La Corte Edu accoglie il ricorso presentato da una cittadina rumena per violazione degli artt. 3 e 14 Cedu.
Oggetto: Abuso domestico – Divieto di trattamento inumano e degradante – Divieto di discriminazione
La ricorrente, la sig.ra Bălşan, sostiene che le autorità rumene non sono state in grado di proteggerla dal comportamento violento del marito né sono state capaci di accertare la responsabilità penale di quest’ultimo per gli abusi perpetrati a suo danno, e ciò nonostante le numerose denunce presentante dalla donna. La Corte Edu ritiene che la violenza fisica alla quale la sig.ra Bălşan è stata ripetutamente sottoposta da parte del marito, come documentato nei rapporti medici e di polizia, è stata tale da raggiungere il livello di gravità richiesto ai sensi dell’art. 3 della Cedu. Le autorità rumene non potevano che essere consapevoli di tale abuso, atteso che la sig.ra Bălşan aveva presentato ripetutamente richieste di assistenza sia alla polizia che sia ai tribunali. Le autorità avevano pertanto un preciso obbligo di intervento, in conformità al diritto rumeno, onde accertar la responsabilità del marito ed evitare la perpetrazione degli abusi. Nonostante la sig.ra Bălşan avesse fatto pieno uso di tutti gli strumenti di tutela apprestati dal diritto nazionale, la Corte Edu ha dovuto constatare che le autorità rumene avevano ritenuto che gli abusi non fossero così gravi da poter assumere una rilevanza penalistica. Inoltre, malgrado la sig.ra Bălşan avesse denunciato ulteriori abusi, per tutto il procedimento, le autorità non avevano adottato alcuna misura volta alla sua tutela. Le uniche sanzioni imposte, ammende amministrative, si erano rilevate un deterrente del tutto inefficace a prevenire ulteriori abusi. La Corte di Strasburgo accerta dunque che le autorità rumene, non avendo fornito alla sig.ra Bălşan alcuna protezione contro la violenza perpetrata dal marito, hanno violato l’art. 3 della Cedu.
Da diverse statistiche ufficiali, la Corte ha poi potuto ricavare come in Romania la violenza domestica sia non solo tollerata, ma anche percepita dalla stragrande maggioranza della popolazione come normale. A tale considerazione, la Corte aggiunge che la popolazione rumena non appare sufficientemente consapevole del quadro giuridico e politico predisposto dalla Romania per contrastare la discriminazione contro le donne e che, soprattutto le donne, non sono consapevoli dei propri diritti. Il fatto che le autorità non abbiano apprezzato appieno la gravità e la portata della violenza domestica subita dalla sig.ra Bălşan riflette, secondo la Corte, un atteggiamento discriminatorio verso la signora Bălşan, in quanto donna. La Corte ritiene dunque che la violenza a cui è stata sottoposta la sig.ra Bălşan sia configurabile come vera e propria violenza di genere, che è una forma di discriminazione contro le donne. Nonostante l’esistenza di una strategia nazionale per prevenire e combattere gli abusi di genere, la mancanza di risposta da parte del sistema giudiziario, nonché l’impunità di cui godono gli aggressori, come la Corte ha potuto constatare nella fattispecie in esame, sono elementi indicativi di come non vi sia in Romania un impegno sufficiente per affrontare il problema della violenza domestica. Di conseguenza, la Corte ha ravvisato nel caso sottoposto al suo esame altresì la violazione dell’art. 14 in combinato disposto con l’art.3 della Cedu e ha condannato la Romania a corrispondere alla sig.ra Bălşan euro 9.800,00 a titolo di danno non patrimoniale.
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La Corte Edu si pronuncia sulla legittimità della detenzione cautelare di un cittadino turco
Oggetto: Diritto alla libertà e sicurezza – Diritto ad una pronta decisione sulla legittimità della detenzione – Principio del contraddittorio e di parità delle armi.
Il sig. Mustafa Avci, cittadino turco, era all’epoca dei fatti membro del Partito della Pace e della Democrazia (BDP), un’altra sinistra Pro-curdo. Il caso riguarda la detenzione cautelare del sig. Avci per ragioni legate alla sua attività politica. Nel 2011 l’ufficio del pubblico ministero di Istanbul ha aperto un’inchiesta penale contro un numero di individui sospettati di appartenere all’organizzazione KCK (secondo i procuratori, un ramo del PKK). Nell’ambito di questa indagine il 30 ottobre 2011 il sig. Avci è stato arrestato e portato dinanzi al procuratore pubblico di Istanbul che, dopo averlo interrogato, ha chiesto al giudice di sottoporlo a custodia. Il 19 marzo 2012 il pubblico ministero lo ha accusato di aver commesso il reato di guidare un’organizzazione terroristica. La detenzione del sig. Avci iniziata il 30 ottobre 2011 e si è conclusa il 24 aprile 2014 con il suo rilascio. Il ricorrente sostiene di non aver avuto la possibilità di contestare efficacemente la legalità della sua detenzione. A questo proposito, ha denunciato le restrizioni di accesso al fascicolo di indagine e la non divulgazione del parere del procuratore della Repubblica durante l’esame della opposizione proposta da lui contro la decisione relativa la sua detenzione provvisoria. In proposito, la Corte ricorda che l’art. 5 par. 4 Cedu dà a chiunque, arrestato o detenuto, il diritto di presentare ricorso per quanto riguarda il rispetto delle condizioni sostanziali e procedurali essenziali per la “legalità” − ai sensi dell’art. 5 par. 1 Cedu − della detenzione. In particolare, in un ricorso contro la detenzione deve essere garantito il contraddittorio e la parità delle armi tra le parti, e cioè tra il pubblico ministero e la persona detenuta. A giudizio della Corte, la legge nazionale può soddisfare questo requisito in vari modi, ma il metodo scelto deve garantire che l’altra parte sia informato della presentazione di osservazioni e abbia una vera e propria possibilità di presentare proprie osservazioni.
Per determinare se una procedura di cui all’art. 5 par. 4 della Cedu fornisce le necessarie garanzie, si deve tener conto della particolare natura delle circostanze in cui si svolge: «la parità delle armi non è garantita se viene negato l’accesso ai documenti del fascicolo che sono essenziali per una contestazione efficace della legalità della detenzione». La Corte osserva che, nel caso di specie, né il ricorrente né il suo avvocato avevano avuto sufficiente conoscenza di documenti di vitale importanza per dimostrare l’illegittimità della detenzione e rileva che, di conseguenza, il ricorrente non ha avuto la possibilità di contestare in maniera adeguata la motivazione della sua detenzione. La Corte di Strasburgo accerta dunque la violazione dell’art. 5 par. 4 Cedu. In merito all’impossibilità di ottenere accesso al parere del pubblico ministero nel corso del procedimento, la Corte ricorda che si è già pronunciata sulla importanza della possibilità di rispondere ai commenti del pubblico nell’ambito di un procedimento di opposizione a illegittima detenzione. Dopo aver esaminato tutti gli elementi che sono stati presentati, la Corte ritiene che il governo turco non ha addotto alcun fatto o argomento che possa portare ad una conclusione diversa in questo caso. Il principio della parità delle armi tra le parti non è stato rispettato e, di conseguenza, la Corte ha riscontrato una violazione dell’art. 5 par. 4 Cedu anche sotto questo profilo. Il ricorrente lamenta, infine, di non aver goduto di rimedi efficaci per ottenere un risarcimento, in violazione dell’art. 5 par. 5 Cedu. La Corte ricorda di aver già pronunciata su una denuncia simile a quella presentata dal richiedente e dopo aver constatato che l’art. 141 del PCC, in vigore all’epoca dei fatti, non prevedeva la possibilità di richiedere la riparazione di una perdita sofferta a causa di errore procedurale, accerta anche nel caso in esame la violazione dell’art. 5 par. 5 Cedu.