Le pronunce di dicembre della Corte Edu qui selezionate riguardano la natura e il funzionamento della confisca diretta dei proventi di reato, la legittimità del potere di inchiesta delle Commissioni parlamentari ex art. 82 Cost. e la tutela della libertà di espressione nel contesto del reato di diffamazione a mezzo stampa.
In Episcopo e Bassani c. Italia, la Corte di Strasburgo, dopo aver escluso la natura penale della confisca diretta ex art. 322-ter c.p., dunque dopo aver dichiarato inammissibili le doglianze sollevate ai sensi dell’art. 7 della Convenzione, ha vagliato, da una parte, l’incidenza del contrasto giurisprudenziale sull’applicabilità di tale confisca nonostante la prescrizione del reato (ritenendo intatta la certezza del diritto ex art. 6 § 1 della Convenzione, ma non prevedibile la base legale ex art. 1 Prot. 1); dall’altra, la (in-)compatibilità con la presunzione di innocenza. Su quest’ultimo aspetto convergono due opinioni parzialmente dissenzienti.
In Grande Oriente d’Italia c. Italia, la Corte ha valutato la legittimità della perquisizione dei locali di un’associazione massonica nell’ambito di un’inchiesta parlamentare sulla mafia, durante la quale furono sequestrati documenti, inclusi dati personali di oltre 6.000 membri. La Corte ha rilevato l’assenza di prove o sospetti ragionevoli per giustificare una misura così ampia e indeterminata, aggravata dalla mancanza di garanzie procedurali, come un controllo giurisdizionale effettivo. Ha concluso che l’interferenza, non conforme alla legge né necessaria in una società democratica, ha violato i diritti dell’associazione.
Si segnala, infine, Giesbert e altri c. Francia, in tema di diffamazione a mezzo stampa, in cui la Corte di Strasburgo, nell’ambito di un caso di peculiare rilievo nel contesto politico francese, ha escluso la violazione dell’art. 10 della Convenzione. La Corte ha ritenuto che non vi fossero elementi per mettere in discussione la valutazione unanime dei giudici nazionali, i quali, sulla base di argomentazioni pertinenti e precise, avevano escluso che le accuse rivolte all’allora presidente dell’UMP nell’articolo contestato, qualificabili come «dichiarazioni di fatto» potessero essere state fondate su una base fattuale adeguata.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 19 dicembre 2024, ric. nn. 47284/16 e 84604/17, Episcopo e Bassani c. Italia
Oggetto: articolo 7 della Convenzione (nulla poena sine lege) – natura e scopo della confisca diretta di proventi illeciti ex art. 322-ter c.p.p. – esclusione della natura penale.
Articolo 6 § 1 (diritto a un equo processo – certezza del diritto) – contrasto giurisprudenziale sull’applicazione della confisca nonostante la prescrizione del reato – esistenza di divergenze profonde e durature – esistenza e utilizzo di un meccanismo interno di superamento e soluzione del conflitto – efficacia dell’intervento delle Sezioni Unite.
Articolo 6 § 2 della Convenzione (diritto a un equo processo – presunzione di innocenza) – aspetto reputazionale – proscioglimento per prescrizione e ordine di confisca basato sulla responsabilità penale affermata in primo grado.
Articolo 1 Prot. 1 (protezione della proprietà) contrasto giurisprudenziale sull’applicazione della confisca nonostante la prescrizione del reato – base legale non sufficientemente prevedibile al momento dell’applicazione della confisca.
La procedura sovranazionale, attivata da due ricorrenti in diversi procedimenti penali, riguarda la confisca diretta di proventi illeciti ex art. 322-ter c.p., ordinata nella sentenza di condanna di primo grado e confermata dal giudice di appello con sentenza di proscioglimento per prescrizione dei reati presupposto.
Alcune doglianze riguardano il rispetto del principio di legalità della pena ai sensi dell’art. 7 della Convenzione.
La Corte le dichiara però inammissibili ratione materiae in forza della natura non penale della confisca diretta ex art. 322-ter c.p.
A tal fine, la Corte valorizza i seguenti elementi: (i) l’inquadramento interno in termini di «misura di sicurezza» (§§ 51-58); (ii) il riconoscimento interno della funzione di ripristinare la situazione economica precedente al reato ed evitare l’accumulo di beni illeciti (§§ 70 e 76); (iii) l’entità delimitata all’effettivo arricchimento dell’autore del reato – aspetto rilevante anche quanto alla «gravità» o «severità» della sanzione (§§ 74 e 79); (iv) l’irrilevanza del grado di colpevolezza nella determinazione del quantum da confiscare (§ 74); (v) correlativamente, l’irrilevanza della confisca nella determinazione delle sanzioni penali in senso stretto (§ 74); (vi) l’impossibilità di convertire la confisca in misura detentiva (§ 74); (vii) il crescente consenso internazionale sull’utilizzo della confisca dei proventi illeciti anche senza condanna (§ 76); (viii) il potere/dovere del giudice penale di prendere decisioni di natura civile (§ 78). In definitiva, la confisca-misura di sicurezza, nella prospettiva della Convenzione, risulta paragonabile alla restituzione da arricchimento ingiustificato di diritto civile, piuttosto che alla pena in senso stretto (§ 74).
Un profilo lamentato da entrambi i ricorrenti, seppur a diverso titolo (ai sensi dell’art. 6 § 1, aspetto civile, o dell’art. 1 Prot. 1), attiene al contrasto giurisprudenziale sull’applicabilità della confisca nonostante la prescrizione del reato.
Nel vagliare la certezza del diritto ai sensi dell’art. 6 § 1, la Corte rileva, da una parte, che la possibilità di decisioni giudiziari contrastanti è caratteristica intrinseca a qualsiasi sistema giuridico e necessaria per l’evoluzione e il miglioramento dello stesso; dall’altra, che il persistere del contrasto potrebbe creare uno stato di incertezza potenzialmente illegittimo (§§ 92-93). Di conseguenza, per stabilire se il contrasto giurisprudenziale interno violi l’equità del processo, la Corte elabora un apposito test che verifica (a) l’esistenza di divergenze «profonde» e «durature», nonché (b) l’esistenza e l’utilizzo di un meccanismo interno di superamento e soluzione del contrasto.
Nel caso di specie, la Corte riconduce gli albori del contrasto alle Sezioni Unite Carlea del 1993, le quali avevano escluso l’applicabilità della confisca obbligatoria in caso di estinzione del reato; tale «soluzione» era confermata dalle Sezioni Unite De Maio del 2008; tra il 2009 e il 2015, la giurisprudenza rimane «oscillante», sino all’intervento delle Sezioni Unite Lucci del 2015, favorevoli alla confisca dei proventi del reato prescritto, a talune condizioni. Ciò posto, in relazione all’arco temporale 2009-2015, la giurisprudenza risulta caratterizzata da «profonde e durature divergenze» (§ 104). D’altronde, considerato il meccanismo di rimessione alle Sezioni Unite (rinforzato nel 2017 grazie all’introduzione del comma 1-bis nell’art. 618 c.p.p.), il suo utilizzo in tre occasioni e, dal 2015, il venire meno del contrasto (dunque, l’efficacia del meccanismo in parola), la Corte esclude la violazione dell’art. 6 § 1 (§§ 105-112).
La medesima ricostruzione giurisprudenziale viene, però, ritenuta fonte di violazione con riguardo all’art. 1 Prot. 1 nei confronti del secondo ricorrente. Nel vagliare il primo dei requisiti di legittimità dell’ingerenza nella tutela della proprietà, ossia la qualità della base giuridica, la Corte chiarisce che la sufficiente prevedibilità deve sussistere nel momento in cui la confisca viene ordinata (§§ 152-153 – l’unico precedente richiamato è The J. Paul Getty Trust e Altri c. Italia). Nel caso di specie, all’epoca della condanna di primo grado (maggio 2008), l’applicazione della confisca non era sufficientemente prevedibile (§§ 152-158).
L’ultima questione concerne l’aspetto “reputazionale” (o secondo aspetto) della presunzione di innocenza, in ipotesi di chiusura del procedimento penale con proscioglimento per prescrizione.
Sul punto, la Corte si avvale dei principi riaffermati dalla Grande Camera nella recente pronuncia Nealon e Hallam c. Regno Unito (11 giugno 2024), secondo cui la prescrizione non impedisce ai giudici nazionali di occuparsi di fatti già affrontati nel procedimento penale, a diversi fini (quali la riparazione dell’errore giudiziario, il risarcimento del danno o la confisca), piuttosto di «imputare» la responsabilità penale. Benché, come rilevato dal governo, il ricorrente non ha evidenziato l’esistenza di un «linguaggio infelice», la Corte ne deve tenere conto ex art. 6 § 2, unitamente alla natura e al contesto della decisione potenzialmente lesiva della reputazione (§§ 121-127). Nel caso di specie, i giudici di appello avevano rilevato che il ricorrente era stato condannato in primo grado e che l’accertamento di responsabilità era rimasto sostanzialmente inalterato in secondo grado (§ 132); così facendo, l’autorità giudiziaria non si è limitata a valutare l’origine illecita dei beni da confiscare ma ha di fatto confermato l’accertamento della responsabilità penale, seppur ai fini della confisca (§§ 133-134). La Corte rigetta gli argomenti del governo circa la perdurante rilevanza della responsabilità penale ex art. 129 c.p.p. (tale norma non imporrebbe l’accertamento “positivo” della responsabilità penale, qui addebitato alla Corte di appello, o, se pure lo imponesse, non legittimerebbe il sacrificio della Convenzione) e circa la possibile contraddizione esistente in G.I.E.M. S.r.l. e Altri c. Italia, nella misura in cui l’accertamento del reato nella sentenza di proscioglimento è legittimo ex art. 7 e non ex art. 6 § 2 della Convenzione (trattandosi di garanzie diverse).
La decisione di inammissibilità dell’art. 7 e di osservanza dell’art. 6 § 1 (aspetto civile) è raggiunta all’unanimità; viceversa, i due profili di violazione, ricadenti sull’art. 1 Prot. 1 e sull’art. 6 § 2 (aspetto reputazionale) sono seguiti da pareri parzialmente dissenzienti.
Il giudice Wojtyczek ritiene che l’art. 6 § 2 non possa dirsi violato se, nell’ambito dell’ordinamento interno, la prescrizione non preclude la confisca e questa presuppone l’accertamento di colpevolezza.
A tale parere si unisce il giudice Sabato, rilevando, in parere separato che la maggioranza ha, in primo luogo, “sminuito” l’approccio della Grande Camera: in Nealon e Hallam, la violazione sembra dover risiedere nel suggerimento di un esito diverso da quello raggiunto nel procedimento penale, nel suggerimento del c.d. aliter statuendum erat (test proposto da Lord Mance al cospetto della Corte Suprema inglese), viceversa, nel caso di specie, la decisione sul reato non è stata messa in discussione; così facendo, la maggioranza avrebbe garantito una sorta di «presunzione di innocenza di fatto», piuttosto che «agli occhi della legge». Inoltre, diverse fonti di diritto comunitario, comparato e internazionale conoscono confische di proventi illeciti fondate sull’accertamento del reato in assenza di condanna, o proprio in caso di prescrizione (nuova dir. 2024/1260, Convenzione di Varsavia).
Infine, lo stesso giudice trova incoerente l’accertamento della violazione ex art. 1 Prot. 1, considerata la natura non pacifica dell’orientamento contrario all’applicazione della confisca in caso di prescrizione, la diversità di approccio al tema entro l’art. 6 o l’art. 7 della Convenzione (nell’ambito dei quali l’ultimo momento utile per vagliare la prevedibilità sembra essere la decisione che determina il passaggio in giudicato).
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 19 dicembre 2024, ric. n. 29550/17, Grande Oriente d’Italia c. Italia
Oggetto: articolo 8 della Convenzione – diritto al rispetto del domicilio e della corrispondenza – perquisizione dei locali dell’associazione – commissione parlamentare d’inchiesta – sequestro di numerosi documenti – indagine di particolare gravità – assenza di un controllo giudiziario preventivo – portata ampia e indeterminata della misura – mancanza di prove o di un ragionevole sospetto di coinvolgimento del richiedente nella questione oggetto dell’indagine - assenza di sufficienti garanzie compensative – controllo ex ante o ex post da parte di un’autorità indipendente e imparziale – margine di apprezzamento dello Stato sul tipo di rimedio da fornire.
Il caso riguarda un’associazione massonica, il Grande Oriente d’Italia, fondata nel 1805 la quale si articola in diverse logge. Nel 2013 è stata istituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali anche straniere, con il compito, tra l’altro, di condurre un’inchiesta sui rapporti tra mafia e massoneria a causa delle rivelazioni emerse da diversi procedimenti penali.
In diverse occasioni nel 2016 la Commissione parlamentare d’inchiesta ha chiesto al Gran Maestro dell’associazione richiedente, di fornire l’elenco degli iscritti alle sue logge. Egli si è ripetutamente rifiutato, adducendo il diritto a mantenere la riservatezza. Ha osservato che la richiesta era «a fishing expedition» (“una caccia alle streghe”) in quanto non menzionava né le indagini in corso, né i reati specifici presumibilmente commessi dai membri dell’associazione. Si è nuovamente rifiutato di rivelare i nomi quando è stato convocato come testimone nel gennaio 2017.
La Commissione parlamentare ha infine ordinato, nel marzo 2017, una perquisizione nei locali dell’associazione ricorrente. La perquisizione mirava ad ottenere un elenco di tutti coloro che appartenevano o erano appartenuti a una loggia massonica calabrese o siciliana a partire dal 1990, con il loro grado e ruolo, nonché informazioni su tutte le logge calabresi e siciliane che erano state sciolte o sospese dal 1990 in poi, compresi i nomi di tutti i loro membri e i loro fascicoli personali, le eventuali indagini svolte e le decisioni prese. Sono stati perquisiti i locali dell’associazione richiedente, compresi gli archivi, la biblioteca e la residenza personale del Gran Maestro, nonché diversi computer. La perquisizione ha portato al sequestro di numerosi documenti cartacei e digitali, tra cui gli elenchi di circa 6.000 persone iscritte all’associazione richiedente, oltre a dischi rigidi, unità flash e computer. L’associazione richiedente ha contestato senza successo la perquisizione e il sequestro. La Commissione parlamentare non si è pronunciata su una richiesta di riesame dell’ordine di perquisizione secondo le proprie procedure, mentre le autorità giudiziarie hanno respinto una richiesta di controllo giurisdizionale da parte della Corte costituzionale su un conflitto di giurisdizione tra i poteri dello Stato e hanno interrotto le indagini su una denuncia penale presentata dall’associazione ricorrente.
L’associazione ricorrente ha quindi presentato ricorso di fronte al giudice europeo invocando l’articolo 8 come diritto al rispetto del domicilio e della corrispondenza adducendo l’illegittimità e la sproporzione della perquisizione dei suoi locali e del sequestro dell’elenco dei suoi membri. In particolare, si è sostenuto che, se un’autorità giudiziaria - e non una commissione parlamentare d’inchiesta - avesse emesso un mandato di perquisizione senza specificare, tra l’altro, le accuse contro la persona indagata o gli oggetti da sequestrare, il mandato sarebbe stato considerato nullo.
La Ricorrente ha inoltre invocato gli articoli 11 (libertà di riunione e di associazione) e 13 (diritto a un ricorso effettivo).
Rispetto all’applicabilità dell’articolo 8, la Corte ha rilevato che l’operazione di perquisizione e sequestro per la sua pervasività aveva impattato significativamente sui diritti al rispetto del domicilio e della corrispondenza dell’associazione ricorrente ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione.
Circa la legittimità dell’interferenza, la Corte ha innanzitutto ricordato che il potere delle Camere di istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta con «gli stessi poteri e le stesse limitazioni di un’autorità giudiziaria» – oltre che nella legge che l’ha istituita – trova una sicura base legale nell’articolo 82 della Costituzione italiana, che assoggetto l’attività investigativa alle regole del codice di procedura penale. Anche rispetto alle garanzie processuali, previste in astratto dalla legislazione, la Corte ha ritenuto che l’applicazione delle «stesse limitazioni» dei poteri dell’autorità giudiziaria fossero sufficienti a prevenire abusi e arbitrarietà da parte di una Commissione parlamentare d’inchiesta. Nel caso di specie, in applicazione delle regole processuali generali, l’ordine di perquisizione e sequestro dovesse essere debitamente motivato a pena di nullità, indicando una descrizione delle accuse contro la persona indagata, la legislazione che rende la condotta presunta un reato, la natura degli oggetti che devono essere sequestrati e il loro coinvolgimento nel crimine indagato. Inoltre, il sequestro era limitato nel tempo, poiché al termine del procedimento penale gli oggetti sequestrati dovevano essere restituiti.
Riguardo alla proporzionalità dell’interferenza, la Corte ha inizialmente soppesato il margine di apprezzamento statale nel caso di specie ritenendo, da una parte, che la circostanza che le autorità abbiano sequestrato e copiato una quantità molto elevata di documenti cartacei e digitali senza che sia stato dimostrato che fossero tutti rilevanti per l’indagine in corso sulla mafia rappresentasse un fattore idoneo a giustificare uno scrutinio rigoroso nel caso di specie. D’altra parte, il fatto che la misura fosse rivolta a persone giuridiche significava che poteva essere applicato un margine di apprezzamento più ampio di quello che sarebbe stato il caso se avesse riguardato una persona fisica.
Successivamente, la Corte ha elencato i fattori rilevanti secondo la sua consolidata giurisprudenza nel contesto delle perquisizioni e dei sequestri effettuati durante un’indagine penale per valutare la proporzionalità della misura: a) la gravità della questione oggetto di indagine in relazione alla quale è stata effettuata la misura; b) le modalità e le circostanze in cui è stato emesso il provvedimento di perquisizione e sequestro; c) il contenuto e la portata del provvedimento e d) le garanzie procedurali in concreto a disposizione contro l’abuso e l’arbitrarietà.
Rispetto al requisito sub a) la Corte ha riconosciuto che la perquisizione mirava a ottenere informazioni sui membri delle logge massoniche per verificare eventuali legami con associazioni mafiose, una questione di estrema gravità.
Rispetto alle modalità e le circostanze del provvedimento (sub b), esso era stato emesso direttamente dalla Commissione parlamentare d’inchiesta, in quanto dotata degli «stessi poteri» di un’autorità giudiziaria, e che non è stato sottoposto a un controllo giudiziario preventivo in grado di circoscriverne l’ambito. Inoltre, nel suo decreto di perquisizione, la Commissione parlamentare non aveva fatto alcun riferimento a specifiche indagini, reati, individui o elementi di prova. Queste circostanze hanno portato la Corte a ritenere che la perquisizione e il sequestro non fossero sufficientemente giustificati. In particolare, risultavano carenti le prove o quantomeno un ragionevole sospetto di coinvolgimento nella questione oggetto di indagine.
Rispetto al contenuto e ambito dell’ordine (sub c), esso era formulato in termini estremamente ampi, comprendendo una vasta gamma di documenti cartacei e digitali, senza definire in modo chiaro i materiali rilevanti per l’indagine. La misura ha comportato una raccolta massiva e indiscriminata di dati, incluso materiale confidenziale.
Né simili carenze erano state compensate da sufficienti garanzie procedurali contro possibili abusi o comportamenti arbitrari delle autorità (sub d). In base alla legge italiana, l’associazione richiedente non aveva alcun mezzo, né ex ante né ex post, per contestare la legittimità del decreto di perquisizione o la sua esecuzione davanti a un’autorità indipendente e imparziale. Infatti, allo stato attuale del sistema italiano, il Parlamento ha la competenza esclusiva di decidere sulla validità delle sue decisioni. La Corte ha tuttavia precisato che non spetta a lei indicare quale tipo di rimedio debba essere previsto in questa situazione, tenendo conto della discrezionalità dello Stato nel decidere su questioni legate alla separazione dei poteri.
Infine, una copia dei documenti sequestrati è ancora conservata negli archivi della Commissione parlamentare d’inchiesta, mentre secondo la legislazione e la giurisprudenza nazionale in materia, i documenti sequestrati dovrebbero essere restituiti, o le loro copie distrutte, al termine di un’inchiesta.
Per queste ragioni, la Corte ha concluso che la perquisizione e il sequestro non erano stati «conformi alla legge», né «necessari in una società democratica».
Rispetto ai reclami dell’associazione ricorrente ai sensi degli articoli 11 e 13, la Corte ha ritenuto che non fosse necessario esaminarli per assorbimento con la precedente dichiarazione di violazione.
Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 5 dicembre 2024, ric. n. 835/20, Giesbert e altri c. Francia (N° 2)
Oggetto: articolo 10 della Convenzione – Libertà di espressione – Condanna del direttore di una rivista e di due giornalisti per diffamazione di un personaggio politico a causa del contenuto di un articolo riguardante il finanziamento dei partiti politici e delle campagne elettorali – Mancanza di una base fattuale sufficiente – Passaggi controversi dell’articolo privi di «misura» - Pena non sproporzionata - Margine di apprezzamento non superato – Motivazione pertinente e sufficiente
Il caso muove dalla condanna per diffamazione a mezzo stampa in concorso tra loro dei tre ricorrenti, in qualità, rispettivamente, di direttore e di giornalisti di un noto periodico francese. Nel febbraio 2014, sul settimanale in questione veniva pubblicato un articolo intitolato L’affaire C. in cui venivano sollevati dubbi sui presunti legami tra J.F.C., allora presidente del partito UMP e deputato, e gli amministratori della società B., coinvolta nella gestione degli eventi per la campagna presidenziale di N.S. nel 2012. In sintesi, l’articolo suggeriva che tale società, un’agenzia di comunicazione legata a C., avesse contribuito a indebolire l’UMP, sollevando interrogativi sulla destinazione dei fondi della campagna presidenziale.
Per tali affermazioni, i ricorrenti venivano condannati per diffamazione al pagamento di una multa e al risarcimento del danno, oltreché alla pubblicazione di una rettificazione sul giornale. Nel 2017, la Corte d’Appello ribadiva le condanne, ritenendo che, nonostante l’interesse generale dell’argomento trattato, le asserzioni contenute nell’articolo non fossero fondate su di una base fattuale. Infine, a seguito di una pronuncia di annullamento con rinvio della Corte di Cassazione, limitatamente alla determinazione delle pene, la Corte d’Appello di Parigi confermava la condanna.
Successivamente, nell’ambito del c.d. “caso B.” venivano condannati in appello per vari capi di imputazione correlati al finanziamento illecito di campagne elettorali, i dirigenti della società B., il capo dello staff di J.F.C. e l’ex presidente N.S.
I ricorrenti si rivolgevano alla Corte EDU lamentando la violazione dell’art. 10 CEDU.
Nel concentrarsi sull’esame del requisito della «necessità in una società democratica», la Corte di Strasburgo richiama anzitutto i principi consolidatisi nella propria giurisprudenza e recentemente ribaditi, tra l’altro, nella sentenza della Grande Camera Sanchez c. Francia. A questo proposito, rammenta, tra l’altro, come sia necessario distinguere attentamente tra “fatti” e “giudizi di valore”, considerando attentamente le circostanze del caso concreto e il tono generale delle osservazioni (cfr., da ultimo, anche Lutgen c. Lussemburgo, in Pillole di CEDU, maggio 2024). Invero, mentre i primi possono essere oggetto di prova, i giudizi di valore non si prestano a una verifica della loro accuratezza pur potendo, anche questi ultimi, risultare eccessivi se privi di fondamento fattuale.
Richiamata la propria giurisprudenza, la Corte sottolinea, per un verso, che C., al momento dei fatti contestati, ricopriva il ruolo di membro dell’Assemblea nazionale e, in quanto tale, poteva inevitabilmente essere soggetto a un controllo pubblico più intenso. Considerata, quindi, da un lato, la rilevanza politica della sua posizione e, dall’altro, la natura delle questioni trattate nell’articolo, incentrate sul finanziamento dei partiti politici e delle campagne elettorali, la Corte osserva come il contenuto del contributo de quo rientrasse indubbiamente in un dibattito di interesse generale. In tale contesto, eventuali restrizioni alla libertà di espressione risultano, di norma, ingiustificate.
La Corte, in accordo con i giudici nazionali, ritiene che la specificità delle accuse rivolte a C., riguardanti il suo presunto coinvolgimento personale nell’arricchimento della società B., debbano essere qualificate come “dichiarazioni di fatto”. Considerata la natura fattuale delle affermazioni contestate, la gravità delle accuse – che risultano chiaramente lesive della reputazione di C. – e l’accuratezza con cui i giudici nazionali hanno analizzato ciascun elemento probatorio presentato dai ricorrenti, la Corte non ravvisa motivi per discostarsi dalla loro valutazione. I giudici nazionali hanno ragionevolmente concluso che i ricorrenti, al momento della pubblicazione dell’articolo, non disponevano di documenti o prove sufficienti a supportare l’affermazione che C. fosse direttamente responsabile di gravi irregolarità o manipolazioni a danno dell’UMP e, dunque, non avevano esercitato la necessaria diligenza nel verificare l’esattezza dei fatti riportati. Rilevata pertanto l’assenza di una base fattuale sufficiente, la Corte sottolinea ulteriormente di non ravvisare valide motivazioni per mettere in discussione la valutazione dei tribunali nazionali, secondo cui i ricorrenti avevano dimostrato mancanza di equilibrio e di prudenza in alcune parti dell’articolo, in particolare nei titoli e nei sottotitoli. Perciò, è stata ritenuta fondata la decisione di negare loro il riconoscimento della buona fede. In questo senso, la Corte soggiunge che la protezione garantita dall’articolo 10 ai giornalisti su temi di interesse generale è subordinata alla condizione che essi agiscano con buona fede, fornendo informazioni accurate e affidabili nel rispetto dei principi dell’etica professionale.
Infine, con riferimento alla natura delle sanzioni inflitte ai ricorrenti, la Corte, pur rammentando di aver ripetutamente sottolineato che l’irrogazione di una sanzione penale costituisce una delle forme più gravi di ingerenza nel diritto alla libertà di espressione, rileva come, nel caso di specie, le pene comminate ai ricorrenti siano state di modesta entità e, per di più, imposte ai ricorrenti a seguito della decisione della Corte di cassazione di annullare la sentenza di appello, proprio per consentire di procedere ad una valutazione equa delle loro pene alla luce delle loro risorse e delle accuse a loro carico.
Di conseguenza, non vi è stata alcuna violazione dell’articolo 10 della Convenzione.
Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa