è sufficiente a renderla una vittima ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione.
In alcune eccezionali ipotesi tale status è stato concesso in vicende riguardanti decisioni amministrative particolarmente complesse, in cui il ricorso a organismi collettivi come le associazioni è uno dei mezzi accessibili, o addirittura l’unico, a disposizione dei ricorrenti individuali per una difesa efficace. Del resto, sono gli stessi Stati europei a riconoscere la legittimazione ad agire delle associazioni di intentare azioni legali in difesa degli interessi dei propri membri.
Di conseguenza, lo status di vittima viene riconosciuto alle associazioni in ipotesi in cui: viene lamentata la violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione; le doglianze presentate dall’associazione dinnanzi ai tribunali nazionali riguarda gli interessi sostanziali dei suoi membri (vita privata, alle loro famiglie e alle loro case) e il loro diritto di partecipare al processo decisionale); le associazioni ricorrenti sono costituite con lo scopo specifico di difendere tali interesse; i loro membri sono direttamente interessati dalle misure impugnate; è stata loro riconosciuta la legittimazione ad agire nei procedimenti nazionali.
Per quanto riguarda, la legittimazione ad agire in qualità di rappresentanti delle vittime, la Corte ha chiarito che il recente riconoscimento in Verein Klima Seniorinnen Schweiz e a. c. Svizzera ([GC], n. 53600/20, 9 aprile 2024) della possibilità per le associazioni di presentare una domanda ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione in qualità di rappresentanti delle persone i cui diritti sono o saranno presumibilmente pregiudicati non può trovare applicazione al presente caso. L’eccezionale riconoscimento del locus standi era giustificato da «considerazioni specifiche relative al cambiamento climatico» e «dalla particolarità del cambiamento climatico come preoccupazione comune dell’umanità e dalla necessità di promuovere la condivisione intergenerazionale degli oneri in questo contesto», per tali ragioni limitato a quello «specifico contesto» (vedi sentenza Klima Seniorinnen, §§ 498-99).
Per queste ragioni, la Corte ha respinto le richieste delle associazioni ricorrenti in quanto non erano vittime dell’inquinamento della Terra dei Fuochi ai sensi degli articoli 2 e 8 rilevando un vizio di incompatibilità del ricorso ratione personae con la Convenzione.
Per quanto riguarda lo status di vittima dei ricorrenti individuali, dopo aver rinviato alla valutazione del merito la questione (comunque connessa all’accertamento dello status di vittima) circa l’esistenza di un comprovato nesso causale tra le presunte violazioni della Convenzione e il danno asseritamente subito dai ricorrenti, la Corte ha poi affrontato la questione relativa alla posizione di ricorrenti che non risiedevano nell’area geografica individuata come Terra dei Fuochi.
Nonostante la Corte abbia riconosciuto che la delimitazione dell’area geografica a rischio delimitata dalla Commissione Parlamentare nazionale fosse basa su presunzioni e l’inquinamento atmosferico derivante dall’incenerimento e i contaminanti rilasciati nei corsi d’acqua potesse ragionevolmente attraversare i confini tra i comuni, essa non si è spinta ad una valutazione di merito su questi aspetti, riconoscendo che le autorità nazionali fossero indubbiamente in possesso di prove e informazioni adeguate e non spetta alla Corte mettere in discussione tale valutazione essendo le autorità in una posizione migliore per effettuare tale accertamento.
Di conseguenza, la Corte ha dichiarato inammissibili per incompatibilità ratione personae i ricorsi dei ricorrenti individuali che non vivevano nei comuni ufficialmente elencati come rientranti nell’area denominata Terra dei Fuochi.
Per quanto riguarda l’eccezione di mancato esperimento dei rimedi interni sollevata dal Governo, la Corte ha ritenuto che l’ordinamento italiano fosse sprovvisto di rimedi interni adeguati a riparare le violazioni denunciate. Nessuna delle possibili azioni giudiziarie indicate rispettavano i requisiti di efficacia e adeguatezza imposti dalla Convenzione. Innanzitutto, l’azione volta a ottenere un risarcimento economico ai sensi del Codice Civile italiano non poteva essere considerata adeguata, in quanto i ricorrenti lamentavano la mancata azione da parte dello Stato nel lungo periodo per prevenire l’inquinamento e per mitigarne le conseguenze per cui un risarcimento per equivalente risulterebbe insoddisfacente. Quanto alla possibilità di presentare un reclamo al Ministero dell’Ambiente ai sensi dell’articolo 309 del decreto legislativo n. 152 del 2006, la Corte ha osservato che tale disposizione si limita ad attribuire un potere di informazioni verso un organo di controllo con l’invito a esercitare i propri poteri, il quale mantiene la piena discrezionalità sull’uso di tali poteri. Se l’autorità amministrativa rimane inattiva, l’ambito di controllo dei tribunali amministrativi è limitato alla verifica del rispetto da parte del Ministero dell’Ambiente dell’obbligo di rispondere a un reclamo, senza alcun impatto sulla sfera di discrezionalità del Ministro in merito alla fondatezza delle misure richieste dal reclamante.
Infine, la Corte ha dichiarato irricevibili alcuni ricorsi per non aver rispettato il termine di sei mesi richiesto per la presentazione di un ricorso. La Corte ha applicato la sua consolidata giurisprudenza secondo cui, in assenza di rimedi interni effettivi da tentare, il termine di sei mesi decorreva dal momento in cui i richiedenti erano venuti a conoscenza degli effetti pregiudizievoli dell’inquinamento sulla loro sfera privata o, nel caso delle vittime indirette, sui loro familiari. La Corte nel caso di specie ha individuato come dies a quo la fine del 2013, quando è stata emanata la direttiva interministeriale che ha per la prima volta ha individuato i cinquantasette comuni delle province di Napoli e Caserta interessati dall’inquinamento.
Nel merito la Corte ha dichiarato l’applicabilità di entrambe le disposizioni invocate riconoscendo che esisteva un rischio «sufficientemente grave, reale e accertabile» per la vita, che poteva essere qualificato come «imminente». In linea con un «approccio precauzionale» e data la conoscenza da lungo tempo dell’inquinamento da parte delle autorità, la Corte ha ritenuto che lo Stato non potesse invocare il fatto che non vi fosse alcuna certezza scientifica circa gli effetti precisi che l’inquinamento può aver avuto sulla salute di un determinato individuo per affermare l’assenza di un obbligo positivo di protezione. Infatti, all’interno dei doveri di protezione in capo allo stato vi è anche l’obbligo di studiare, identificare e valutare la natura e il livello del rischio. Se quindi si concludesse che la colpevole carenza informativa circa gli effetti nefasti sulla salute individuale dell’inquinamento diffuso siano rilevanti per imputare allo Stato il suddetto obbligo di protezione, si giungerebbe alla conclusione di consentire alle autorità statali di invocare un loro inadempimento o ritardo nell’adempimento di un obbligo per negarne l’esistenza, privando così di effetto utile la tutela di cui all’articolo 2.
La Corte ha quindi proceduto ad analizzare il comportamento statale elencando una serie di misure che avrebbe dovuto adottare per contrastare il fenomeno inquinante e per prevenire gli effetti nefasti sulla salute dei ricorrenti: (i) misure per identificare le aree inquinate e verificare i livelli di inquinamento dell’aria, del suolo e dell’acqua; Misure di gestione dei rischi; (ii) misure per indagare sugli impatti sulla salute; (iii) misure per combattere lo scarico, il seppellimento e l’incenerimento illegale di rifiuti, tra cui (α) il monitoraggio del territorio da parte delle forze dell’ordine, (β) lo svolgimento di indagini penali e procedimenti giudiziari, (γ) l’attuazione di misure relative alla gestione del ciclo dei rifiuti e (δ) di misure relative alla fornitura di informazioni.
Nel caso di specie la Corte ha ritenuto che non vi fosse stata una risposta sistematica, coordinata e globale da parte delle autorità nel gestire la situazione di Terra dei Fuochi. Rispetto al requisito sub (i), i progressi nella valutazione dell’impatto dell’inquinamento sono stati estremamente lenti mentre sarebbe stata necessaria una maggiore rapidità. Tale lentezza è stata causata da un problema generalizzato di coordinamento tra le autorità e di attribuzione delle responsabilità in Campania per quanto riguarda la decontaminazione che ha portato a non avere un quadro generale sui luoghi in cui fosse necessaria l’attività di bonifica.
Riguardo all’aspetto sub (ii), nonostante le dichiarazioni del Governo circa numerose azioni intraprese per indagare sugli impatti sulla salute dell’inquinamento, quali il rafforzamento dello screening dei tumori, la Corte ha tuttavia osservato che la maggior parte di queste misure è stata adottata solo dopo il 2013. In considerazione dei ritardi che hanno caratterizzato la risposta delle autorità, queste non hanno agito con la dovuta diligenza nelle indagini sull’impatto sulla salute dell’inquinamento della Terra dei Fuochi.
Infine, riguardo al profilo sub (iii), la Corte non si è detta soddisfatta delle condanne collegate a reati ambientali che sono state irrogate dalle autorità giudiziarie nazionali. Essendo queste condanne sporadiche, la Corte ha ritenuto che le azioni di giustizia penale per combattere lo smaltimento illegale dei rifiuti nell’area della Terra dei Fuochi fossero insufficienti. La Corte ha aggiunto che le autorità italiane sono state piuttosto lente nell’affrontare le carenze sistematiche che interessano il sistema di gestione dei rifiuti in Campania. Data l’entità, la complessità e la gravità della situazione, era necessaria una strategia di comunicazione completa e accessibile, al fine di informare il pubblico in modo proattivo sui rischi potenziali o effettivi per la salute e sulle azioni intraprese per gestire tali rischi. Al contrario, alcune delle informazioni erano state coperte dal segreto di Stato per periodi considerevoli.
In conclusione, la Corte ha ritenuto che le autorità italiane non avessero affrontato il problema della Terra dei Fuochi con la diligenza richiesta dalla gravità della situazione. Lo Stato italiano non aveva fatto tutto ciò che era necessario per proteggere la vita dei ricorrenti.
Dato che le argomentazioni ai sensi dell’articolo 8 erano le stesse già decise ai sensi dell’articolo 2, la Corte ha ritenuto che non fosse necessario esaminare separatamente questo reclamo.
Tenendo conto della natura persistente del problema e delle carenze sistemiche che hanno caratterizzato la risposta dello Stato ad esso, insieme al gran numero di persone che ha colpito e che è in grado di colpire, e all’urgente necessità di concedere loro un risarcimento rapido e adeguato, la Corte ha ritenuto opportuno applicare la procedura della sentenza pilota ai sensi dell’articolo 46 e si è riservata di pronunciarsi sul danno non patrimoniale subìto dai ricorrenti entro due anni dalla data in cui la presente sentenza sarà passata in giudicato.
La Corte ha prescritto una serie di misure da attuare entro il predetto termine: (1) basandosi sugli sforzi già compiuti, e in coordinamento con le parti interessate a livello locale, regionale e/o nazionale (compresi i rappresentanti della società civile e delle associazioni interessate), sviluppare una strategia globale che riunisca tutte le misure esistenti o previste, a ogni livello dell’apparato statale, per affrontare il fenomeno dell’inquinamento (volte a identificare le aree interessate e a valutare la natura e l’entità della loro contaminazione; a gestire ogni rischio emerso; a indagare sugli impatti sanitari del fenomeno dell’inquinamento e a combattere le condotte che lo hanno generato) prevedendo chiari tempi di attuazione a breve, medio e lungo termine e indicando le risorse necessarie e la loro assegnazione agli attori statali competenti; (2) istituire un meccanismo indipendente per monitorare l’attuazione e l’impatto delle misure introdotte nell’ambito di qualsiasi strategia globale sul problema della Terra dei Fuochi e per valutare il rispetto dei tempi stabiliti, corredato di adeguate misure di salvaguardia per garantire l’indipendenza del meccanismo e la pubblicità dei suoi risultati; (3) istituire un’unica piattaforma informativa pubblica che raccolga, in modo accessibile e strutturato, tutte le informazioni rilevanti relative al problema della Terra dei Fuochi e alle misure adottate o previste per affrontarlo, con informazioni sul loro stato di attuazione, e provvedere al suo regolare aggiornamento.
Sentenza della Corte Edu (Terza Sezione), 7 gennaio 2025, ric. n. 39127/19, Yoncheva c. Bulgaria
Oggetto: articolo 6 § 2 della Convenzione (diritto a un equo processo – presunzione di innocenza) – pubblicazione da parte della Procura di un comunicato stampa in cui la ricorrente sembrava aver consapevolmente partecipato a un’operazione di riciclaggio su larga scala – ampia diffusione da parte dei media e della stampa, in considerazione della notorietà della ricorrente come giornalista e politica. Articolo 13 (mancanza di rimedio effettivo).
Elena Yoncheva è una giornalista molto nota in Bulgaria e ha ricoperto mandati parlamentari sia nell’ordinamento nazionale che europeo.
Nel 2018, tre deputati presentavano una denuncia a suo carico per riciclaggio di denaro.
La Procura avviava, pertanto, un’indagine, contestandole la ricezione e l’utilizzo, tra il 2012 e il 2014, in qualità di amministratrice di una società, di fondi illegalmente sottratti da ex dirigenti di una banca poi fallita.
A gennaio 2019, la Procura pubblicava un comunicato stampa in cui spiegava perché, in base agli elementi di prova raccolti, doveva ritenersi che la ricorrente fosse a conoscenza sia della provenienza criminale dei fondi sia del fatto che erano stati sottratti illegalmente.
Il comunicato veniva ampiamente diffuso tra i media, nonché commentato dagli avversari politici.
Il Parlamento europeo rigettava la richiesta di revoca dell’immunità della ricorrente evidenziando il suo impegno politico ed elencando una serie di circostanze da cui presumere il fumus persecutionis nei confronti della medesima: la circostanza che la denuncia riguardasse fatti di molti anni prima ed era stata presentata da avversari politici; che, secondo l’unione dei giornalisti bulgari, il procedimento penale nazionale rappresentava il tentativo di attaccare la libertà di espressione di un’oppositrice politica.
In seguito, l’autorità bulgare avviavano una serie di accertamenti nei confronti dei deputati denuncianti.
Elena Yoncheva adiva la Corte europea dei diritti dell’uomo lamentando la violazione dell’aspetto reputazionale derivante dalla presunzione di innocenza, nonché l’assenza di un rimedio interno sul punto.
Sotto il profilo dell’ammissibilità, la Corte riteneva non effettivi i rimedi, non esauriti, ipotizzati dal Governo, l’uno perché apparentemente non adeguato al caso della ricorrente, l’altro perché modificato in epoca successiva.
Nel merito, la presunzione d’innocenza può ritenersi violata se una dichiarazione o una decisione ufficiale riguardante un imputato riflette l’impressione che egli sia colpevole, mentre la sua colpevolezza non è stata ancora legalmente accertata; non è necessaria una constatazione formale, essendo sufficiente una motivazione che lasci intendere che il magistrato o l’agente dello Stato consideri l’interessato colpevole. Occorre, d’altronde, distinguere le decisioni o dichiarazioni che suggeriscono la colpevolezza da quelle che si limitano a descrivere uno stato di sospetto e che, se esternate con discrezione, rientrano nella libertà di ricevere e comunicare informazioni ai sensi dell’art. 10 della Convenzione.
Nel caso di specie, tuttavia, il comunicato stampa della Procura non sembra essersi limitato alla semplice comunicazione di informazioni, affermando categoricamente che la ricorrente sapeva che il denaro in questione fosse di origine illegale, ciò prim’ancora che il caso fosse portato a conoscenza dei tribunali.
Rilevata la violazione dell’art. 6 § 2, la Corte confermava, in virtù degli elementi già analizzati in sede di ammissibilità, la mancanza di rimedi interni e dichiarava la violazione anche dell’art. 13 della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 23 gennaio 2025, ric. n. 13805/21, H.W. c. Francia
Oggetto: articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata, della libertà sessuale e di disporre liberamente del proprio corpo) – divorzio con addebito per rifiuto di avere rapporti sessuali con il coniuge – dovere coniugale contrario alla libertà sessuale dei coniugi
Nel 2015, la ricorrente introduceva una causa di divorzio con addebito nei confronti del coniuge, sostenendo che quest’ultimo avesse dato priorità alla propria carriera professionale a discapito della vita familiare e adducendo, altresì, il comportamento irascibile, violento e offensivo dell’uomo. Il marito presentava, quindi, una domanda riconvenzionale, chiedendo che lo scioglimento del vincolo matrimoniale fosse invece addebitato alla ricorrente; affermando, tra l’altro, che per diversi anni la stessa non avesse adempiuto a pretesi doveri coniugali di natura intima e che avesse violato il dovere di rispetto reciproco tra i coniugi avendogli rivolto accuse calunniose.
Nel 2018, il Tribunal de grande instance de Versailles concedeva il divorzio per compromissione permanente del vincolo matrimoniale, dopo aver rilevato che la coppia non viveva insieme da più di due anni dalla data di presentazione della domanda di divorzio. Non riteneva fondato nessuna richiesta di addebito e, con specifico riguardo alla presunta violazione dei doveri coniugali da parte della ricorrente, concludeva che i problemi di salute della donna fossero stati tali da giustificare la protratta assenza di rapporti sessuali tra i coniugi.
La ricorrente impugnava la sentenza dinanzi alla Cour d’appel de Versailles che, però, nel 2019, riformava il pronunciamento concedendo il divorzio con addebito esclusivo a carico della donna. Il motivo di siffatta decisione risiedeva nella circostanza che quest’ultima, come da lei stessa ammesso, si era rifiutata di avere rapporti sessuali con il marito a partire dal 2004 e, pertanto, secondo la Corte, aveva violato i propri doveri coniugali. Per di più, il giudice del gravame non riteneva che tale condotta potesse essere giustificata dai problemi di salute documentati dalla donna (un grave incidente in metropolitana con numerosi postumi e immobilizzazione per quasi un anno, un’operazione nel 2009 per un’ernia del disco paralizzante e malattia di Lyme cronica) e concludeva che tali fatti, accertati per ammissione della moglie, costituissero «una grave e ripetuta violazione dei doveri e degli obblighi matrimoniali, che [aveva reso] intollerabile la prosecuzione della convivenza».
A seguito del rigetto del ricorso per Cassazione, la ricorrente si rivolgeva al Giudice di Strasburgo sostenendo che i giudici nazionali avevano commesso una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata avendo riconosciuto l’esistenza di un siffatto dovere coniugale e addebitandole il divorzio in ragione del suo rifiuto di avere rapporti sessuali con il marito.
La questione attiene al diritto al rispetto della vita privata inteso come garanzia della libertà sessuale della donna. In proposito, la Corte puntualizza, in via preliminare, che l’affermazione del dovere coniugale, id est l’obbligo di avere rapporti sessuali con il coniuge, e la relativa sanzionabilità mediante l’addebito del divorzio in caso di rifiuto, ha rappresentato un’ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata, della libertà sessuale e di controllo sul proprio corpo della ricorrente. Al riguardo, sottolinea, poi, che nonostante il diritto interno separi in larga misura le conseguenze finanziarie del divorzio da eventuali colpe addebitate ai coniugi, tali misure sono particolarmente invasive, poiché influenzano uno degli aspetti più intimi della vita di una persona. Inoltre, rimarca come le conclusioni rassegnate dalla Corte d’appello nel caso de quo siano state formulate in maniera particolarmente gravosa e stigmatizzante, là dove il rifiuto della ricorrente viene definito come una violazione «grave e ripetuta» degli obblighi coniugali, tale da rendere «intollerabile» la continuazione della convivenza. Infine, soggiunge che le interferenze con i diritti della ricorrente sono state compiute da autorità pubbliche e devono, pertanto, essere esaminate nella prospettiva degli obblighi negativi.
Tanto chiarito, la Corte rileva, in primo luogo, l’esistenza di una base giuridica legale adeguata. Invero, i giudici di Strasburgo osservano che nel solco degli articoli del codice civile francese concernenti il divorzio con addebito, si era sviluppata una giurisprudenza, risalente ma costante, per cui i coniugi sarebbero vincolati da un «dovere coniugale» – ovverosia l’obbligo di mantenere relazioni sessuali – il cui mancato adempimento può giustificare il divorzio con addebito. Segnatamente, in una sentenza del 1997 – mai ribadita dal giudice di legittimità, ma regolarmente applicata dai tribunali di primo e di secondo grado – la Cour de cassation aveva confermato la pronuncia di una corte d’appello in cui si affermava che «la prolungata astensione dai rapporti intimi attribuita alla moglie» costituiva una colpa che giustificava un divorzio alla stessa addebitabile, laddove «non era giustificata da sufficienti ragioni mediche». La circostanza che il suddetto orientamento giurisprudenziale rimettesse alla valutazione del giudice la determinazione della natura “grave” o “ripetuta” della violazione del dovere matrimoniale in questione sulla base di circostanze quali l’età, lo stato di salute o il carattere violento o abusivo del coniuge, non era sufficiente a mettere in discussione il fatto che l’ingerenza fosse basata su una giurisprudenza interna consolidata.
Quanto alla legittimità dello scopo, la Corte si limita a riconoscere che l’interferenza, relativa al diritto di ciascuno dei coniugi di porre fine alla relazione matrimoniale, mirava alla «protezione dei diritti e delle libertà altrui» ai sensi della Convenzione, e prosegue a esaminare la proporzionalità dell’interferenza medesima.
Si tratta, dunque, di valutare se i tribunali nazionali abbiano trovato un giusto equilibrio tra gli interessi individuali in gioco, vale a dire, da un lato, la libertà sessuale della ricorrente e, dall’altro, il diritto del coniuge di porre fine al matrimonio se ritiene che l’astinenza sessuale imposta gli renda intollerabile la prosecuzione di un rapporto di coniugio che ritiene irrimediabilmente compromesso.
La Corte chiarisce subito che l’ingerenza di cui si va discutendo riguarda uno degli aspetti più intimi della vita privata della persona, di talché il margine di apprezzamento accordato agli Stati contraenti non può che essere estremamente ridotto, in quanto solo motivi di particolare gravità possono giustificare l’ingerenza delle autorità pubbliche nell’ambito della sfera sessuale (in questo senso, la sentenza opera un distinguishing espresso rispetto a Babiarz c. Polonia).
Ciò posto, i giudici osservano come il dovere coniugale previsto dall’ordinamento giuridico francese, che ha trovato applicazione nel caso di specie determinando l’addebito del divorzio alla ricorrente, trascuri completamente di considerare l’elemento del consenso, che costituisce come noto un limite fondamentale all’esercizio della libertà sessuale altrui.
A questo proposito, la Corte rammenta che qualsiasi atto sessuale non consensuale costituisce una forma di violenza, che gli Stati contraenti sono tenuti a contrastare implementando un quadro giuridico e strumenti di protezione appropriati, in ossequio, peraltro, agli obblighi previsti dalla Convenzione di Istanbul.
In questa prospettiva, la Corte non può fare a meno di concludere che l’ordinamento interno considerato non garantisce il libero consenso ai rapporti sessuali all’interno del matrimonio. Invero, la norma in questione ha una dimensione prescrittiva rispetto al modo in cui i coniugi conducono la loro vita sessuale, atteso che la sua violazione (ovverosia, il rifiuto di intrattenere rapporti intimi con il coniuge) ha, come si è visto nel caso di specie, determinate conseguenze giuridiche. Sulla base dell’orientamento giurisprudenziale rammentato, il rifiuto di sottomettersi al dovere coniugale de quo da un lato può essere considerato motivo di addebito del divorzio; dall’altro, può comportare conseguenze pecuniarie e costituire la base di un’azione di risarcimento dei danni.
Ad avviso della Corte, l’esistenza stessa di tale dovere coniugale è contraria tanto alla libertà sessuale e al diritto di controllare il proprio corpo quanto all’obbligo positivo che incombe sulla Francia e sugli Stati contraenti di combattere tutte le forme di violenza di genere, tra cui quella domestica.
Sotto questo aspetto, la Corte prosegue ribattendo al Governo che la repressione penale degli abusi e delle violenze sessuali commessi all’interno della coppia non è sufficiente a proteggere la libertà sessuale di ciascun partner e che, anzi, tale orientamento giurisprudenziale parrebbe muoversi in direzione contraria rispetto ai progressi maturati nel settore penale. La Corte soggiunge, poi, di non poter accettare, come suggerito dal Governo, che il consenso al matrimonio implichi automaticamente il consenso a future relazioni sessuali. Una tale giustificazione, infatti, finirebbe per privare lo stupro coniugale del suo carattere riprovevole. La Corte ha da tempo ribadito che l’idea che un marito non possa essere perseguito per aver violentato la moglie è inaccettabile, in quanto contraria non solo a una concezione civile del matrimonio, ma anche, e soprattutto, agli obiettivi fondamentali della Convenzione, la cui essenza risiede nel rispetto della dignità umana e della libertà.
Alla luce dei rilievi esposti, la Corte non rinviene alcun motivo si sufficiente e particolare gravità in grado di giustificare un’ingerenza delle autorità statali nell’ambito della sfera sessuale. D’altra parte, il marito della ricorrente avrebbe potuto presentare istanza di divorzio per motivi di rottura irreparabile del matrimonio e, perciò, la difesa dei suoi diritti essere garantita con altri mezzi, di talché conclude che la riaffermazione del principio dei doveri coniugali e la concessione del divorzio per colpa esclusiva della ricorrente non erano state basate su ragioni pertinenti e sufficienti e che i tribunali nazionali non avevano trovato un giusto equilibrio tra gli interessi concorrenti in gioco.
Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa