Le pronunce di settembre della Corte Edu qui selezionate riguardano gli strumenti di tutela del diritto di conoscere le proprie origini (e il bilanciamento col diritto all’anonimato); la responsabilità degli Stati per la condotta omissiva delle forze dell’ordine, in particolare quando procedano all’arresto di persone in stato di vulnerabilità (ad esempio, perché tossico-dipendenti); i requisiti di proporzionalità della confisca di acquisti illeciti, anche al di fuori del procedimento penale.
In Gauvin-Fournis e Silliau c. Francia, la Corte valuta la compatibilità della nuova legislazione in materia di accesso alle proprie origini per le persone nate da procreazione medicalmente assistita, nella misura in cui questa subordina tale accesso al consenso dei terzi donatori. Nell’escludere la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, la Corte valorizza la qualità processo legislativo che ha portato alla definizione della nuova legge e l’assenza di un consenso europeo in materia di limiti al diritto assoluto di anonimato. Nonostante il ridotto margine di apprezzamento in materie che toccano aspetti essenziali delle persone interessate, il legislatore francese ha effettuato un bilanciamento di interessi che non esorbita il suddetto margine.
In Ainis e Altri c. Italia, la Corte rileva la violazione degli obblighi materiali derivanti dalla tutela del diritto alla vita di cui all’art. 2 della Convenzione, in relazione alla morte di un tossicodipendente in stato di arresto presso la questura. In concreto, la vittima, già in stato psicofisico alterato, richiedeva di andare in bagno e riusciva ad assumere una dose di sostanza stupefacente, rivelatasi fatale. La maggioranza del collegio sovranazionale addebita agli agenti coinvolti il mancato coinvolgimento dell’ambulanza nell’immediatezza dell’arresto (quando, tuttavia, secondo i periti nazionali, ancora non sussisteva la necessità di un controllo medico); il deficit di diligenza nella perquisizione personale effettuata in fase di arresto e non ripetuta in questura; il deficit di sorveglianza nelle ore di custodia. Un’opinione dissenziente, delineando un test di verifica della violazione omissiva che ricorda il metodo di ragionamento normalmente utilizzato dalla giurisprudenza penale per accertare la causalità e la colpa nelle condotte omissive, stigmatizza le conclusioni della sentenza.
Infine, in Yordanov e Altri c. Bulgaria, la Corte torna sui criteri di proporzionalità della confisca degli acquisti illeciti: il catalogo dei reati presupposto, la loro gravità, la capacità di generare redditi illeciti; l’ampiezza dell’arco temporale degli acquisti di cui dimostrare l’origine lecita; eventuali limiti alla prova testimoniale. Si tratta di “indici” rilevanti ma che possono essere controbilanciati dall’accertamento del collegamento tra il bene da confiscare e il reato che ne potrebbe giustificare la provenienza.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 7 settembre 2023, ric. nn. 21424/16 e 45728/17, Gauvin-Fournis e Silliau c. Francia
Oggetto: Articolo 8 (Vita privata) - Rifiuto da parte delle autorità nazionali di consentire alle persone nate da procreazione medicalmente assistita con un donatore terzo di accedere alle informazioni che le riguardano in virtù della regola dell'anonimato della donazione di gameti – Diritto dei richiedenti all'effettivo rispetto della loro vita privata – Diritto di accesso alle proprie origini – Ampio margine di apprezzamento – Assenza di un chiaro consenso europeo sull'accesso alle proprie origini, ma una recente tendenza a favore dell'eliminazione dell'anonimato del donatore - Accesso alle origini solo previo consenso del donatore terzo
Il caso riguarda due cittadini francesi concepiti mediante inseminazione artificiale con il seme di un donatore terzo.
La prima ricorrente, all'età di ventinove anni, veniva a conoscenza dai suoi genitori della modalità del suo concepimento. La ricorrente si è in seguito è rivolta al Centre d'études et de conservation des œufs et spermatozoi (CECOS) di Bondy per ottenere informazioni sul donatore di gameti da cui è stata concepita, in particolare la sua identità e altre informazioni non identificative, come la sua età, lo stato occupazionale, la descrizione fisica, le ragioni della donazione, il numero di persone concepite dai suoi gameti e i dati sulla sua storia clinica. Inoltre, voleva sapere se suo fratello fosse stato concepito dallo stesso donatore. In seguito al rifiuto implicito di questa richiesta, la ricorrente si è rivolta alla Commission d'accès aux documents (CADA). Quest’ultima ha espresso un parere negativo sulla divulgazione richiesta, con l'eccezione delle cartelle cliniche dei genitori che mostrano i passi effettivamente compiuti per ottenere la procreazione medicalmente assistita. Il CADA ha ricordato il principio dell'anonimato della donazione di gameti.
La ricorrente ha quindi presentato un ricorso al Tribunale amministrativo chiedendo l'annullamento della decisione implicita del CECOS, producendo un certificato medico di uno psichiatra in cui si affermava che ella stava vivendo una grave crisi di identità da quando era stato rivelato il segreto sulle sue origini. Il tribunale amministrativo ha respinto le richieste della ricorrente. La ricorrente ha presentato ricorso contro questa sentenza, ma la Corte amministrativa d'appello ha confermato la sentenza negli stessi termini del Tribunale amministrativo, specificando che il divieto di accesso ai dati si applicava a tutte le donazioni di un elemento o prodotto corporeo. Anche il ricorso presentato dinanzi al Conseil d'État è stato respinto.
Il secondo ricorrente veniva a conoscenza delle modalità del suo concepimento all'età di diciassette anni. Egli inviava al CECOS una richiesta di informazioni sulle origini del suo concepimento ma non otteneva risposta. In seguito a questo rifiuto, il ricorrente ha sottoposto la questione alla CADA, che ha dichiarato la sua richiesta priva di scopo a causa dell'impossibilità di ritrovare il fascicolo del donatore. Il ricorrente ha presentato al Tribunale amministrativo un ricorso simile a quella della prima ricorrente, ma il tribunale amministrativo ha respinto le richieste per analoghi motivi. La Corte amministrativa d'appello ha confermato la sentenza negli stessi termini del Tribunale amministrativo. Il ricorrente ha presentato ricorso di fronte al Conseil d'État lamentando la violazione degli articoli 8 e 14 della Convenzione ma quest’ultimo ha dichiarato il ricorso irricevibile.
Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo i ricorrenti hanno invocato l'articolo 8, sostenendo che l'impossibilità di ottenere informazioni sui rispettivi genitori aveva violato il loro diritto al rispetto della vita privata e familiare, nonché l'articolo 14 (divieto di discriminazione) in combinato disposto con l'articolo 8, affermando che, a causa del modo in cui sono stati concepiti, il loro diritto al rispetto della vita privata è stato discriminato rispetto a quello di altri bambini, per il fatto che non hanno potuto ottenere informazioni non identificative sul terzo donatore, in particolare informazioni mediche.
La Corte di Strasburgo ha deciso di riunire i due ricorsi, in ragione della loro somiglianza in fatto e in diritto. La Corte ha ritenuto di non dover decidere in merito alla violazione dell’Articolo 14 in combinato disposto con l’Articolo 8 della Convenzione ma si è concentrata nell’accertamento della violazione ai sensi del solo Articolo 8.
In via preliminare, la Corte ha osservato che, all'epoca in cui la ricorrente e il ricorrente hanno presentato i loro ricorsi, le persone nella loro situazione non avevano alcuna possibilità di conoscere l'identità del terzo donatore o di accedere a informazioni non identificative su di lui, quando veniva loro rivelata la modalità di concepimento. Fin dall'approvazione delle prime leggi sulla bioetica, il legislatore nazionale ha optato per il principio assoluto dell'anonimato per la donazione di gameti. Il principio dell'anonimato era soggetto a due eccezioni a favore del medico, nei casi di necessità terapeutica e quando al donatore veniva diagnosticata una grave anomalia genetica. Questo assetto legislativo è rimasto inalterato fino al 1° settembre 2022, data di entrata in vigore del nuovo sistema di accesso alle origini. La nuova disciplina ha introdotto un sistema di accesso alle origini per le persone nate da donazioni precedenti alla sua entrata in vigore, subordinato però al consenso dei donatori e, come dimostrato dai lavori preparatori della revisione bioetica e come temuto dal ricorrente e dalla ricorrente, a condizione che essi e i loro fascicoli possano essere rintracciati e che siano disponibili i mezzi per farlo.
In primo luogo, la Corte osserva che la situazione lamentata dai ricorrenti deriva da una scelta legislativa che è stata frutto di dibattiti estremamente approfonditi, la cui qualità non può essere messa in discussione. Ogni legge sulla bioetica è stata preceduta da un dibattito pubblico sotto forma di assemblea generale, per tenere conto di tutti i punti di vista e ponderare al meglio gli interessi e i diritti in gioco. Secondo la Corte, il legislatore ha valutato correttamente gli interessi e i diritti in gioco al termine di un processo di riflessione ricco e in evoluzione sulla necessità o meno di revocare l'anonimato dei donatori. La Corte ha poi ricordato che non esisteva un chiaro consenso sulla questione dell'accesso alle proprie origini, ma solo una recente tendenza a favore dell'abolizione dell'anonimato dei donatori. Nonostante quindi fosse in gioco un aspetto essenziale della vita privata dei ricorrenti, il legislatore ha agito entro il suo ridotto margine di apprezzamento. Lo Stato convenuto non può quindi essere criticato per la rapidità con cui ha adottato la riforma né per il ritardo con cui ha accettato tale riforma.
In secondo luogo, per quanto riguarda le informazioni mediche non identificative, per le quali i ricorrenti hanno lamentato un accesso troppo restrittivo, la Corte osserva che esse sono coperte dal segreto assoluto del donatore e dal segreto medico, fatte salve le deroghe previste a favore del medico. La Corte ha rilevato che il principio dell'anonimato della donazione di gameti non precludeva, al momento del deposito dei ricorsi presso la Corte, la possibilità per un medico di accedere a informazioni mediche e di trasmetterle alla persona nata dalla donazione in caso di necessità terapeutica. Simile necessità riguarda la prevenzione del rischio di consanguineità, che è considerata dai ricorrenti come una violazione del loro diritto alla salute. Analogamente, il Conseil d'État ha stabilito che le informazioni mediche non identificative possono essere ottenute a fini preventivi, in particolare nel caso di una coppia che sia figlia di una donazione di gameti. Inoltre, la precedente normativa prevedeva anche la possibilità che il donatore, in caso di malattia genetica, autorizzasse il medico a rivolgersi al centro responsabile della donazione affinché informasse il figlio nato dalla donazione. La Corte ha anche sottolineato l'assenza di un consenso europeo sulla comunicazione di informazioni mediche e sul diritto di essere informati sulla propria salute. La Corte ritiene che la Francia abbia mantenuto un giusto equilibrio tra gli interessi in gioco per quanto riguarda le informazioni mediche non identificative.
In terzo luogo, la Corte ha esaminato le carenze lamentate dai ricorrenti in relazione alle modalità del sistema introdotto il 1° settembre 2022. Per quanto riguarda i bambini nati da donazioni prima di tale data, la Corte osserva la nuova disciplina accorda loro la possibilità di rivolgersi alla CAPADD (Commission d’Accès des Personnes nées d’une Assistance médicale à la procréation aux Données des tiers Donneurs) per ottenere l'eventuale consenso del donatore alla divulgazione della sua identità e di altre informazioni non identificative. La Corte ha precisato di non sottovalutare il timore che i donatori possano non essere rintracciati o che non acconsentano alla divulgazione delle informazioni che li riguardano, dal momento che era stato loro garantito l'anonimato assoluto e definitivo. Quest'ultimo caso si è effettivamente verificato nel caso del secondo ricorrente. La Corte ha osservato, tuttavia, che la decisione del legislatore era basata sulla preoccupazione di rispettare le situazioni sorte in base alla legislazione precedente e che non vi erano soluzioni alternative rispetto a quella adottata. Lo Stato convenuto non ha dunque superato il margine di apprezzamento a sua disposizione nella scelta di concedere l'accesso alle origini solo previo consenso del terzo donatore.
La Corte ha concluso che lo Stato convenuto non ha violato il suo obbligo positivo di garantire alla ricorrente e al ricorrente l'effettivo rispetto della loro vita privata. Non vi è stata quindi alcuna violazione dell'articolo 8 della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 14 settembre 2023, ric. n. 2264/12, Ainis e Altri c. Italia
Oggetto: articolo 2 della Convenzione (diritto alla vita) – aspetto sostanziale – vittima di overdose durante la custodia di polizia – obblighi di protezione da parte dell’autorità nazionale – grado di sorveglianza e necessità di un’attenta perquisizione personale del tossicomane in stato alterato, al fine di prevenire gesti autolesionistici.
C.C., arrestato nel corso di un’operazione antidroga, appariva in condizioni psicofisiche alterate, probabilmente a causa dell’assunzione di sostanze stupefacenti. Dopo meno di un’ora, intervenivano a rinforzo due agenti di polizia, i quali dichiaravano che, al loro arrivo, C.C. era ammanettato nell’auto della polizia per essere trasferito in questura. Seduto nel veicolo, C.C. lamentava di non sentirsi bene e chiedeva di non essere spostato per un po’, sicché gli agenti gli permettevano di rimanere seduto con la testa e le gambe fuori. Non appena C.C. dichiarava di sentirsi meglio, gli agenti lo ammanettavano e portavano in questura, aumentando la ventilazione nell’auto e guidando lentamente. In questura, C.C. sembrava tranquillo, dormendo nella stanza di detenzione fino alle 5.50 del mattino, quando chiedeva di andare in bagno, ove iniziava a rimettere e poco dopo cadeva a terra. L’agente di turno, notata la saliva dalla bocca e il sangue dal naso, avvisava il comandante, che a sua volta chiamava immediatamente un’ambulanza.
Alle 6.07 il personale dell’ambulanza arrivava sul posto, trovando C.C. sdraiato sulla schiena, privo di sensi, con segni vitali carenti; trasferito sull’ambulanza, iniziava a praticare la rianimazione cardiopolmonare. C.C. è stato dichiarato ufficialmente morto alle 6.16 presso l’Ospedale Fatebenefratelli di Milano.
Il pubblico ministero chiedeva l’autopsia e incaricava due patologi forensi per esaminarne i risultati: secondo questi ultimi, la causa della morte era l’intossicazione acuta da cocaina. Il procedimento penale si chiudeva in fase d’indagine.
I parenti di C.C. presentavano un’azione risarcitoria in sede civile contro il Ministero dell’Interno per “omissione di soccorso” e “omessa sorveglianza”. I periti d’ufficio (già nominati nel procedimento penale) confermavano che C.C. era morto a causa di un’intossicazione acuta da cocaina, concludendo che l’avesse assunta due volte, prima dell’arresto e in un momento molto ravvicinato alla morte; la dose letale era la seconda. Il tribunale di primo grado sottolineava che, sebbene i sintomi d’intossicazione da stupefacenti non comportassero l’obbligo di ricoverare immediatamente C.C., tale stato avrebbe dovuto mettere in allerta gli agenti e indurli a sorvegliare C.C. con particolare rigore. Ciò posto, la circostanza che C.C. fosse riuscito a ingerire una grande quantità di cocaina presupponeva che egli fosse già in possesso della sostanza al momento dell’arresto o che l’avesse ottenuta da una terza persona in questura. Il primo scenario suggerirebbe una perquisizione personale non diligente; il secondo scenario suggerirebbe una negligenza degli agenti nella supervisione di C.C. (d’altronde, l’agente di turno in questura ammetteva di non aver prestato particolare attenzione all’arrestato in quanto impegnato in altre attività). Il tribunale di primo grado riteneva il Ministero dell’Interno responsabile della morte di C.C., riconoscendo un risarcimento alla madre e alla figlia di C.C., non alla compagna, la signora Ainis, la quale non aveva dimostrato l’esistenza di una relazione more uxorio.
La Corte d’appello, su impugnazione del Ministero dell’Interno, annullava la sentenza di primo grado, rilevando: (i) l’assenza di prove che qualcuno avesse avvicinato C.C. in questura e gli avesse consegnato la cocaina; (ii) la preesistenza dei sintomi dell’intossicazione al momento dell'arresto; (iii) la valutazione degli esperti secondo cui, al momento dell’arresto, lo stato di intossicazione non indicava la necessità di cure mediche immediate; (iv) l’unico momento in cui C.C. aveva goduto di una certa libertà di movimento era stato in bagno, ove, con una mano libera, avrebbe potuto ingerire la cocaina precedentemente nascosta da qualche parte sulla sua persona; (v) una perquisizione personale rappresentava un mezzo eccezionale per ottenere prove, ammissibile solo in presenza di forti ragioni per ritenere che un sospetto nascondesse prove sulla sua persona o all’interno del suo corpo.
La Corte di cassazione confermava la legittimità della ricostruzione d’appello.
Dinanzi alla Corte Edu, le ricorrenti (la compagna, la moglie e la figlia di C.C.) lamentavano la violazione dell’art. 2 della Convenzione, norma che impone di adottare misure appropriate per salvaguardare la vita di coloro che rientrano nella giurisdizione degli Stati contraenti.
Secondo la giurisprudenza sovranazionale, le persone detenute si trovano in una posizione vulnerabile e le autorità hanno l’obbligo di adottare misure ragionevoli per proteggerle da eventuali danni, purché tale obbligo non appaia impossibile o sproporzionato, ad esempio tenuto conto delle difficoltà legate al controllo nelle società moderne, all’imprevedibilità della condotta umana e alle scelte operative in termini di priorità e risorse.
Nel caso di specie, secondo la Corte, non vi erano prove sufficienti a dimostrare che le autorità conoscessero o dovessero conoscere il rischio reale e immediato che C.C. ingerisse una dose letale di cocaina; tuttavia, poiché era stato preso in custodia in una stazione di polizia, le autorità avevano il dovere di prendere le precauzioni di base per ridurre al minimo qualsiasi rischio. Nello specifico, le autorità disponevano delle seguenti informazioni: (i) C.C. si sentiva poco bene al momento dell’arresto e mostrava un comportamento che portava all’autolesionismo; (ii) gli agenti che lo avevano arrestato avevano ipotizzato il probabile consumo di sostanze stupefacenti; (iii) una piccola quantità di cocaina era stata sequestrata al momento dell’arresto. Tuttavia, in nessun momento tra l’arresto e la morte, C.C. è stato sottoposto a cure mediche; non vi è prova che C.C. sia stato perquisito o controllato al suo arrivo in questura o in qualsiasi altro momento durante le circa due ore e mezza di detenzione. Vero è che, alla luce del diritto al rispetto della vita privata ex art. 8 della Convenzione, sarebbe eccessivo richiedere che tutte le persone arrestate siano sottoposte, come precauzione di routine, a perquisizioni corporali intime al fine di prevenire eventi tragici; tuttavia, nel caso in esame, le informazioni disponibili rendevano necessaria tale precauzione. La Corte conclude che il Governo non ha dimostrato in modo convincente che le autorità hanno fornito a C.C. una protezione sufficiente e ragionevole della sua vita, sicché vi è stata una violazione dell’art. 2 della Convenzione.
In calce alla sentenza, il giudice Bošnjak allega un’opinione dissenziente in cui evidenzia criticità sia nel metodo che nel risultato pratico della valutazione posta dalla maggioranza. La Corte, non avendo ancora elaborato un test di accertamento della violazione del diritto alla vita per omissioni da parte delle autorità statali, avrebbe potuto e dovuto delineare un apposito test, in cui, esemplificativamente, stabilire (a) se le autorità statali avevano il dovere di agire in un modo specifico nelle circostanze in esame, (b) se le autorità statali hanno omesso di agire in conformità a tale dovere e (c) se, nel caso in cui le autorità statali avessero adempiuto a tale dovere, la morte non si sarebbe verificata. Nel caso di specie, la maggioranza non ha suggerito un test né, ad ogni modo, formulato un giudizio rigoroso, nella misura in cui essa ha ricavato un obbligo di ricovero della vittima già al momento dell’arresto in contrasto con le perizie nazionali; ha ricavato un obbligo di nuova perquisizione personale in ragione della situazione di vulnerabilità del ricorrente; ha rilevato la mancanza di un controllo costante dell’arrestato da parte dell’agente di turno in questura senza ipotizzare o verificare se tale controllo avrebbe in concreto avuto efficacia salvifica.
Sentenza della Corte Edu (Terza Sezione), 26 settembre 2023, ric. n. 265/17 and 26473/18, Yordanov e Altri c. Bulgaria
Oggetto: articolo 1 del Protocollo n. 1 (protezione della proprietà) – confisca di beni “acquisiti illegalmente” – accertamento basato unicamente sulla mancata dimostrazione dell’origine lecita, piuttosto che sulla prova dell’origine illecita – persistenza delle carenze, già individuate dalla Corte in Todorov e Altri c. Bulgaria, della legge sulla confisca del 2005, anche nella sostitutiva legge del 2012 (ampio catalogo di reati presupposto, alcuni non gravi; ampio riferimento temporale per gli acquisti di cui dimostrare la liceità; limiti probatori) – accertamento del collegamento col reato quale necessario contrappeso alle suddette carenze.
Nel 2008, il primo ricorrente acquistava in Bulgaria appezzamenti di terreno per un valore equivalente a 254.000 euro. Le autorità fiscali gli chiedevano informazioni sui redditi percepiti negli anni precedenti e, in risposta, il ricorrente presentava dichiarazioni doganali circa l’immissione in Bulgaria, tra il 2005 e il 2008, di 345.000 euro, denaro proveniente da redditi percepiti in Belgio, dove risiedeva prevalentemente. L’autorità scopriva, però, che molti dei documenti prodotti erano falsi e che, per lo stesso periodo, il ricorrente non aveva né dichiarato redditi in Belgio, né pagato la pertinente imposta.
Il ricorrente veniva accusato e condannato per evasione dell’imposta sulla somma portata in Bulgaria, nonché per utilizzo di documenti falsi. Nel 2013, la Commissione per la confisca dei beni acquisiti illegalmente avviava un procedimento ai sensi della legge sulla confisca del 2012 (sostitutiva della legge sulla confisca del 2005, esaminata dalla Corte di Strasburgo in Todorov e Altri c. Bulgaria) e, dopo aver indagato sulle fonti di reddito del ricorrente, della moglie e della società del primo, chiedeva la confisca di diversi beni. I giudici accoglievano l’istanza: il ricorrente sosteneva che, tra il 1999 e il 2007, il fratello gli aveva regalato somme di denaro cospicue, ma l’unica prova era una dichiarazione del fratello, inidonea a provare i regali o la provenienza lecita del denaro (l’istanza di esame testimoniale non veniva accolta ma il ricorrente non contestava siffatta decisione); sia il ricorrente che la moglie affermavano di aver ricevuto una remunerazione in qualità di dirigenti delle società da loro possedute in Belgio, nonché dividendi, dichiarazioni non suffragate da prove come le registrazioni nei libri contabili delle società; indimostrata anche l’affermazione di aver ricevuto un canone di locazione per diversi veicoli. I giudici, considerate le ingenti spese sostenute dai coniugi e il loro reddito lecito molto basso, giungevano alla conclusione che tutti i beni oggetto della richiesta di confisca erano stati acquisiti illecitamente.
La seconda ricorrente veniva condannata per omessa dichiarazione alle autorità fiscali dei redditi ricevuti tra il 2008 e il 2013 attraverso i sistemi Western Union e MoneyGram (per un totale di circa 163.000 euro), nonché per percezioni fraudolente, tra il 2008 e il 2011, di assegni familiari (gli assegni venivano successivamente restituiti all’ente statale competente). Tali reati rientravano nell’ambito di applicazione della legge sulla confisca dei proventi illeciti del 2012, sicché, nel 2014, la competente Commissione avviava un procedimento nei confronti della ricorrente e di suo marito e di una società di sua proprietà (entrambi ricorrenti dinanzi alla Corte di Strasburgo), al fine di indagare sulla loro situazione finanziaria. I ricorrenti contestavano la domanda di confisca, sostenendo che i beni “sospetti” fossero stati acquisiti legittimamente e che le autorità non avessero dimostrato il collegamento con eventuali illeciti. I giudici di primo grado rigettavano l’istanza di confisca, ritenendo che, sebbene le origini del reddito di 163.000 euro non fossero state accertate, ciò non significava che avesse provenienza illegale. Tuttavia, la Corte d’appello ribaltava la decisione, osservando che il denaro ricevuto potesse essere considerato di origine illecita: mentre i ricorrenti sostenevano di averlo ricevuto in occasione di matrimoni e altre celebrazioni familiari, la Corte d’appello riteneva tali affermazioni non provate.
Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, i ricorrenti lamentavano l’illegittimità dell’interferenza col diritto al pacifico godimento dei propri beni, tutelato dall’articolo 1 del Protocollo n. 1.
Ai fini della legittimità di un’interferenza, la prima condizione è l’esistenza (prevedibilità e accessibilità) della base legale: nel caso in esame, la confisca era stata ordinata sulla base della legge del 2012.
La seconda condizione è l’esistenza di uno scopo legittimo, nell’interesse generale. In Todorov e Altri c. Bulgaria (§ 186), la Corte aveva ritenuto che l’ingerenza ordinata in forza della legge sulla confisca del 2005 perseguisse uno scopo legittimo, ossia prevenire l’acquisizione illecita di beni e il loro conseguente utilizzo. Anche la legge del 2012, contenente un elenco di reati presupposto e alcuni illeciti amministrativi, aveva lo scopo di prevenire e limitare le possibilità di acquisizione illecita di beni e il trasferimento dei medesimi. La Corte ha più volte affermato che la confisca dei proventi di reato è in linea con l'interesse generale della comunità: un provvedimento di confisca di beni acquisiti in modo criminale opera nell’interesse generale come deterrente per coloro che intendono impegnarsi in attività criminali, e garantisce inoltre che il crimine non paghi.
La condizione controversa è dunque la terza, la proporzionalità dell’interferenza.
Sul punto, la Corte teme che le lacune o i difetti individuati in Todorov e Altri (§§ 200-11) rispetto alla legge sulla confisca del 2005, siano rimasti nella legge del 2012: (i) l’elenco dei reati presupposto è rimasto molto ampio e comprensivo non solo di reati particolarmente gravi (come quelli legati alla criminalità organizzata, al traffico di droga, alla corruzione nella pubblica amministrazione o al riciclaggio di denaro) o altri reati fonte di reddito, ma altri meno gravi, di per sé non generativi di reddito o illeciti amministrativi; (iì) il campo di applicazione è rimasto ampio, sotto il profilo temporale, riguardando beni acquisiti negli ultimi dieci anni (non più venticinque), potendosi oltretutto applicare retroattivamente. Queste circostanze hanno reso difficile per i ricorrenti la prova della provenienza lecita dei beni, soprattutto perché, secondo la Corte, tale prova non risulta facile (non sembra essere sufficiente la sola testimonianza). Ad ogni modo, tali aspetti del regime di confisca non determinano automaticamente la violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1: in Todorov, la Corte aveva ritenuto rilevante e risolutiva (quanto meno ai fini della legittimità in astratto del sistema di confisca) l’esistenza dell’obbligo, per i giudici nazionali, di stabilire un qualche legame tra i beni da confiscare e il reato presupposto.
Conseguentemente, per escludere una violazione della Convenzione, la Corte deve verificare se i giudici nazionali abbiano considerato l’esistenza di un collegamento tra beni da confiscare e possibili reati sottesi alla loro provenienza, quale necessario contrappeso alle potenziali carenze discusse in precedenza.
Ebbene, nei confronti del primo ricorrente, i giudici nazionali non hanno accertato alcuna attività criminale all’origine dei beni oggetto della richiesta di confisca, né hanno stabilito un legame tra tali beni e una qualsiasi attività illecita.
Parimenti nei confronti dei rimanenti ricorrenti, i giudici nazionali non hanno ipotizzato l’esistenza di comportamenti criminali o illeciti diversi da quelli nel frattempo oggetto del procedimento penale, né hanno accertato se i reati commessi dalla ricorrente fossero all’origine dei beni oggetto della confisca.
Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa