Italia condannata per il rifiuto di procedere allo sgombero di un immobile
Oggetto: Violazione dell’articolo 6 par. 1 (diritto di accesso alla giustizia) Cedu − Violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (protezione della proprietà) alla Cedu
La ricorrente è una società a responsabilità limitata di diritto italiano con sede a Roma, proprietaria di un fabbricato di circa 8.000 metri quadrati situato a Roma. Il 6 dicembre 2012 un centinaio di persone entrarono con la forza nell’immobile della ricorrente e si appropriarono dei locali. Lo stesso giorno, la ricorrente presentò una prima denuncia al procuratore della Repubblica segnalando la violazione del suo diritto di proprietà e chiedendo lo sgombero dei locali. In data 9 agosto 2013, il giudice per le indagini preliminari di Roma accolse la richiesta della procura in tal senso e dispose il sequestro preventivo dell’immobile rilevando che, dalle indagini eseguite a seguito della denuncia sporta dalla ricorrente, risultava che il bene era occupato da circa 150 persone e che la gestione dell’occupazione, che sarebbe rientrata nell’azione del movimento lotta per la casa, era organizzata e diretta da un gruppo ristretto di individui che agivano a scopi di lucro. Tale sequestro non avvenne mai, in quanto si era deciso di rinunciare a questa soluzione, tenuto conto soprattutto della situazione economica del comune di Roma, che non avrebbe consentito di trovare nuovi alloggi per gli occupanti dopo lo sfratto.
La Corte di Strasburgo ha ritenuto, all’unanimità, che vi fosse stata la violazione, da un lato, dell’art. 6 par. 1 (diritto di accesso alla giustizia), e, dall’altro, dell’art. 1 del Protocollo n. 1 (protezione della proprietà) alla Convenzione.
La Corte rammenta che il diritto all’esecuzione di una decisione giudiziaria costituisce uno degli aspetti del diritto di accesso a un tribunale: «Il diritto a un tribunale sarebbe illusorio se l’ordinamento giuridico interno di uno Stato contraente permettesse che una decisione giudiziaria definitiva e vincolante rimanesse inoperante a scapito di una delle parti». Spetta a ciascuno Stato contraente dotarsi di un arsenale giuridico adeguato e sufficiente per assicurare il rispetto degli obblighi positivi posti a suo carico.
La Corte ha il compito di esaminare se, nella fattispecie, le misure adottate dalle autorità nazionali siano state adeguate e sufficienti. Nel caso di specie, la Corte osserva anzitutto che la decisione del giudice per le indagini preliminari di Roma del 9 agosto 2013 riguardava la tutela di un diritto di natura civile della ricorrente, ossia il suo diritto di proprietà. Se la Corte riconosce che le motivazioni di ordine sociale e i timori relativi al rischio di problemi di ordine pubblico potessero giustificare nel caso di specie delle difficoltà di esecuzione e un ritardo nella liberazione dei locali, essa considera nondimeno ingiustificata l’inerzia totale e prolungata delle autorità italiane nel caso di specie. La Corte ricorda che una mancanza di risorse non può costituire di per sé una giustificazione accettabile per la mancata esecuzione di una decisione giudiziaria e nemmeno per l’assenza di nuovi alloggi.
Secondo la Corte, la mancata esecuzione della decisione del giudice per le indagini preliminari del 9 agosto 2013 ha costituito una violazione anche del primo comma dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, che prevede il diritto al rispetto della proprietà. Invero, l’esercizio reale ed effettivo del diritto che l’art. 1 del Protocollo n. 1 garantisce, non può dipendere unicamente dal dovere dello Stato di astenersi da qualsiasi ingerenza, e può esigere delle misure positive di tutela, in particolare laddove sussista un legame diretto tra le misure che un ricorrente potrebbe legittimamente attendersi dalle autorità e il godimento effettivo da parte di quest’ultimo dei suoi beni, mentre nella fattispecie, la Corte ribadisce che, per più di cinque anni, le autorità sono rimaste inerti di fronte alla decisione con la quale il giudice per le indagini preliminari aveva ordinato lo sgombero dell’immobile della ricorrente.
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Contrasta con la Cedu il divieto di espatrio imposto ai testimoni di giustizia
Oggetto: Violazione dell’art.2 del protocollo n. 4 (diritto alla libera circolazione) Cedu – Violazione dell’art. 13 (diritto ad un rimedio efficace) Cedu
La questione sottoposta alla Corte riguarda i divieti di viaggio imposti dalle autorità azeri a testimoni che hanno reso le proprie deposizioni nell’ambito di vari procedimenti penali. I ricorrenti sono undici cittadini azeri residenti a Baku e in altre città dell’Azerbaijan. Fra il 2012 ed il 2016, più volte ai ricorrenti è stato negato il diritto di lasciare il territorio dell’Azerbaijan. Le autorità inquirenti avevano infatti emesso dei divieti nel contesto di vari procedimenti penali nei quali erano stati ascoltati come testimoni, non come imputati o sospetti. Invocando, in particolare l’art. 2 del protocollo n. 4 (diritto alla libera circolazione) alla Cedu, i ricorrenti hanno lamentato che il divieto imposto dalle autorità nazionali integrasse una violazione del proprio diritto di lasciare il Paese. Citando poi l’art. 13 (diritto ad un rimedio efficace) della Cedu, dieci dei ricorrenti hanno sostenuto che, poiché i tribunali interni non avevano adeguatamente esaminato i ricorsi dagli stessi proposti, essi erano stati privati del loro diritto ad un rimedio efficace per opporsi ai divieti di espatrio. La Corte ha riconosciuto che nella fattispecie l’Azerbaijan ha agito in violazione dell’art. 2 del protocollo n. 4 ed in violazione dell’art. 13 della Cedu.