Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di febbraio 2023

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di febbraio 2023

Tra le sentenze rese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel mese di febbraio, si segnala, anzitutto, la sentenza della Grande Camera, Halet c. Lussemburgo, in tema di protezione dei c.d. whistleblowers. In questa pronuncia, consolidando i criteri posti in Guja c. Moldavia (2008), la Grande Camera ravvisa una violazione dell’art. 10 della Convenzione, non ritenendo soddisfacente il bilanciamento operato dai giudici nazionali tra il pregiudizio subito dal datore di lavoro e l’interesse dell’opinione pubblica alla divulgazione di informazioni riservate da parte del lavoratore, all’esito del quale, a quest’ultimo non era stato riconosciuto lo status di whistleblower e il correlato regime di tutela. 

Si segnala, poi, la sentenza Paun Jovanović c. Serbia, con cui la Corte sanziona il comportamento discriminatorio dell’autorità giudiziaria nei confronti di un avvocato a cui è stato impedito di utilizzare una variante ufficiale della lingua nazionale mentre, all’avvocato della controparte, non è stato riservato il medesimo trattamento quando questi ha adottato l’altra variante linguistica parimenti ammessa come ufficiale. La pronuncia offre l’occasione per confrontare i criteri di applicazione del divieto generale di discriminazione ex articolo 1 del Protocollo n. 12 di più recente adozione nel sistema convenzionale, rispetto al divieto di discriminazione dei diritti umani di cui all’articolo 14 della Convenzione.

Infine, nel caso Căpăţînă c. Romania, la Corte si occupa di un sequestro “conservativo”, poi convertito in confisca dei proventi del reato post condanna, e ritiene non irragionevole il metodo di calcolo suggerito dal pubblico ministero e accolto dai giudici nazionali, consistente nell’individuare, nell’ambito del sistema corruttivo sotto accusa, una media giornaliera di tangenti percepite e nel rapportare quest’ultima a mansioni, orari e turni dei singoli imputati.

 

 

Sentenza della Corte Edu (Quarta Sezione), 7 febbraio 2023, ric. n. 41394/15, Paun Jovanović c. Serbia

Oggetto: articolo 1, protocollo n. 12 (divieto generale di discriminazione) – comportamento ingiustificato del giudice – impedimento all'avvocato di utilizzare una variante della lingua serba mentre si consente alla controparte l'uso di un altro dialetto, nonostante l’ufficiale parità di status di entrambe le varianti – articolo 6, par. 1 (equo processo e procedimenti costituzionali) – mancanza di adeguata motivazione da parte della Corte costituzionale nel rifiutare di trattare il ricorso del ricorrente.

Il caso riguarda l'uso ufficiale di due varianti standard della lingua serba, l’Ekavian e l'Ijekavian, nei procedimenti giudiziari. Il ricorrente è un cittadino serbo che esercita la professione di avvocato. Nel porre domande dirette a un testimone mentre difendeva il suo cliente nel corso di un procedimento penale il giudice istruttore gli ha negato la possibilità di parlare il dialetto Ijekavian, mentre all'avvocato che rappresentava la vittima è stato permesso di usare la variante Ekavian. In particolare, il ricorrente ha sostenuto che subito dopo la sua prima domanda, rivolta al testimone, il giudice istruttore gli aveva intimato di porre la domanda in serbo, nonostante il fatto che egli lo avesse chiaramente già fatto, sebbene utilizzando la variante Ijekavian. Alla fine, e in risposta alla richiesta del ricorrente, il giudice istruttore aveva accettato di includere il suo avvertimento nella trascrizione. Questa, tuttavia, costituiva una rappresentazione "annacquata" e "non del tutto accurata" di ciò che era realmente accaduto. Il ricorrente ha sostenuto di aver sollevato verbalmente questa carenza con il giudice istruttore, ma che quest'ultimo aveva lasciato la trascrizione invariata.

Il ricorrente ha quindi presentato ricorso alla Corte costituzionale sostenendo di essere stato discriminato poiché l’avvocato di controparte, di lingua ekaviana, non aveva ricevuto il medesimo avvertimento durante l'udienza. La Corte costituzionale ha respinto il ricorso. La Corte costituzionale ha ritenuto che, tenendo conto della "motivazione del ricorso costituzionale" e della "natura giuridica e della sostanza" del comportamento impugnato del giudice istruttore, come evidenziato dalla trascrizione dell'udienza, non vi era stata alcuna "azione individuale" da parte del ricorrente il cui diniego – in base alle regole nazionali di accesso al giudizio costituzionale – avrebbe potuto essere impugnata dinanzi ad essa.

Invocando l'articolo 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione e l'articolo 1 del Protocollo n. 12 (divieto generale di discriminazione) della Convenzione, il ricorrente lamentava che, in quanto praticante avvocato e madrelingua Ijekavian della lingua serba, ha subito una discriminazione a causa del modo in cui è stato trattato rispetto a un avvocato di lingua Ekavian, mentre entrambi agivano per conto dei rispettivi clienti e nel corso dello stesso procedimento penale. Inoltre, facendo leva sull'articolo 6 (diritto a un equo processo), lamentava la mancanza di una motivazione adeguata da parte della Corte costituzionale nel rifiutare di trattare il ricorso del ricorrente contro il trattamento discriminatorio.

Rispetto alla prima doglianza relativa al divieto generale di discriminazione di cui all’articolo 1 del Protocollo n. 12, la Corte ha preliminarmente affrontato ex officio la questione di competenza ratione materiae circa l’applicabilità della disposizione in luogo dell’Articolo 14 della Convenzione. Mentre quest’ultimo, infatti, vieta la discriminazione nel godimento dei "diritti e delle libertà enunciati nella [Convenzione]", l'articolo 1 del Protocollo n. 12 introduce un divieto generale di discriminazione il cui ambito è esteso non solo a "qualsiasi diritto stabilito dalla legge" (paragrafo 1), ma anche alle discriminazioni realizzate da un'autorità pubblica (paragrafo 2). Secondo la Relazione esplicativa sull'articolo 1 del Protocollo n. 12, l'ambito di protezione di tale disposizione riguarda in particolare quattro categorie di casi in cui una persona è discriminata: "i. nel godimento di qualsiasi diritto specificamente concesso a un individuo dalla legislazione nazionale; ii. nel godimento di un diritto che può essere dedotto da un chiaro obbligo di un'autorità pubblica ai sensi del diritto nazionale, ossia quando un'autorità pubblica ha l'obbligo, ai sensi del diritto nazionale, di comportarsi in un determinato modo; iii. da parte di un'autorità pubblica nell'esercizio di un potere discrezionale (ad esempio, la concessione di determinate sovvenzioni); iv. da qualsiasi altro atto o omissione da parte di un'autorità pubblica (ad esempio, il comportamento delle forze dell'ordine quando controllano una sommossa)".

La Corte ha concluso che, come lo stesso Governo ha ammesso, il ricorrente aveva il diritto di utilizzare, nei procedimenti giudiziari, il dialetto Ijekavian come una delle due varianti della lingua serba di pari uso ufficiale a livello nazionale. Di conseguenza, la doglianza della ricorrente rientra nella categoria (ii) della Relazione esplicativa, in quanto il godimento al diritto di usare il dialetto di preferenza era chiaramente deducibile da un obbligo dell’autorità.

Per quanto riguarda il merito, la Corte ha scomposto l’accertamento della violazione in base alle tradizionali fasi del giudizio. Sull'esistenza di una differenza di trattamento, poiché il ricorrente e il Governo erano fondamentalmente in disaccordo su ciò che era effettivamente accaduto, la Corte ha dato attribuito particolare rilevanza probatoria alla trascrizione dell'udienza di merito, la quale non conteneva alcuna ragione specifica che giustificasse l’ammonimento impartito dal giudice istruttore al ricorrente sul divieto di utilizzare il dialetto Ijekavian. Ciononostante, il ricorrente era stato avvertito di usare la lingua ufficiale nel procedimento, con la chiara implicazione che il suo dialetto non era accettato in quanto tale, mentre all'altro avvocato di lingua ekaviana, che aveva agito per conto della vittima, non era stato dato un medesimo avvertimento. Inoltre, nulla nella trascrizione indicava che il giudice istruttore avesse chiesto al ricorrente di riformulare le sue domande allo scopo legittimo di renderle più comprensibili al testimone. La Corte ha dunque concluso che vi fosse stata una differenza di trattamento basata sull'uso dell’Ijekavian come una delle due varianti della lingua serba di pari uso ufficiale a livello nazionale.

Di conseguenza, la Corte ha dato risposta positiva anche all’accertamento dell’esistenza di una situazione comparabile. Il ricorrente, in qualità di avvocato difensore e parlante dialetto Ijekavian della lingua serba, e l'avvocato che ha agito per conto della vittima, in qualità di parlante della variante ekaviana, erano persone impegnate essenzialmente nella stessa attività, ossia agire per conto dei loro clienti nel corso di un procedimento penale, pertanto, considerabili come persone appartenenti a una classe omogenea o, comunque, che si trovavano in situazioni analoghe o pertinenti.

Infine, la Corte non ha riscontrato l’esistenza di una giustificazione oggettiva e ragionevole che giustificasse il trattamento discriminatorio. Infatti, si è osservato che il Governo non avesse fornito alcuna spiegazione sul perché tale trattamento sarebbe stato legittimo, ragionevole o proporzionato. Sebbene, in astratto, sarebbe legittimo per uno Stato parte della Convenzione regolamentare le questioni relative all'uso ufficiale di una lingua nei procedimenti giudiziari e, mutatis mutandis, a diverse varianti della stessa lingua, nel caso di specie, non poteva esistere una giustificazione oggettiva e ragionevole che giustificasse il trattamento differenziato subìto dal ricorrente rispetto all’altro avvocato che versava in analoga situazione, in ragione dell’uso di un dialetto diverso. La Corte ha ammesso che in linea teorica un certo margine di apprezzamento avrebbe potuto essere concesso qualora il trattamento differenziato fosse stato riconducibile solo in termini di possibili scelte di politica linguistica, ma non in una situazione in cui, come nel caso di specie, vi è stata una mancata attuazione da parte di un giudice dell'interpretazione indiscussa della legislazione già esistente in materia.

Per tutte le ragioni sopra esposte, la Corte ha ritenuto che vi sia stata una violazione dell'articolo 1 del Protocollo n.12.

Per quanto riguarda la dedotta violazione dell’articolo 6, par. 1, della Convenzione, la Corte ha valutato che la Corte costituzionale nazionale si era rifiutato di trattare il ricorso del ricorrente senza chiarire il motivo per cui non erano stati soddisfatti i prerequisiti legali per trattare questo ricorso. In particolare, non aveva spiegato perché il comportamento impugnato del giudice istruttore non fosse una questione che poteva essere contestata davanti ad essa. Inoltre, la Corte costituzionale non aveva indicato con sufficiente chiarezza quale linea d'azione appropriata il ricorrente avrebbe dovuto intraprendere per ottenere un rimedio interno alla discriminazione subita. Infine, sebbene possa essere sufficiente per un tribunale superiore respingere un ricorso facendo riferimento solo alle disposizioni di legge che prevedono la procedura del giudizio costituzionale, nel caso in questione non c'era stata alcuna sentenza o udienza sul reclamo prima che il caso fosse portato alla Corte Costituzionale, né c'era alcuna precedente giurisprudenza pertinente della Corte Costituzionale che disciplinasse in modo chiaro la questione, in particolare nel contesto specifico di un reclamo come quello attuale. Inoltre, le questioni sollevate dal ricorrente nel suo ricorso costituzionale erano significative, in quanto riguardavano la discriminazione nel procedimento davanti a un tribunale. La Corte costituzionale non aveva quindi rispettato il requisito secondo cui i tribunali nazionali sono tenuti a esaminare le richieste così significative con particolare attenzione e rigore.

Alla luce delle considerazioni che precedono, la Corte non ha potuto che concludere che, nelle circostanze molto specifiche del paese del caso in esame, vi è stata una violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione a causa della mancanza di una motivazione adeguata nella decisione della Corte costituzionale.

 

Sentenza della Corte Edu (Grande Camera), 14 febbraio 2023, ric. n. 21184/18, Halet c. Lussemburgo

Oggetto: articolo 10 della Convenzione – protezione della libertà di espressione e di diffusione delle informazioni acquisite nel contesto lavorativo – tutela degli informatori (c.d. whistleblowers) – inadeguato bilanciamento operato dai giudici nazionali – carenza del requisito di necessità della limitazione nel contesto di una società democratica.

Il ricorrente lavorava per una nota società di revisione e di consulenza fiscale alle aziende. In tale contesto, nel 2012, il predetto copiava le dichiarazioni dei redditi e altri documenti fiscali riservati riguardanti alcune imprese multinazionali e le consegnava al giornalista E.P., il quale, nell’ambito di una più ampia inchiesta sul tema del c.d. “dumping fiscale”, le divulgava al pubblico in una puntata del programma televisivo “Cash Investigation”. Invero, l’operazione in parola veniva compiuta dal ricorrente nel solco di un dibattito pubblico innescato dal disvelamento, da parte di un altro ex dipendente, A.D., di documenti relativi ad accordi fiscali preventivi particolarmente vantaggiosi, stipulati tra la suddetta società di revisione per conto di imprese clienti e l’amministrazione fiscale lussemburghese, tra il 2002 e il 2012. 

Il ricorrente, dopo essere stato identificato come autore della fuoriuscita di documenti riservati,  veniva licenziato e, all’esito di un procedimento penale, condannato al pagamento di una ammenda di 1.000,00 euro. Difatti, diversamente dall’ex collega A.D., allo stesso non veniva riconosciuto lo status di whistle-blower e il correlato regime di protezione.  

A seguito della pronuncia della Corte di Cassazione, che aveva confermato la sentenza di condanna, il ricorrente si rivolgeva alla Corte di Strasburgo, sostenendo che il provvedimento emesso nei suoi confronti costituiva  una violazione della sua  libertà di espressione e, in particolare, della libertà di diffondere informazioni.

La Grande Camera interviene, su richiesta del ricorrente, in riforma della sentenza resa da una Camera della Terza Sezione, la quale aveva escluso la sussistenza della violazione convenzionale. 

In primo luogo, la Grande Camera conviene che la condanna del ricorrente costituisce indubbiamente un’interferenza nel godimento del diritto di cui all’art. 10 Cedu, in cui si colloca la tutela dei c.d. “whistle-blowers”. La Corte specifica, inoltre, che si tratta di una misura prevista dalla legge, che persegue almeno uno degli scopi legittimi enunciati dal par. 2 della disposizione in commento, vale a dire la protezione della reputazione o di altri diritti di terzi (in questo caso, la società di revisione). 

Pertanto, acclarata la legalità e la legittimità della limitazione, al fine di giudicarne la compatibilità convenzionale resta da verificare se la stessa è stata anche «necessaria, nel contesto di una società democratica» (c.d. test di necessità).

A questo proposito, la Corte ripercorre i criteri individuati e applicati a partire dalla sentenza Guja c. Moldavia (2008) per stabilire se un dipendente che divulga informazioni riservate ottenute sul posto di lavoro possa invocare la tutela offerta dall’articolo 10 della Convenzione (§§ 113-154). Ciò, anche con l’intento dichiarato di “aggiornare” tali criteri, in ragione della mutata rilevanza del fenomeno e della conseguente evoluzione della cornice normativa europea e internazionale a protezione dei whistleblowers.

In base alla richiamata giurisprudenza, occorre considerare:  i. se esistevano strumenti di segnalazione alternativi rispetto alla divulgazione delle informazioni riservate al pubblico, che deve costituire l’ultima risorsa, cui il dipendente può ricorrere solo ove i canali di segnalazione “interni” – come, ad esempio, quello gerarchico – non siano efficaci o comunque percorribili; ii. se, alla luce delle circostanze e del contesto in cui si inserisce la vicenda, le informazioni divulgate sono effettivamente di interesse pubblico, avendo riguardo sia del contenuto delle stesse, sia degli interessi contrapposti sottesi agli obblighi di lealtà e di riservatezza che sono stati violati dal lavoratore; iii. se le informazioni sono autentiche, con la precisazione che la tutela offerta dall’art. 10 non viene meno qualora le stesse non si rivelino tali, purché l’informatore ne abbia attentamente verificato, nei limiti in cui è possibile, l’attendibilità; iv. il pregiudizio subito dal datore di lavoro, che  ben può consistere nel danno economico e reputazionale patito da un’azienda privata, che deve essere adeguatamente bilanciato con l’interesse dell’opinione pubblica a ricevere le informazioni divulgate; v. la buona fede dell’informatore;  vi. infine, la natura e la gravità delle sanzioni inflitte a quest’ultimo. La Corte chiarisce, peraltro, che si tratta di criteri tra loro interdipendenti, per cui, oltre a esaminare separatamente ciascun profilo, senza stabilire una gerarchia tra di essi o indicare l’ordine in cui devono essere esaminati, essa procede a un’analisi globale, tesa a valutare che, nel singolo caso, le esigenze contrapposte che vengono in considerazione siano state correttamente bilanciate (§ 170).

La Corte procede, quindi, a verificare se i giudici nazionali abbiano correttamente applicato i principi della Convenzione, così come sviluppati dall’orientamento giurisprudenziale testé delineato. 

In questo senso, pur rilevando che le autorità giurisdizionali interne avevano scrupolosamente preso in considerazione gli indici tratti dalla giurisprudenza convenzionale, la Grande Camera ritiene non soddisfacente la ponderazione effettuata tra l’interesse pubblico alla divulgazione dei documenti riservati e l’insieme degli effetti dannosi derivanti dalla loro diffusione, al fine di decidere se il ricorrente potesse o meno beneficiare della protezione rafforzata cui hanno diritto gli informatori ai sensi dell’articolo 10 della Convenzione.

In particolare, ad avviso dei giudici europei, la Corte d’Appello, per un verso, aveva dato un’interpretazione eccessivamente restrittiva della nozione di “interesse pubblico”, soprattutto alla luce del contesto che caratterizzava la vicenda. Difatti, il giudice nazionale aveva ritenuto che le dichiarazioni dei redditi diffuse dal ricorrente non costituivano «informazioni essenziali, nuove e precedentemente sconosciute», in quanto non avevano fornito alcun contributo essenziale e innovativo rispetto alle informazioni già in possesso dell’opinione pubblica a seguito del precedente disvelamento operato da A.D.; di talché, la considerazione del danno causato al datore di lavoro doveva ritenersi prevalente sull’interesse generale.

A questo proposito, la Grande Camera evidenzia, invece, che il dibattito pubblico può avere carattere continuativo ed essere alimentato da informazioni aggiuntive. Inoltre, in linea con i rilievi della ONG Maison des Lanceurs d’alerte (§97), tra i terzi intervenuti dinanzi alla Corte di Strasburgo, essa rileva come, spesso, sia necessario che l’opinione pubblica sia ripetutamente allertata su un determinato problema, affinché i fatti oggetto di denuncia vengano effettivamente presi in considerazione dalle autorità pubbliche e dalla società civile. Pertanto, la circostanza che, al momento della divulgazione dei documenti impugnati in Lussemburgo fosse già in corso un dibattito sulle pratiche di elusione e ottimizzazione fiscale non può essere considerato sufficiente a ridurre la rilevanza pubblica di tali documenti.

Per altro verso, ad avviso della Corte di Strasburgo, la Corte d’Appello aveva esaminato in modo incompleto e generico gli effetti pregiudizievoli della divulgazione delle informazioni, senza spiegare adeguatamente perché il danno patito dalla società di revisione dovesse dunque essere ritenuto prevalente rispetto all’interesse generale.

Alla luce dell’insoddisfacente bilanciamento effettuato dai giudici interni, spetta dunque alla Corte stessa indicare il corretto equilibrio tra gli interessi in gioco che, considerata la rilevanza (anche) sovranazionale del dibattito pubblico sulle pratiche fiscali delle società multinazionali cui le informazioni divulgate dal ricorrente avevano fornito un contributo essenziale, vede l’interesse pubblico alla diffusione delle informazioni prevalere sugli effetti dannosi dalla stessa determinati.

Conseguentemente, la Corte rileva come sia la stessa previsione e applicazione della sanzione penale, a prescindere dalla sua gravità, stante l’effetto dissuasivo che ne deriva sulla libertà di espressione del ricorrente o di eventuali possibili futuri informatori, che porta ad escludere che la limitazione in discorso sia proporzionale rispetto allo scopo legittimo perseguito.

Considerati, in conclusione, il complessivo assetto degli interessi in gioco, in uno con il c.d. “chilling effect” della sanzione penale comminata al ricorrente, la Grande Camera conclude che l’interferenza con il suo diritto alla libertà di espressione, in particolare con la libertà di diffondere informazioni, non può essere considerata «necessaria in una società democratica».

Si segnalano, inoltre, la opinione dissenziente congiunta dei giudici Ravarani, Mourou-Vikström, Chanturia e Sabato e quella del giudice Kjølbro.

 

Sentenza della Corte Edu (Quarta Sezione), 28 Febbraio 2023, ric. n. 911/16, Căpăţînă c. Romania

Oggetto: articolo 1 P1 (tutela della proprietà) – godimento pacifico dei beni – sequestro temporaneo durante un procedimento penale per corruzione – confisca post-condanna di proventi di reato – mancanza di profili di arbitrarietà o sproporzione nel calcolo degli importi sequestrati e confiscati – procedimento contraddittorio ed equo.

Il caso riguarda la legittimità del sequestro e della confisca subiti dalla ricorrente, nell’ambito di un procedimento penale per corruzione.

All’epoca dei fatti, la ricorrente era agente di polizia di frontiera presso l’ufficio doganale di Siret, un valico tra Ucraina e Romania. 

Nel 2011 la Direzione nazionale anticorruzione apriva un procedimento penale contro oltre sessanta persone, per associazione a delinquere e corruzione in attività di importazione illegale di sigarette, gasolio e alcol dall’Ucraina. In base agli elementi di prova raccolti durante le indagini, il pubblico ministero riteneva sufficientemente provato che gli agenti doganali, al momento di controllare le auto, prendevano tangenti in cambio del permesso di attraversare il confine con merci illecite; nascondevano poi il denaro e lo dividevano proporzionalmente con tutti i colleghi dello stesso turno (per turno di lavoro, i proventi viaggiavano tra i 1.800 e i 5.600 euro). Il pubblico ministero ordinava, anche nei confronti della ricorrente, il sequestro di alcuni beni, per coprire il danno presumibilmente causato (stimato di 7.000 euro ca): nello specifico, in presenza della ricorrente, sequestrava le somme di 5.530 euro e 24 dollari statunitensi nonché un’auto di proprietà. 

La ricorrente sosteneva di non aver causato alcun danno e contestava il metodo di stima utilizzato dal pubblico ministero. Nella richiesta di rinvio a giudizio, il pubblico ministero affermava di non poter calcolare l’importo esatto delle tangenti prese da ciascun imputato, poiché le somme ottenute venivano ripartite in base a mansioni e turni di lavoro; pertanto, aveva considerato, per ciascuno degli imputati, il numero di turni di lavoro durante il periodo incriminato, le loro mansioni durante ogni turno e l’importo medio per turno. 

L’impugnazione avverso l’applicazione della misura (fondata su contratti bancari asseritamente attestanti l’origine lecita dei redditi della ricorrente) veniva rigettata, in mancanza di prova circa la corrispondenza del denaro sequestrato con le somme indicate nei documenti di parte.

In base alle videoregistrazioni, i giudici romeni condannavano la ricorrente per sei dei tredici capi d’accusa individuati dal pubblico ministero e, confermando il metodo di calcolo già utilizzato, lo applicavano ai fini della confisca dei proventi di reato (la stima veniva però ridotta alla luce del numero dei capi d’accusa ritenuti provati e la differenza veniva rimborsata alla ricorrente solo in seguito all’esaurimento dei mezzi di impugnazione).

Dinanzi alla Corte di Strasburgo, la ricorrente lamenta la violazione del diritto di proprietà tutelato dall’art. 1 Prot. 1.

Sotto il profilo dell’ammissibilità del ricorso, alla luce del principio secondo cui «quando è stato esperito un rimedio, non è richiesto l’esperimento di un altro rimedio che abbia essenzialmente lo stesso obiettivo», la Corte rigetta l’eccezione governativa di mancato esaurimento dei mezzi di impugnazione del provvedimento cautelare, posto che già tramite l’impugnazione principale la ricorrente aveva devoluto ai giudici nazionali il riesame della questione di legittimità del sequestro e del metodo di calcolo da utilizzare. 

Nel merito, la Corte ricorda, in primis, i principi generali applicabili. L’art. 1 Prot. 1 comprende tre norme distinte: la prima, contenuta nella prima frase del § 1, è di carattere generale ed enuncia il principio del pacifico godimento della proprietà; la seconda, contenuta nella seconda frase del § 1, riguarda la privazione del possesso e la sottopone a determinate condizioni; la terza, enunciata nel § 2, riconosce agli Stati contraenti il diritto di controllare l’uso della proprietà in funzione dell’interesse generale. Le tre norme sono collegate. Tale disciplina esige che qualsiasi ingerenza da parte di un’autorità pubblica sia conforme alla legge, sia giustificata alla luce di un legittimo interesse pubblico (o generale), nonché ragionevolmente proporzionata allo scopo che si intende raggiungere. 

In concreto, i giudici sovranazionali riconoscono, innanzitutto, che le misure lamentate dalla ricorrente misure possono essere considerate un’ingerenza nell’esercizio del diritto al pacifico godimento dei beni ai sensi dell’art. 1 § 2 Prot. 1. Benché, in alcuni casi, la Corte abbia ritenuto che la confisca post condanna penale integrasse una misura permanente, equivalendo a privazione della proprietà ai sensi del § 1, sia la seconda frase del § 1 che il § 2 dell’art. 1 devono essere interpretati alla luce del principio generale enunciato nella prima frase del § 1. 

Entrambe le misure (sequestro e confisca) risultano conformi alle disposizioni pertinenti del diritto interno, adottate nell’interesse generale, al fine di punire gli atti di corruzione, garantire l’ordine pubblico, prevenire la criminalità e assicurare la corretta amministrazione della giustizia. In particolare, il sequestro mira a coprire i danni cagionati dalle condotte criminali, mentre la confisca è finalizzata a sottrarre i proventi del crimine dal patrimonio dell’autore del reato.

In ordine all’ultimo requisito dell’interferenza, ossia la sua proporzionalità, l’esistenza di un giusto equilibrio tra esigenze d’interesse generale e tutela del diritto della ricorrente al pacifico godimento dei suoi beni, la Corte sottolinea i seguenti elementi: la ricorrente ha potuto contestare le misure dinanzi ai tribunali, presentando diversi documenti, asseritamente dimostrativi della liceità dei redditi; tali prove sono state esaminate dai tribunali nazionali, benché ritenute insufficienti; nulla suggerisce che la ricorrente non abbia vantato una ragionevole opportunità di far valere il proprio caso o che le conclusioni dei tribunali nazionali siano state inficiate da manifesta arbitrarietà; la durata del sequestro era giustificata. Con riguardo alla misura del sequestro e della confisca, il particolare metodo di calcolo suggerito dal pubblico ministero e utilizzato dai giudici (consistente nel considerare un provento medio per turno di lavoro, piuttosto che nell’accertare quanto specificamente percepito in tangenti da ciascun imputato) appare, nel caso di specie, ragionevole.

La Corte esclude la violazione dell’art. 1 Prot. 1 della Convenzione.

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata

Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

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