Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di ottobre 2023

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di ottobre 2023

Le pronunce di ottobre della Corte Edu qui selezionate concernono la tutela del legame tra un figlio e il genitore non convivente, i criteri di differenziazione del regime penitenziario, il rapporto tra la libertà di associazione e la lotta al terrorismo.

 In A.S. e M.S. c. Italia, la Corte condanna l’Italia per violazione dell’art. 8, sotto il duplice profilo della tutela della «vita familiare» e della «vita  privata», a causa della intempestività con cui le autorità giudiziarie nazionali hanno implementato le misure necessarie a preservare il legame tra genitore non convivente e figlio, stante il comportamento oppositivo del genitore presso cui il minore è collocato, e ad allontanare quest’ultimo da una situazione fonte di grave disagio psicologico.

In Stott c. Regno Unito, il ricorrente, condannato a pena detentiva di durata determinata, chiedeva di accertare la discriminazione subita a causa di un regime penitenziario diverso e, asseritamente, più rigoroso rispetto a quello operante per gli ergastolani (nello specifico, il minimo da espiare per accedere alla liberazione anticipata o condizionale). La Corte enuncia una serie di parametri di cui lo Stato può legittimamente avvalersi per differenziare il regime penitenziario dei diversi detenuti, quali la pericolosità evidenziata nella commissione del reato oggetto di condanna.

In Internationale Humanitäre Hilfsorganisation e. V. c. Germania, la ricorrente è un’associazione senza scopo di lucro che ha subito una misura di proscrizione con conseguente scioglimento e sequestro dei beni a causa in ragione delle considerevoli donazioni finanziarie da questa effettuate a società caritatevoli legate all’organizzazione terroristica Hamas. La ricorrente lamenta che simile decisione costituisce una interferenza sproporzionata con la libertà di associazione tutelata dalla Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 19 ottobre 2023, A.S. e M.S. c. Italia, ric. n. 48618/22    

Oggetto: Articolo 8 (Vita privata e vita familiare) – violazione degli obblighi positivi – deterioramento del rapporto genitoriale a causa del comportamento oppositivo del genitore presso cui il minore è collocato – protezione del benessere psicofisico del minore – (in)tempestività delle autorità giudiziarie nazionali relativamente all’implementazione delle misure necessarie a mantenere il legame tra genitore e figlio e ad allontanare quest’ultimo da una situazione fonte di grave disagio psicologico.

Dopo la separazione personale dei genitori, il secondo ricorrente veniva inizialmente collocato presso la madre. Nel suddetto contesto relazionale, caratterizzato da una crescente ostilità tra i due ex coniugi, tale da determinare l’affidamento del minore ai servizi sociali e la nomina di un curatore speciale, i rapporti tra il secondo ricorrente e il padre (primo ricorrente) diventavano vieppiù problematici. Atteso che tale situazione era causata, principalmente, dal comportamento conflittuale della madre, sia il primo ricorrente, sia, poi, il curatore speciale e i servizi sociali richiedevano che il bambino fosse collocato in un luogo adatto a ritrovare serenità e ricostruire un rapporto equilibrato con entrambi i genitori.

La decisione del Tribunale per i Minori, intervenuta nel giugno 2019, a più di sei mesi di distanza dalla prima richiesta presentata dal padre, ed eseguita con altrettanto ritardo nel dicembre 2019, disponeva la collocazione del minore in un istituto semiresidenziale, ove i due ricorrenti riprendevano, sia pure molto lentamente e nonostante il persistere del comportamento oppositivo della madre, la reciproca frequentazione.

Nel marzo 2021, facendo seguito, anche in questo caso tardivamente, alla richiesta proposta dal primo ricorrente e dalla curatrice, il Tribunale disponeva la perizia psicologica del minore. Nella relazione, il perito raccomandava il mantenimento del secondo ricorrente nell’istituto e il suo graduale reinserimento presso il domicilio del primo ricorrente, ritenendolo più adatto a prendersi cura del minore. Nonostante le indicazioni peritali, nell’aprile 2022 il Tribunale per i minori ordinava sì la revoca della sospensione della potestà di entrambi i genitori e la permanenza del minore all’interno dell’istituto, ma disponeva, al contempo, l’organizzazione della sua graduale reintroduzione presso la madre, sostenendo che il minore non avrebbe sopportato l’interruzione dei rapporti con quest’ultima. 

La decisione in parola veniva impugnata dal primo ricorrente, che ne demandava la sospensione in via cautelare. Nondimeno, a causa del notevole carico di lavoro del giudice relatore e dell’elevato numero di «casi estremamente sensibili» già iscritti a ruolo, la Corte d’Appello rigettava la richiesta di procedere d’urgenza e rinviava la decisione all’udienza prevista per il 15 novembre 2022. In tale occasione, la Corte respingeva l’impugnazione, rilevando che la decisione era già stata eseguita e che, stando alla relazione dei servizi sociali, il minore soggiornava regolarmente presso il padre nei giorni prestabiliti.

All’esito della vicenda giudiziaria interna, il primo ricorrente decideva di ricorrere alla Corte EDU, anche in nome e per conto del figlio (secondo ricorrente), allegando la violazione dell’art. 8 della Convenzione. Più in particolare, i ricorrenti lamentavano, da un lato, la mancanza di diligenza, da parte delle autorità nazionali, nell’adottare le misure che potevano ragionevolmente essere loro richieste al fine di mantenere i legami tra i ricorrenti e facilitare l’esercizio del diritto di visita. Dall’altro, l’inadempimento, da parte delle autorità nazionali, degli obblighi positivi volti a tutelare la vita privata del minore, a fronte del rapporto estremamente conflittuale tra i genitori e dell’incapacità di questi ultimi, accertata dai tribunali nazionali, di esercitare la propria responsabilità genitoriale nel rispetto dell’interesse superiore del minore.

La questione viene, pertanto, esaminata dalla Corte tanto sotto la lente del mancato rispetto della «vita familiare» di entrambi i ricorrenti, quanto, inoltre, nella prospettiva del mancato rispetto della «vita privata» del secondo ricorrente, che pone in capo alle autorità nazionali obblighi positivi di protezione, tanto più stringenti quando a essere minacciato è il benessere fisico o psichico di un minore.

Con riferimento a entrambi gli aspetti richiamati, il nodo centrale posto all’esame della Corte è quello di valutare se, tenuto conto del margine di discrezionalità di cui dispone, lo Stato convenuto abbia realizzato un corretto equilibrio tra i diversi interessi in gioco, considerato il preminente interesse del minore. In casi analoghi, difatti, occorre, per un verso, considerare l’interesse di quest’ultimo a essere protetto da una situazione familiare che minaccia il suo benessere psicofisico. Parimenti, non si deve trascurare il suo interesse a preservare i legami con i componenti della famiglia, salvo che nelle circostanze, del tutto eccezionali, in cui quest’ultima si sia rivelata particolarmente inadatta. Inoltre, la Corte rammenta come l’adeguatezza dell’operato delle autorità si giudica, in questi casi, anche e soprattutto dalla loro rapidità.

Sulla scorta di tali indicazioni, la Corte ritiene di esaminare l’operato delle autorità nazionali  nella vicenda in esame secondo le seguenti fasi: (i) adozione della decisione di collocare il minore presso un istituto “semi-residenziale”; (ii) esecuzione della decisione de qua; (iii) adozione della decisione che ha disposto una perizia psicologica e valutazione dei provvedimenti che avrebbero dovuto essere adottati sulla base di essa, e, infine (iv) pronuncia sulla richiesta di sospensione avanzata dal primo ricorrente contestualmente all’impugnazione della sentenza che ordinava il graduale reinserimento del minore presso il domicilio della madre.

In merito alla prima questione, la Corte esordisce ricordando, da un lato, che non spetta ad essa di sostituirsi alle autorità nazionali competenti nella individuazione delle misure più idonee da applicare nei singoli casi. Dall’altro, che la collocazione del minore in un istituto “semiresidenziale” sembrava in effetti consistere nella opzione meno destabilizzante per il minore. Nondimeno, i giudici europei sottolineano come la decisione relativa all’adozione di tale misura sia giunta con significativo ritardo; e ciò, nonostante fosse stata accertata la situazione di grave disagio psicologico in cui versava il bambino, che pertanto avrebbe richiesto la trattazione del caso con la massima urgenza. Tale ritardo, ad avviso della Corte, non può tra l’altro trovare giustificazione né nel rapporto simbiotico sviluppatosi tra la madre e il minore – all’origine della condizione problematica – né tantomeno nell’opposizione dello stesso. A questo riguardo, la Corte osserva che, per quanto l’opinione del minore debba essere presa in opportuna considerazione, essa non può essere considerata aprioristicamente prevalente rispetto agli interessi eventualmente contrapposti dei genitori, soprattutto se essi consistano nel ristabilire contatti regolari con il proprio figlio. Altrimenti detto, il diritto del minore di essere ascoltato non deve essere interpretato nel senso di precludere in radice la considerazione di ulteriori fattori, i quali, in ipotesi, meglio possono rispondere al suo stesso best interest. In questo senso – avverte la Corte – una decisione fondata sull’opinione di un minore chiaramente incapace di determinarsi in ordine ai propri desideri (ad esempio, in ragione di una situazione di estrema conflittualità tra i genitori) potrebbe essere contraria all’articolo 8 della Convenzione.

La Corte riscontra, poi, numerose mancanze imputabili all’autorità giudiziaria nazionale, anche sul versante dell’esecuzione della decisione in parola. In questo frangente, i giudici europei, in applicazione dei principi generali espressi nella pronuncia Ribić c. Croazia, sottolineano, in primo luogo, come, pur richiedendosi grande cautela nell’adozione di misure coercitive, da limitarsi massimamente nell’interesse superiore del minore; nondimeno, la mancanza di cooperazione dei genitori (e tra di essi) – atteso che, nel caso di specie l’impossibilità di eseguire la misura era principalmente imputabile al comportamento oppositivo della madre (e, di riflesso, del figlio) – non esime le autorità competenti dal rispetto degli obblighi positivi che scaturiscono dall’articolo 8 della Convenzione. Invero, tali circostanze richiedono, semmai, l’adozione di porre in essere azioni tese a conciliare gli interessi in conflitto, sempre tenendo a mente la preminenza di quelli afferenti al minore. In secondo luogo, la Corte puntualizza come, in casi di questo tipo, non si possa escludere il ricorso alla sanzione penale nei confronti della persona convivente con il minore, la quale, come la madre, tenga una condotta manifestamente illecita. In questo senso, nessuna iniziativa aveva fatto seguito alla presa d’atto, da parte del Tribunale, del comportamento abusivo della donna, tale da integrare il reato di inosservanza di provvedimento dell’autorità giudiziaria. Infine, la Corte annovera, quale causa – sia pure non principale – del ritardo nell’implementazione della misura, l’assenza di continuità nella gestione dei servizi sociali.

Quanto al terzo aspetto, la Corte rileva, ancora, il ritardo con cui il Tribunale per i minori aveva disposto la perizia psicologica del minore; non giustificabile, a differenza di quanto sostenuto dal Governo, dalla asserita premura dell’autorità giudiziaria di garantire adeguatamente il diritto di difesa delle parti e di procedere a una valutazione approfondita del caso. Spetta, infatti, a ciascuno Stato contraente di organizzare il proprio sistema giudiziario in modo tale da garantire il rispetto degli obblighi positivi che incombono su di esso con riferimento all’articolo 8 e, in particolare, di dotarsi di mezzi adeguati a garantire un trattamento rapido delle cause riguardanti i minori. D’altra parte, la Corte osserva come, in più di un’occasione riguardante il deterioramento dei rapporti tra genitore non convivente e figlio, ha concluso per l’inadeguatezza dell’azione condotta dalle autorità nazionali, proprio a motivo della mancata tempestiva disposizione di una perizia psicologica. Ciò posto, secondo i giudici europei, il Tribunale non ha poi adeguatamente motivato la decisione di disporre il progressivo reinserimento del minore presso la madre, in dissonanza con quanto rilevato nella relazione peritale.

Proprio con riferimento a quest’ultima decisione, si appunta l’ultima censura della Corte. In merito all’asserito «notevole carico di lavoro del giudice relatore» che avrebbe determinato il rigetto, da parte della Corte d’Appello, della richiesta di sospensione della esecuzione avanzata dal ricorrente; rimarca come «le carenze di uno Stato nell’organizzazione del proprio sistema giudiziario non possano giustificare l’omessa adozione di misure volte a rispettare i suoi obblighi positivi, e che in situazioni in cui il comportamento o l’inattività delle autorità in un procedimento che abbia ripercussioni sulla vita privata o familiare dei ricorrenti, gli Stati hanno l’obbligo derivante dall’articolo 8 di prevedere rimedi preventivi per eventuali violazioni di tale disposizione».

La Corte conclude, quindi, che i ritardi e le inadempienze imputabili alle autorità giudiziarie italiane –  le quali sono venute meno «all’obbligo di effettuare entro un termine ragionevole una valutazione approfondita ed equilibrata della situazione nel suo insieme e dell’interesse superiore del minore», tollerando l’opposizione della madre all’esecuzione delle misure richieste dall’imperativo di tutelare gli interessi dei ricorrenti – hanno avuto un impatto significativo tanto sulla «vita familiare» del primo e del secondo ricorrente, quanto sull’equilibrio psicofisico di quest’ultimo, in violazione dell’art. 8 Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Quarta Sezione), 31 ottobre 2023, Stott c. Regno Unito, ric. n. 26104/19

Oggetto: articoli 5 e 14 della Convenzione (diritto alla libertà e divieto di discriminazione) – responsabilità per reati gravi o a sfondo sessuale e condanna a “pena determinata estesa” (comprensiva di un periodo di detenzione effettivo e un altro irrogato sulla scorta dei rischi per la collettività) – differenti condizioni di accesso alla liberazione anticipata o condizionale per i condannati a pena determinata “estesa” (espiazione di due terzi della pena base) rispetto ai condannati a pena determinata standard o all’ergastolo (espiazione di metà della pena determinata per i condannati standard, o “fittizia” per gli ergastolani) – differenze fondate sulla natura del reato, significativa di un rischio per la collettività – necessità di valutare il regime detentivo nel suo complesso, al fine di stabilirne il minor o maggior rigore.

Nel 2013 il ricorrente veniva condannato per vari reati a sfondo sessuale, tra cui undici capi d’accusa per stupro di minore di tredici anni. In precedenza, si era altresì dichiarato colpevole di ulteriori reati.

I giudici interni lo condannavano a una “pena determinata estesa” (EDS – Extended determinate sentences) ai sensi dell’art. 226A del Criminal Justice Act 2003, nello specifico a ventuno anni di detenzione con un periodo di “licenza estesa” pari a quattro anni. La Corte d’appello negava l’autorizzazione a impugnare la sentenza nel merito.

Il ricorrente adiva i giudici amministrativi lamentando che le norme sulla liberazione anticipata (early release) discriminavano senza giustificazione (pertanto, in violazione del combinato disposto degli artt. 5 e 14 della Convenzione) i condannati all’EDS rispetto ai condannati all’ergastolo, con condizioni di accesso alla liberazione condizionale (parole) più gravose.

All’epoca dei fatti, la EDS, irrogabile per reati violenti o a sfondo sessuale, comprendeva una pena detentiva “appropriata” (appropriate custodial term), ossia quella che sarebbe stata inflitta “senza estensione”, e una “licenza estesa” (licence extension) fino a 5 o 8 anni, a seconda del reato, quantificata in base alla pericolosità del singolo (letteralmente, ai rischi per la sicurezza pubblica). Le norme sulla liberazione anticipata, in caso di EDS, stabilivano, quale condizione di ammissibilità dell’istanza di liberazione condizionale, l’espiazione di due terzi della pena “appropriata”, con accoglimento comunque subordinato a una valutazione di pericolosità in concreto. In caso di pena determinata “standard”, senza estensione, il condannato poteva accedere alla liberazione anticipata o condizionale una volta espiata metà pena, continuando a scontare il periodo residuo “in licenza” (la violazione delle condizioni della licenza determinava il rientro in carcere). Per le condanne all’ergastolo discrezionale, fatta salva l’eventuale decisione di disapplicare tout court le norme sulla liberazione anticipata, i giudici erano tenuti a individuare una pena “fittizia” (quella che sarebbe stata irrogata in mancanza delle condizioni per l’ergastolo) in modo da determinare anche la durata minima da espiare ai fini della richiesta di liberazione, ossia metà pena fittizia (permanendo poi la necessità di valutare i rischi effettivi per la collettività).

Ciò posto, secondo i giudici amministrativi, la differenza di trattamento dei detenuti (condannati a pene determinate, a EDS o ergastoli discrezionali) in forza della valutazione dei rischi per la sicurezza era del tutto giustificata ai fini della protezione della collettività; viceversa, la differenza di trattamento nell’individuazione del minimo di pena da scontare in base allo scopo punitivo o preventivo della medesima non lo era; tuttavia, il precedente vincolante Clift ostava alla dichiarazione di illegittimità delle disposizioni sulla liberazione anticipata relative ai detenuti all’EDS.

La Corte Suprema autorizzava il ricorrente a presentare impugnazione ma la maggioranza la rigettava, rilevando che la differenza di trattamento dei detenuti all’EDS (in relazione alla liberazione anticipata) fosse legittima ai sensi dell’art. 14, in quanto basata su un “altro status”. Nello specifico, la maggioranza rilevava che: la giurisprudenza di Strasburgo non differenzia, nella pena detentiva, le due componenti, punitiva e preventiva, sicché la pena determinata, anche quando estesa, dovrebbe considerarsi punitiva; anche se i detenuti all’EDS dovevano scontare una parte maggiore della loro pena prima di adire il Parole Board, invero anche altre tipologie di detenuti, compresi quelli all’ergastolo, potevano trovarsi a scontare più della metà della loro pena; la differenza si fondava sulla tipologia di reato commesso e sulla conseguente necessità di considerarlo o meno dimostrativo di un rischio più alto di reiterazione e allarme sociale; non era possibile ritenere migliore o peggiore un regime detentivo, alla luce di un solo parametro (quale la pena minima per l’accesso ai benefici penitenziari) poiché, se gli ergastolani potevano accedere al Parole Board scontata metà pena (e non due terzi come i condannati all’EDS), rimanevano per il resto della loro vita in licenza e quindi passibili di essere richiamati in carcere (eventualità non prevista per i condannati all’EDS). 

Il ricorrente reiterava dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la doglianza di discriminazione in tema di privazione della libertà personale.

La Corte, ritenuta l’ammissibilità del ricorso, ribadisce i parametri di valutazione della discriminazione ai sensi dell’art. 14: deve esistere una differenza di trattamento tra persone che si trovano in «situazioni analoghe o pertinenti», non identiche. Di conseguenza, benché la situazione del ricorrente non fosse del tutto analoga a quella di altri detenuti, ciò non preclude di per sé l’applicazione dell’art. 14, dovendo però egli dimostrare che si trovava in una situazione per pertinenza simile a quella di altri detenuti, trattati in modo diverso.

Il ricorrente ha individuato due gruppi di detenuti, oltre al proprio, con cui raffrontare le condizioni di accesso alla liberazione anticipata: i detenuti con condanna determinata “standard”, “estesa”, con condanna discrezionale all’ergastolo.

La Corte, rilevata la complessità della disciplina delle pene all’epoca dei fatti, ritiene però che le diverse pene cercassero di rispondere in modo diverso a diversi livelli di reato e di rischio. 

In Clift c. Regno Unito (n. 7205/07, 13 July 2010), la Corte, adita in relazione alle suddette categorie di detenuti, aveva affermato la legittimità dei metodi di valutazione del rischio (per ottenere la liberazione), poiché, in linea di principio, analoghi per tutte le categorie di detenuti.

Nel caso di specie, la questione è diversa: tali categorie devono essere raffrontate in relazione al minimo di pena da espiare per chiedere la liberazione anticipata. In generale, il momento in cui un detenuto può chiedere i benefici penitenziari può dipendere dalla natura del reato, della condanna, dalla pena inflitta e non è necessario che i criteri siano i medesimi per tutte le categorie di detenuti. Ebbene, sia la gravità del reato che il grado di pericolosità sono chiaramente rilevanti per la liberazione anticipata e ben possono presentare gradi di manifestazione diversi a seconda del gruppo di condannati, sicché l’eventuale differenza di trattamento non può dirsi non giustificata. Inoltre, sotto il profilo della proporzionalità del trattamento imposto all’una o all’altra categoria, il rigore di un regime deve essere valutato nel suo complesso: come rilevato dalla Corte Suprema inglese, i condannati all’ergastolo, pur potendosi rivolgere al Parole Board espiata metà pena fittizia, soggiacevano alle condizioni della licenza per il resto della vita, rimanendo dunque passibili di tornare in carcere sine die, laddove i condannati all’EDS, abilitati a chiedere la riabilitazione espiati due terzi della pena, erano tenuti alle condizioni della licenza per un periodo necessariamente circoscritto.

In conclusione, non vi è stata alcuna violazione del combinato disposto degli artt. 5 e 14 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Quarta Sezione), 10 ottobre 2023, Internationale Humanitäre Hilfsorganisation e. V. c. Germania, ric. n. 11214/19

Oggetto: articolo 11 della Convenzione (libertà di associazione) – proscrizione dell’associazione ricorrente, con conseguente scioglimento e confisca dei beni, per le considerevoli donazioni finanziarie a società caritatevoli legate all’organizzazione terroristica Hamas – la lotta contro il terrorismo internazionale – margine di apprezzamento ampio nella lotta al terrorismo – la proscrizione è una misura di ultima istanza – l’associazione ricorrente - condotta dell’associazione ricorrente incompatibile con i valori fondamentali della Convenzione – bilanciamento completo e trasparente – motivi pertinenti e sufficienti - interferenza proporzionata e necessaria in una società democratica.

Il caso ha ad oggetto la proscrizione dell’associazione ricorrente, con conseguente scioglimento e confisca dei beni, a causa di considerevoli donazioni finanziarie a società di beneficenza legate all’organizzazione terroristica Hamas. Il Ministero dell’Interno tedesco ha emesso una decisione con la quale ha dichiarato che l’associazione ricorrente, un’organizzazione senza scopo di lucro, agisce contro il concetto di comprensione internazionale tra i popoli (Völkerverständigung). Con tale decisione l’associazione è stata sciolta e i suoi beni sono stati confiscati. A fondamento della misura vi era la circostanza che l’associazione aveva offerto un sostegno finanziario sostanziale e a lungo termine ad organizzazioni caritatevoli note come “società sociali” (social societies), che realizzavano progetti sociali a beneficio della popolazione palestinese - in particolare la Società islamica di Gaza - e che facevano parte dell’organizzazione terroristica Hamas. Il provvedimento è stato impugnato dalla ricorrente ma senza successo.

Di fronte alla Corte di Strasburgo l’associazione ricorrente lamentava la violazione dell’articolo 11 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che tutela la libertà di associazione.

La Corte ha innanzitutto accertato la sussistenza di un’ingerenza nell’esercizio del suo diritto alla libertà di associazione della ricorrente e, dunque, ha ritenuto applicabile l’Articolo 11 della Convenzione. Successivamente ha analizzato i requisiti riguardanti la legittimità della suddetta interferenza.

Rispetto all’osservanza del requisito della legalità, la Corte ha osservato che la misura interdittiva aveva una precisa base nel diritto nazionale, l’articolo 3(1) della Legge sulle Associazioni (Vereinsgesetz) in combinato disposto con l’articolo 9 § 2 della Legge fondamentale tedesca (Grundgesetz). Inoltre, in una sentenza precedente, il Tribunale amministrativo federale, facendo riferimento alle stesse disposizioni nazionali e con un ragionamento simile, aveva confermato la proscrizione di un’altra associazione che aveva fornito sostegno finanziario alla stessa Società islamica. Tale circostanza assumeva rilevanza sotto il profilo della prevedibilità della misura: viste le chiare e precise conclusioni del più alto tribunale amministrativo dello Stato convenuto in quella sentenza, che riguardava una situazione analoga, l’associazione ricorrente poteva trarre facilmente la una conclusione che il sostegno finanziario di un’associazione alla Società islamica costituiva un’attività definita dalla legge come «diretta contro il concetto di comprensione internazionale», rendendola passibile di proscrizione ai sensi delle disposizioni nazionali. Pertanto, la Corte ha concluso che le disposizioni in questione avevano permesso all’associazione ricorrente di prevedere la sua proscrizione e, di conseguenza, che l’interferenza lamentata era «prevista dalla legge».

La Corte ha poi precisato quale fosse lo scopo legittimo perseguito della disposizione, facendo un confronto con alcuni precedenti. Mentre il caso in questione si differenziava dai casi precedenti in quanto riguardava la lotta contro il terrorismo internazionale in generale, indipendentemente da una minaccia tangibile per lo Stato contraente, la lotta contro il terrorismo internazionale poteva comunque servire a prevenire il disordine e gli Stati dovevano essere in grado di adottare misure affinché il loro territorio non fosse utilizzato per facilitare il terrorismo e l’introduzione della violenza nei conflitti all’estero. L’articolo 11 § 2 è stato formulato in modo ampio, senza limitare gli Stati a prendere misure solo per la protezione dei diritti e delle libertà degli individui all’interno della loro giurisdizione. La protezione del concetto di «comprensione internazionale», così come interpretato e applicato nel caso di specie, costituiva quindi il legittimo obiettivo di proteggere i diritti e le libertà altrui, che includevano il diritto di vivere degli individui residenti all’estero. Del resto, la spiegazione dettagliata dell’ordine di proscrizione non lasciava dubbi circa la volontà del Ministero dell’Interno di voler perseguire uno scopo diverso e ulteriore da quello dedotto in motivazione. 

Una volta individuato lo scopo perseguito dalla misura, la Corte ha valutato la proporzionalità dell’interferenza. Innanzitutto, ha ammesso che la proscrizione dell’associazione ricorrente costituiva un’interferenza che esprimeva il massimo grado di invasività in quanto aveva necessariamente comportato il suo scioglimento. 

Nonostante i mezzi impiegati non fossero i meno afflittivi ipotizzabili, lo scopo era quello di combattere il terrorismo internazionale cercando di contrastarne il finanziamento diretto e indiretto. Tale obiettivo era riconosciuto anche da numerosi strumenti giuridici internazionali e sovranazionali.

Inoltre, il concetto di comprensione internazionale non è solo un prerequisito dell’ordinamento giuridico internazionale, ma figura anche tra i valori fondamentali della Convenzione, compresi i principi di risoluzione pacifica dei conflitti internazionali e la sacralità della vita umana. Le associazioni che svolgevano attività contrarie ai valori della Convenzione non potevano beneficiare della protezione dell’articolo 11 interpretato alla luce dell’articolo 17, che vietava di utilizzare la Convenzione per distruggere o limitare eccessivamente i diritti da essa garantiti. Sebbene l’associazione ricorrente non avesse tenuto una condotta violenta, gli obiettivi perseguiti dal divieto di sostegno indiretto al terrorismo, in quanto contrari al concetto di comprensione internazionale, erano necessariamente molto importanti e gli Stati godevano di un margine di apprezzamento più ampio al riguardo. 

Nel valutare la proporzionalità della misura impugnata, la Corte non si è limitata all’esame dello statuto dell’associazione ricorrente, secondo il quale il suo obiettivo dichiarato era quello di «fornire aiuti umanitari adeguati in tutto il mondo in caso di disastri naturali, guerre e altre catastrofi», ma ha esaminato la sua effettiva applicazione nella pratica e le attività che l’associazione ricorrente aveva effettivamente intrapreso. A questo proposito, hanno assunto rilevanza decisiva i finanziamenti che l’associazione richiedente ha fatto in favore della Società islamica e successivamente di Salam, due “società sociali” con sede a Gaza. Il Ministero e i tribunali nazionali avevano trovato prove convincenti che queste due autoproclamate “società sociali” non costituivano entità separate ma erano parte integrante di Hamas, che deve essere considerata un’organizzazione terroristica. D’altra parte, a tale ultima conclusione è giunta anche l’Unione Europea che ha incluso l’intera organizzazione di Hamas nelle liste di sanzioni di «persone, gruppi ed entità coinvolti in atti terroristici» dal 2003, come confermato da una sentenza della Corte di Giustizia Europea (Council of the European Union v. Hamas, C-833/19 P, 23 novembre 2021, EU:C:2021:950). 

Anche i tribunali nazionali erano giunti a conclusioni convincenti sul fatto che, anche se l’associazione ricorrente non aveva commesso atti di vera e propria violenza, i suoi membri erano a conoscenza e avevano approvato il legame delle “società sociali” con Hamas. I tribunali nazionali hanno inoltre fatto riferimento al notevole ammontare del finanziamento da parte dell’associazione ricorrente, agli stretti legami tra le organizzazioni in questione e al fatto che l’associazione ricorrente, temendo potenziali restrizioni alle sue attività, aveva cercato di nascondere il suo rapporto con Hamas sostituendo la Società islamica come beneficiaria del suo sostegno finanziario con Salam. Da ciò avevano concluso che l’associazione richiedente avrebbe cercato di aggirare nuovamente le restrizioni in futuro e che si era fondamentalmente identificata con Hamas. 

Per quanto riguarda l’intrusività della misura, anche la legge nazionale prevedeva la proscrizione di un’associazione come misura di ultima istanza. La Corte costituzionale tedesca aveva indicato inequivocabilmente che la proscrizione di un’associazione era una forma di interferenza grave, che poteva essere imposta solo quando mezzi meno restrittivi non sarebbero stati efficaci per raggiungere gli obiettivi perseguiti dalle autorità. A tal proposito aveva però valutato che nel caso di specie una semplice restrizione delle sue attività non sarebbe stata efficace. Infatti, dal momento che un’associazione si identifica con gli obiettivi di un’organizzazione terroristica che sostiene indirettamente e quando viene accertato un rischio reale di elusione futura sulla base di una condotta simile in passato, la proscrizione totale dell’associazione ricorrente non appare un mezzo sproporzionato. 

Accertato che l’associazione richiedente, pur continuando a presentare le proprie attività sotto l’apparenza di aiuti umanitari, ha consapevolmente sostenuto il terrorismo internazionale, direttamente o indirettamente, la Corte ha concluso che tale condotta era incompatibile con i valori fondamentali della Convenzione. Del resto, né nei procedimenti nazionali né nel ricorso alla Corte l’associazione ricorrente si era dissociata dagli obiettivi e dalle azioni violente di Hamas.

In sintesi, dato il più ampio margine di apprezzamento nelle circostanze specifiche, l’esauriente esercizio di bilanciamento condotto dai tribunali nazionali e i ponderosi interessi in gioco, le autorità avevano addotto ragioni pertinenti e sufficienti e non avevano oltrepassato il loro margine di apprezzamento. Pertanto, l’interferenza con la libertà di associazione dell’associazione ricorrente era stata proporzionata agli obiettivi legittimi perseguiti e quindi «necessaria in una società democratica».

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
 
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

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In tema di sanzione disciplinare al giudice che posta messaggi politici su Facebook. La CEDU condanna la Romania per violazione del diritto alla libertà di espressione

In un caso relativo alla sanzione disciplinare della riduzione della retribuzione inflitta ad un giudice che aveva pubblicato due messaggi sulla sua pagina Facebook, la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza 20 febbraio 2024, Danileţ c. Romania (ricorso n. 16915/21), ha ritenuto, a strettissima maggioranza (quattro voti contro tre), che vi sia stata una violazione dell'articolo 10 (libertà di espressione) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. 

26/03/2024
Sentenze di dicembre 2023

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di dicembre 2023

15/03/2024