A partire dallo scorso numero di Pillole di CEDU, si trovano evidenziate nel corpo dell'articolo le parti in cui la Corte introduce dei test o un'elencazione di criteri funzionali ad essere applicati successivamente in casi analoghi. Abbiamo pensato che questo piccolo accorgimento possa dare opportuno risalto al contenuto nomofilattico delle pronunce più significative.
Le pronunce di maggio della Corte Edu qui selezionate riguardano la legittimità di un ordine di confisca di un bene culturale, di giudizi di valore espressi da un avvocato nei confronti di un magistrato, di perquisizioni e intercettazioni nei confronti di soggetti diversi dagli indagati.
In The J. Paul Getty Trust e Altri c. Italia la Corte ha affrontato la legittimità di un ordine di confisca recuperatorio di una famosa statua di bronzo sita alla Getty Villa di Malibù, acquistata negli anni Settanta dal Trust del Museo ma di indubbia provenienza illecita. Il giudizio è stata l’occasione di fare applicazione della ormai consolidata giurisprudenza in materia di legittimità della confisca nei confronti di terzi acquirenti.
In Lutgen c. Lussemburgo, la Corte ravvisa una violazione dell’art. 10 nella condanna di un avvocato a seguito di alcune insinuazioni espresse dallo stesso nei confronti di un magistrato.
Infine, con la pronuncia Contrada c. Italia (n. 4), la Corte stigmatizza, sia ai fini dell’ammissibilità del ricorso che dell’illegittimità dell’ingerenza col diritto al rispetto della vita privata, l’assenza di un rimedio con cui il terzo possa ottenere il controllo di legittimità e necessità di un ordine di intercettazione.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 2 maggio 2024, ric. n. 35271/19, The J. Paul Getty Trust e Altri c. Italia
Oggetto: articolo 1 Prot. 1 (pacifico godimento dei beni) - confisca per recuperare dal Getty Museum negli Stati Uniti una statua di bronzo del periodo greco classico – l’interesse proprietario è sufficientemente accertato e rilevante da configurare un “possesso” - la base giuridica del provvedimento impugnato è sufficientemente chiara, prevedibile e compatibile con lo Stato di diritto – assenza di un termine per le azioni di recupero - scopo legittimo della protezione del patrimonio culturale e artistico del Paese - forte consenso nel diritto internazionale ed europeo – prova raggiunta che la statua faceva parte del patrimonio culturale italiano e apparteneva legalmente allo Stato al momento dell'emissione dell'ordine di confisca - le conclusioni dei tribunali nazionali non sono né manifestamente errate né arbitrarie – assenza di buona fede incolpevole del ricorrente - la natura di acquisto della transazione giustificava un elevato standard di diligenza - il Trust non ha agito con la diligenza richiesta - nessuna legittima aspettativa di trattenere la statua o di ottenere un eventuale risarcimento - le autorità nazionali hanno operato in un vuoto giuridico in quanto non erano in vigore strumenti giuridici internazionali vincolanti al momento dell'esportazione della statua e dell'acquisto da parte del Trust.
Il caso è stato proposto dal J. Paul Getty Trust e dai 14 membri del suo consiglio di amministrazione con lo scopo di contestare la legittimità dell’ordine di confisca emesso in Italia nei confronti di una antica statua di bronzo esposta alla Getty Villa di Malibù. Nel 1964 la statua in bronzo del "Giovane Vittorioso" (nota anche come "Atleta di Fano" o "Lisippo di Fano") fu scoperta da alcuni pescatori nel Mare Adriatico, al largo della costa di Pedaso (Marche, Italia). Il suo ritrovamento è stato tenuto nascosto alle autorità italiane e negli anni seguenti fu venduto a un acquirente all’epoca sconosciuto.
Lo Stato italiano aprì due procedimenti. Il primo per il reato di ricettazione reato di ricettazione (art. 648 c.p.) in concorso con il reato di ricettazione di un bene archeologico dello Stato punito (art. 67 della l.n. 1089 del 1939) si concluse nel 1970 con la sentenza della Corte d'Appello di Roma che assolse gli imputati per mancanza di prove. Il secondo per il reato di esportazione illegale di opere d'arte che si concluse con un’archiviazione in quanto gli autori dell'esportazione clandestina in Gran Bretagna e negli Stati Uniti erano rimasti ignoti.
Nel luglio 1977 il Getty Trust acquistò la statua a Monaco di Baviera tramite un contratto stipulato nel Regno Unito per 3,95 milioni di dollari statunitensi (USD). L'acquisto è avvenuto a seguito di una consulenza legale, comprese le sentenze e le decisioni delle autorità italiane in materia. La statua entrò negli Stati Uniti attraverso il porto di Boston il 15 agosto 1977 e arrivò alla Getty Villa di Malibu (California, Stati Uniti d'America) nel marzo 1978.
Durante questo periodo le autorità italiane fecero diversi tentativi per recuperare la statua, tra cui coinvolgimento dell’Interpol, diverse indagini penali nazionali, una lettera di richiesta al governo del Regno Unito (attraverso il quale la statua stava transitando) e una lettera di richiesta alle autorità statunitensi. Tutti i tentativi non ottennero alcun risultato positivo. I tentativi di recupero della statua sono stati quindi ripresi dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali italiano, che ha fatto pressioni diplomatiche del governo statunitense, facendo riferimento alla Convenzione dell'UNESCO sui mezzi per proibire e prevenire l'importazione, l'esportazione e il trasferimento di proprietà illeciti di beni culturali, di cui sia gli Stati Uniti che l'Italia sono firmatari, che non è andata a buon fine, nonostante la restituzione concordata di altri tesori archeologici.
Il Getty Museum ha sempre rifiutato di restituire l'opera sostenendo che i presunti reati erano caduti in prescrizione e che il Getty Trust aveva agito in buona fede quando aveva acquistato la statua.
Infine, sulla base di nuove risultanze probatorie, le autorità giudiziarie italiane hanno aperto un’ulteriore indagine a cui ha fatto seguito un’ordinanza di confisca emessa nel 2010 finalizzata al recupero della statua, «ovunque si trovi». Tale ordinanza dichiarava che, poiché la statua era stata rinvenuta da una nave battente bandiera italiana in acque internazionali, l'Italia ne aveva acquisito la proprietà. L’opposizione dei ricorrenti di fronte è stata respinta e nel 2018 il provvedimento di confisca è stato confermato.
Il Getty Trust ha presentato due ricorsi per motivi di diritto di fronte alla Corte di Cassazione, la quale ha respinto entrambi i ricorsi e confermato l’ordine di confisca in data 2 gennaio 2019. La Corte di Cassazione ha chiarito che la confisca non era qualificabile come sanzione penale, in quanto era principalmente finalizzata al recupero, e che il Getty Trust aveva acquistato lo statuto senza accertarne adeguatamente la provenienza, nonostante fosse acclarato che lo stesso del Signor Paul Getty avesse delle remore circa la sua lecita provenienza. La Corte di Cassazione ha ritenuto che il bronzo fosse italiano per diversi motivi, tra cui la bandiera del peschereccio che lo aveva ritrovato nonché l’esistenza di «un continuum tra la civiltà greca, che si era espansa sul territorio italiano, e la successiva esperienza culturale romana» che consentiva di affermare che la statua del "Giovane vittorioso" appartenesse al patrimonio culturale italiano.
A seguito della sentenza della Corte di Cassazione, il Ministero della Giustizia italiano ha inviato una lettera di richiesta di cooperazione giudiziaria alle autorità statunitensi per l’esecuzione della confisca. Tale richiesta non è ancora stata eseguita e la statua continua ad essere conservata presso il Getty Villa Museum di Malibu.
Di fronte alla Corte EDU, i ricorrenti lamentavano la violazione dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 affermando che il provvedimento di confisca era illegittimo per diverse ragioni: esso difettava del requisito della legalità; la statua non faceva parte del patrimonio culturale italiano e quindi lo scopo del provvedimento di confisca era illegittimo; il provvedimento di confisca imponeva loro un onere eccessivo, anche in considerazione della loro buona fede.
La Corte ha innanzitutto affermato che l’ordine di confisca emesso nei confronti dei ricorrenti rappresentasse un’interferenza al pacifico godimento dei beni dei ricorrenti in quanto i ricorrenti erano titolari di un interesse proprietario sufficientemente consolidato da costituire un “bene” secondo il significato dell’art. 1 prot. I (per una critica a questa valutazione cfr. l’opinione dissenziente del Giudice Wojtyczek).
Per quanto riguarda il requisito della legalità, la Corte ritenuto che vi fosse una chiara base legale (articolo 174, comma 3, del Decreto Legislativo n. 42/2004) a sostegno del provvedimento di confisca della statua, che i ricorrenti avrebbero dovuto prevedere sarebbe stato emesso e che era compatibile con lo Stato di diritto. Ha osservato, tra l'altro, che la mancanza di un termine per le azioni di recupero dei beni culturali perduti o rubati non era un'esclusiva dell'Italia e si rifletteva nelle leggi di diversi altri Stati europei. L’assenza di un tale limite trovava giustificazione nell’ampio margine di manovra che era ragionevole garantire agli Stati nel settore del recupero delle opere d’arte contrabbandate. La mancanza di un termine da sola non era quindi sufficiente per riscontrare una violazione.
Rispetto invece allo scopo legittimo perseguito dalla misura di confisca, la Corte ha ribadito che la protezione del patrimonio culturale e artistico di un Paese è un obiettivo legittimo ai fini della Convenzione. A sostegno di questa affermazione la Corte ha richiamato i vari strumenti internazionali che sanciscono l'importanza della protezione dei beni culturali dall'esportazione illegale: la Convenzione UNESCO del 1970 sui mezzi per proibire e prevenire l'importazione, l'esportazione e il trasferimento di proprietà illeciti di beni culturali; la Convenzione UNIDROIT del 1995 sui beni culturali rubati o esportati illegalmente; nell'ambito dell'UE, la Direttiva 2014/60/UE sulla restituzione dei beni culturali usciti illegalmente dal territorio di uno Stato membro e il Regolamento 116/2009/CE sull'esportazione di beni culturali. La protezione offerta dalla Convenzione ai diritti dei ricorrenti non poteva mettere in discussione la legittimità di misure statali volte a proteggere il patrimonio culturale dall'esportazione illecita dal Paese d'origine o a garantirne il recupero e la restituzione per il fine ultimo di facilitare nel modo più efficace l'ampio accesso del pubblico alle opere d'arte. Tale interesse legittimo era stato legittimamente perseguito dalle autorità italiane. Prendendo atto della valutazione della Corte di Cassazione, la Corte EDU ha ritenuto che le autorità italiane avessero ragionevolmente dimostrato che la statua faceva parte del patrimonio culturale italiano e apparteneva legalmente allo Stato anche quando i tribunali italiani avevano emesso il provvedimento di confisca. La Corte ha ritenuto che la decisione della Corte di Cassazione non fosse né manifestamente errata né arbitraria. La Corte ha quindi ritenuto che il provvedimento fosse stato emesso «nell'interesse pubblico o generale», ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n. 1, al fine di proteggere il patrimonio culturale italiano.
Infine, rispetto al requisito della proporzionalità, la Corte ha dato particolare importanza al comportamento assunto delle parti nella vicenda traslativa. La natura dell'transazione – l'acquisto di un bene culturale – richiedeva un elevato standard di diligenza. L'acquirente di un bene deve indagare attentamente sulla sua origine per evitare possibili richieste di confisca. Con specifico riguardo all'acquisto di beni culturali, e sebbene non applicabile ai fatti del caso, la Corte ha preso atto dell'elevato standard di diligenza imposto dall'articolo 4 della Convenzione UNIDROIT del 1995 e dall'articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2014/60/UE.
Nelle circostanze specifiche del caso, la Corte ha osservato che le autorità nazionali avevano accertato che il Getty Trust, acquistando la Statua in assenza di qualsiasi prova della sua legittima provenienza e con piena consapevolezza delle pretese delle autorità italiane su di essa, aveva ignorato i requisiti della legge, quantomeno per negligenza, o forse addirittura in malafede. La Corte ha ritenuto che la valutazione dei tribunali nazionali non fosse stata arbitraria o manifestamente irragionevole e, quindi, non poteva essere ridiscussa in fatto.
Inoltre, poiché il Getty Trust era a conoscenza del fatto che non esisteva un termine per l'adozione di una misura di confisca finalizzata al recupero di beni culturali esportati illegalmente, non poteva nutrire alcuna legittima aspettativa di conservare la statua, dato che diversi enti statali italiani avevano lavorato ininterrottamente per recuperarla, o di ricevere un risarcimento. La Corte ha quindi concluso che il Trust non ha agito con la diligenza richiesta quando ha acquistato la statua.
La Corte ha inoltre affermato che le autorità italiane nel caso di specie hanno operato in un vuoto giuridico, poiché nessuno degli strumenti internazionali che avrebbero potuto agevolare il recupero del bene culturale esportato illegalmente era in vigore all'epoca dei fatti (si vedano, ad esempio, le procedure previste dalla Convenzione UNIDROIT del 1995 e dalla Direttiva 2014/60/UE, ove applicabile).
Nel complesso, tenendo conto dell'ampio margine di apprezzamento dello Stato nel determinare l'interesse pubblico, del forte consenso del diritto internazionale ed europeo sulla necessità di proteggere i beni culturali dall'esportazione illegale e di restituirli al loro Paese d'origine, e della condotta negligente del Getty Trust, la Corte ha concluso che l'ordine di confisca era proporzionato.
Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 16 maggio 2024, ric. n. 36681/23, Lutgen c. Lussemburgo
Oggetto: articolo 10 della Convenzione – violazione – libertà di espressione degli avvocati nel contesto dell’attività di assistenza legale – ammissibilità di critiche nei confronti di un magistrato – necessità della restrizione – giudizi di valore – base fattuale sufficiente
Il ricorrente, avvocato, assisteva un’impresa coinvolta in una vicenda giudiziaria relativa a un incidente mortale sul luogo di lavoro. Lo stesso presentava più volte istanza al giudice istruttore per ottenere il dissequestro dello stabilimento dell’azienda, disposto a fini probatori per eseguire una perizia sull’impianto elettrico che aveva causato l’evento infausto.
A seguito dell’ultimo provvedimento di rigetto emesso dall’autorità giudiziaria nonostante la cessazione dell’attività peritale, il legale inviava per e-mail una segnalazione al Ministro della Giustizia, mettendo in copia il Procuratore Generale dello Stato, deputati, all’epoca dei fatti, a vigilare sulla buona amministrazione della Giustizia (competenza assunta dal Conseil national de la justice, a partire dal 1° luglio 2023), al fine di informarli della situazione. Nella missiva il ricorrente esprimeva critiche aspre sulla condotta tenuta dal giudice nel caso di specie e aggiungeva alcune considerazioni sui cattivi rapporti che in passato erano intercorsi con lo stesso. L’email anticipava peraltro di poche ore la comunicazione dell’avvenuto dissequestro.
A causa di tali affermazioni il ricorrente veniva imputato e quindi condannato in via definitiva ad una multa per il reato di «Oltraggio a un magistrato» ai sensi dell’art. 257 del codice penale lussemburghese e, per tale motivo, si rivolgeva alla Corte di Strasburgo lamentando la violazione dell’art. 10 della Convenzione.
Nel giudizio dinanzi a essa, intervenivano in qualità di terzi il Consiglio degli Ordini Forensi d’Europa e l’Ordine degli avvocati di Lussemburgo.
Dopo aver richiamato la propria giurisprudenza in tema di libertà di espressione degli avvocati (Morice c. Francia), la Corte procede a verificare la legittimità della limitazione subita dal diritto implicato nel caso de qua, consistita nella condanna del ricorrente.
Accertati i requisiti della previsione di legge (a) e della legittimità dello scopo perseguito (b), il giudice sovranazionale si concentra su quello della «necessità» dell’ingerenza (c). Al riguardo, viene ribadita, anzitutto, la necessità di distinguere accuratamente tra «fatti», da una parte, e «giudizi di valore», dall’altra; attesoché la materialità dei primi può essere provata, mentre l’esattezza dei secondi non può essere dimostrata pur dovendosi comunque fondare su una «base fattuale sufficiente», in assenza della quale risulterebbe eccessiva. La Corte (c1) qualifica dunque le insinuazioni che avevano determinato la condanna – allusive, in sostanza, a una predisposizione ostile del giudice nei confronti del ricorrente (tra cui, in particolare: «Non è la prima volta che ho un incidente con [il giudice]», «Inutile dire che tutto ciò è totalmente inaccettabile», e «Potete immaginare cosa ne penso») – alla stregua di giudizi di valore (come indirettamente confermato dalla qualificazione operata dai giudici nazionali alla stregua di «insinuazioni diffamatorie»). Inoltre (c2) ritiene che a fondamento di essi vi fosse una base fattuale sufficiente. Invero, nell’e-mail in questione il ricorrente aveva fatto riferimento in maniera circostanziata ad alcuni «incidenti» accaduti in passato.
Pur non ravvisando alcun legame diretto tra tali eventi e il procedimento per cui era stato disposto il sequestro, la Corte sottolinea che essi potevano essere considerati una base fattuale sufficiente per spiegare perché il ricorrente aveva ritenuto che – considerata l’urgenza della situazione in cui versava la sua assistita – la mancata risposta del giudice rappresentasse nella sua prospettiva una «circostanza inaccettabile», che necessitava di essere segnalata quale malfunzionamento del sistema giudiziario.
Il giudice europeo rileva, inoltre, che il giudizio di valore implicito nell’aggettivo «inaccettabile» doveva essere letto nello scenario «difensivo»: ovvero il rischio di un imminente e irreparabile danno economico e occupazionale per l’impresa assistita, colpita dal sequestro. In questa cornice, non si può peraltro trascurare che le affermazioni che avevano determinato la condanna erano state espresse in un’email rivolta per iscritto esclusivamente alle autorità incaricate, all’epoca dei fatti, di vigilare sul funzionamento del sistema giudiziario e non erano state rese in nessun modo pubbliche.
Chiarito ciò, viene rammentato conclusivamente che – salvo il caso di attacchi gravemente lesivi e del tutto infondati – i magistrati, considerata la loro appartenenza alle istituzioni fondamentali dello Stato, possono essere destinatari di critiche personali entro i limiti consentiti, e non soltanto in maniera teorica e generale. A questo proposito, il perimetro di ammissibilità delle critiche nei loro confronti, quando agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali, è più ampio rispetto a quello relativo alle critiche che possono subire i semplici cittadini.
Nella vicenda in esame, le dichiarazioni del ricorrente, pur essendo indiscutibilmente tese a screditare il magistrato, non potevano perciò essere qualificate come un “attacco personale gratuito” nei suoi confronti se opportunamente collocate nel contesto professionale in cui esse erano inserite e non giustificavano l’applicazione di una sanzione penale. A questo ultimo riguardo evidenzia che, secondo la propria giurisprudenza, anche se la condanna comporta una pena pecuniaria modesta (c.d. «euro simbolico») sostitutiva di quella detentiva, essa costituisce comunque una sanzione penale, potenzialmente dissuasiva della libertà di espressione e sproporzionata nel caso in esame.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 23 maggio 2024, n. 2507/19, Contrada c. Italia (n. 4)
Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e della corrispondenza) e articolo 35 § 1 (condizioni di ricevibilità) – perquisizione, sequestro e intercettazioni nei confronti di soggetto non indagato nel procedimento penale – in relazione alla perquisizione, possibilità di ottenere il riconoscimento dell'illegittimità o non necessità dell’atto d’indagine mediante il riesame del sequestro, con restituzione del materiale sequestrato e sua inutilizzabilità in altro procedimento penale - rimedi interni non esauriti – in relazione alle intercettazioni telefoniche, mancanza di garanzie adeguate ed efficaci contro il rischio di abusi, non disponendo il terzo di un rimedio per il controllo di legittimità e necessità dell’atto di indagine.
Il ricorrente era stato condannato per concorso esterno in associazione di tipo mafioso con sentenza irrevocabile nel 2008.
A dicembre 2017, la Procura della Repubblica di Palermo indagava sull’omicidio dell’agente di polizia A.A. nel 1989. In base alle prime emergenze probatorie, la vittima faceva parte di una cellula dei servizi segreti operante sotto copertura per rintracciare membri latitanti della mafia; A.G. e altri agenti della cellula, di cui il ricorrente all’epoca dei fatti era il superiore, sarebbero stati corrotti dal clan e avrebbero tentato di ostacolare le indagini. Uno di loro, dopo un interrogatorio, aveva contattato il ricorrente che, a sua volta, era veniva interrogato, senza però mostrarsi del tutto collaborativo.
Per tale ragione, la Procura chiedeva l’autorizzazione a intercettare cinque utenze telefoniche intestate al ricorrente che, tuttavia, non figurava tra gli indagati (due presunti membri di Cosa nostra e l’agente di polizia A.G.), al fine di monitorare le reazioni dei poliziotti presumibilmente corrotti.
Il GIP presso il Tribunale di Palermo autorizzava le intercettazioni ai sensi degli artt. 266 e 267 c.p.p., prorogandole in più occasioni e autorizzando, infine, il pubblico ministero a ritardare il deposito delle pertinenti trascrizioni.
Poiché le intercettazioni avevano fatto emergere il possesso, da parte del ricorrente, di documenti potenzialmente rilevanti, la Procura disponeva la perquisizione dell’abitazione di quest’ultimo e di due immobili di sua proprietà; in seguito, della documentazione sequestrata, la Procura ordinava la restituzione di alcuni album fotografici e rinviava a giudizio due indagati (non A.G., nel frattempo deceduto).
Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 8 della Convenzione.
Il governo convenuto eccepiva il mancato esaurimento dei rimedi interni: in relazione alla perquisizione, il ricorrente avrebbe potuto ottenere la valutazione della legittimità e della necessità della perquisizione tramite il riesame del sequestro ai sensi degli artt. 257 e 324 c.p.p., un rimedio accessibile anche per soggetti diversi dall’indagato; in relazione alle intercettazioni, il ricorrente avrebbe potuto ottenere copia delle pertinenti decisioni ai sensi dell’art. 116 c.p.p. ed eventualmente impugnarle per abnormità dinanzi alla Corte di cassazione, nonché chiedere la cancellazione ai sensi dell’art. 269 c.p.p., inoltre, ai sensi dell’art. 271 c.p.p., il giudice avrebbe potuto ordinare la distruzione delle intercettazioni ordinate o eseguite illegalmente.
La Corte ribadiva il test per vagliare il rispetto del requisito del previo esaurimento dei rimedi interni, la cui funzione è dare agli Stati contraenti l’opportunità di prevenire o porre rimedio alle violazioni addebitate prima che siano portate dinanzi alla Corte. I rimedi devono essere pertinenti alle violazioni denunciate, disponibili e adeguati. Un rimedio è effettivo quando disponibile sia in teoria che in pratica all’epoca dei fatti, accessibile, in grado di offrire una ragionevole prospettiva di successo (Sejdovic c. Italia [GC], n. 56581/00, § 46). Una volta assolto il pertinente onere della prova da parte del Governo, spetta al ricorrente dimostrare che il rimedio sia stato effettivamente utilizzato o che, per qualche motivo, non era né adeguato né efficace rispetto ai fatti del caso, o che vi erano circostanze particolari che ne hanno impedito l’esercizio. Non vi è alcun obbligo di ricorrere a rimedi che non siano né adeguati né efficaci e, d’altronde, il semplice fatto di nutrire dubbi sulle prospettive di successo di un determinato rimedio che non sia palesemente destinato al fallimento non costituisce un motivo valido per non esercitarlo. In tema di art. 8 della Convenzione, il rimedio deve consentire un controllo di legittimità e necessità dell’interferenza; a fronte di un’irregolarità, deve garantire un’adeguata riparazione (esemplificativamente, la cancellazione dell’atto e degli elementi di prova da esso risultanti). Il vaglio di utilizzabilità della prova da parte del giudice di merito non costituisce un rimedio effettivo se non implica un giudizio di legittimità e necessità del mezzo di ricerca della prova.
Nel caso di specie, la legittimità o necessità del decreto di perquisizione risulta sufficientemente garantita dalla procedura di riesame del sequestro; mentre in Brazzi c. Italia (n. 57278/11, §§ 46-51, 27 settembre 2018), il rimedio appariva destinato a fallire in mancanza di un provvedimento di sequestro, nel caso di specie ne risulta la potenziale efficacia. Ai fini dell’idoneità della riparazione, inoltre, non è necessario un risarcimento economico, risultando sufficiente la restituzione dei beni sequestrati e la conseguente garanzia che i beni della vita privata appresi non siano utilizzati in altro procedimento penale.
Viceversa, la Corte esclude l’accessibilità ed effettività del rimedio proposto dal Governo in relazione alle intercettazioni a carico di un soggetto terzo al procedimento.
Nel vagliare l’esistenza di un controllo della legittimità delle intercettazioni adottate, la Corte esclude che l’art. 269 c.p.p. sia pertinente poiché, nonostante legittimi qualsiasi interessato (dunque anche il terzo), subordina la distruzione delle registrazioni solo alla verifica di «non necessità per il procedimento», ai sensi del comma 2 (§ 69), pertanto non consentirebbe un «controllo di proporzionalità o legittimità dell’ingerenza». D’altronde, la Corte valorizza la differenza con l’art. 271 c.p.p., sull’inutilizzabilità e la conseguente distruzione delle intercettazioni in casi specifici, ritenendo questa norma comprensiva di un controllo di legittimità e proporzionalità idoneo ai fini dell’art. 8, ma apparentemente non invocabile dal terzo (perlomeno in base alla prospettazione del Governo convenuto).
Accertata l’ammissibilità del ricorso, la Corte vaglia la legittimità dell’ingerenza, a partire dalla verifica dei requisiti di accessibilità e prevedibilità della legge.
Al fine di contenere il rischio di abuso del potere, la legge che contempla una misura di sorveglianza segreta deve indicare: la natura dei reati che possono dar luogo all’ordine di intercettazione, le categorie di persone che possono essere intercettate, la durata massima per cui la misura può essere eseguita, la procedura da seguire per l’esame, l’uso e la conservazione dei dati raccolti, le precauzioni da adottare nella comunicazione dei dati ad altre parti e le circostanze in cui la cancellazione o la distruzione delle registrazioni può o deve avvenire. La Corte valuta, inoltre, tutte le circostanze del caso, ad esempio la natura, la portata e la durata delle misure, le ragioni necessarie per ordinarle, le autorità competenti a consentirle, eseguirle e controllarle, e il tipo di rimedio previsto dal diritto interno.
Nel caso di specie, la Corte rileva la complessiva prevedibilità della normativa italiana: pur non specificando le categorie di soggetti suscettibili di intercettazione, la giurisprudenza interna garantisce che l’autorizzazione ex ante sia motivata anche in relazione al legame tra l’indagato e il soggetto da sottoporre a intercettazione.
Tuttavia, s’interroga sulla questione della notifica ex post della misura di sorveglianza e sull’assenza della sua previsione nei confronti di soggetti diversi dagli indagati.
In base alla pertinente giurisprudenza, l’obbligo di notifica a posteriori di una misura di intercettazione è legato a due fattori: se tale notifica sia possibile in pratica, tenuto conto del contesto in cui la sorveglianza è effettuata, e se costituisca un presupposto per l’utilizzo dei ricorsi giurisdizionali ai sensi del diritto nazionale (Roman Zakharov c. Russie [GC], n. 47143/06).
Nel caso di specie, sebbene il ricorrente non fosse stato informato delle intercettazioni, egli ne era venuto indirettamente a conoscenza in sede di perquisizione sicché, una volta appresa tale circostanza, avrebbe dovuto avere a disposizione un rimedio per un controllo giudiziario di legittimità.
L’impossibilità per il terzo di ottenere un controllo di legittimità dell’ordine di intercettazione rende l’ingerenza illegittima per «qualité de la loi» nonché «nécessaire dans une société démocratique».
Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa