Il Daspo sportivo non soggiace al principio del ne bis in idem
Oggetto: Violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Cedu – Il Daspo ed il principio del ne bis in idem – Nessuna applicazione
La questione sottoposta all’esame dei giudici di Strasburgo riguarda le misure adottate in Croazia per combattere il teppismo sportivo. Tomislav Seražin, è un cittadino croato nato nel 1989 e residente a Zagabria. Nell’agosto 2012, la Corte per i reati minori di Zagabria lo ha dichiarato colpevole di teppismo sportivo per aver causato problemi a una partita di calcio della Dinamo Zagreb. Fu condannato a 25 giorni di carcere sospeso ed in virtù della legge sulla prevenzione dei disordini sportivi, gli fu proibito di partecipare alle partite della squadra per un anno. Durante i due anni successivi, fu arrestato sia in Croazia sia all’estero per reati di teppismo sportivo. Nell’aprile 2014, a seguito di una richiesta di polizia, lo stesso giudice per i minorenni vietava al signor Seražin di partecipare a tutte le partite della Dinamo Zagabria e della Uefa. La Corte ha basato la sua decisione sulle informazioni prodotte dalla polizia, compresa la sentenza dell’agosto 2012 che aveva condannato Seražin per teppismo sportivo.
Il sig. Seražin ha presentato ricorso, sostenendo che l’imposizione della misura di esclusione dalle partite di calcio era contraria al suo diritto a non essere giudicato e punito due volte per lo stesso reato, poiché era già stato dichiarato colpevole e condannato per gli stessi fatti nel 2012. I tribunali interni hanno respinto i ricorsi del sig. Seražin, il quale ha quindi adito la Corte Edu.
La Corte ribadisce che il principio del ne bis in idem, si applica solo a un processo e / o una condanna nell’ambito di un «procedimento penale».
Secondo la Corte, la misura dell’esclusione dalle partite di calcio della propria squadra (cd. Daspo, acronimo di Divieto di accedere alle manifestazioni sportive) era una misura avente principalmente natura preventiva piuttosto che punitiva. La misura era infatti intesa a prevenire la violenza futura piuttosto che a punire il richiedente una seconda volta per il suo reato.
La Corte ritiene quindi che il sig. Seražin non sia stato oggetto di una condanna penale quando i giudici gli hanno applicato per la seconda volta il Daspo sportivo e conclude per la non applicabilità dell’art. 4 del Protocollo n. 7 al caso di specie.
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Libertà di stampa: è consentito criticare il sistema giudiziario
Oggetto: Libertà di espressione – Art. 10 Cedu – Critiche all’operato di un giudice
La questione sottoposta alla Corte concerne la libertà di stampa nel criticare l’operato dei giudici.
L’editore di un settimanale era stato condannato a risarcire i danni per aver diffamato un giudice in un articolo pubblicato sulla propria rivista. Due anni prima della pubblicazione dell’articolo, il giudice in questione aveva emesso un mandato di perquisizione ingiustificato nei confronti del ricorrente, che i giornalisti della rivista avevano considerato in violazione della propria libertà di espressone. Il giudice ha attirato nuovamente l’attenzione dell’editore quando ha partecipato a una festa per celebrare l’apertura di un altro settimanale di proprietà di un controverso imprenditore locale. Tali episodi sono alla base della pubblicazione dell’articolo che suggeriva che il giudice si era messo in una situazione di potenziale conflitto di interessi.
La Corte ha respinto la tesi del Governo secondo cui l’unico scopo dell’articolo contestato era stato quello di screditare pubblicamente il giudice in questione. Era vero che l’articolo era stato colorato dall’esperienza personale dei giornalisti e dal malcontento verso quel particolare giudice, tuttavia nelle circostanze date era indubitabile che l’articolo riguardasse una questione di interesse pubblico. Sebbene l’articolo fosse pungente, contenesse critiche piuttosto serie, esagerazioni e una metafora dura, non era offensivo.
A giudizio della Corte, l’uso di un tono aspro nei commenti rivolti a un giudice non è in linea di principio incompatibile con le disposizioni dell’art. 10 della Cedu, salvo il caso di attacchi gravemente dannosi ed infondati. Inoltre, nel caso di specie l’editore era stato condannato a pagare ben euro 6.870 a titolo di danno non patrimoniale. La Corte rileva il carattere eccessivo e sproporzionato di tale risarcimento, evidenziando come la corresponsione di un tale somma «potrebbe scoraggiare una discussione libera su questioni di interesse pubblico». I giudici di Strasburgo concludono affermando la violazione dell’art. 10 Cedu, considerato che l’interferenza con la libertà di espressione del ricorrente non poteva considerarsi necessaria in una società democratica.