Le pronunce della Corte EDU qui selezionate hanno impegnato la Grande Camera su una richiesta di estrazione con rischio di condanna all’ergastolo, nonché su un’ipotesi di applicazione retroattiva di una “sanzione penale” in materia fiscale; hanno altresì coinvolto l’Italia rispetto a un episodio di violenza domestica.
Nel caso Sanchez-Sanchez c. Regno Unito, la Grande Camera aggiunge un tassello allo statuto convenzionale dell’ergastolo, tema di grande attualità anche nel panorama italiano. Il test di verifica di compatibilità con l’art. 3 della Convenzione, elaborato nella sentenza Vinter e Altri c. Regno Unito e teso ad accertare la riducibilità de facto o de iure della pena (in particolare l’esistenza di un meccanismo di revisione fondato sul percorso riabilitativo del condannato), viene “riadattato” per l’ipotesi di estradizione. Poiché gli Stati contraenti non possono rispondere per carenze, soprattutto procedurali, di paesi terzi, spetta al ricorrente dar prova del rischio reale di una condanna all’ergastolo.
A seguire, la Grande Camera, decidendo il caso Vegotex International S.A. c. Belgio, affronta un’ipotesi di applicazione retroattiva di una legge d’interpretazione autentica ed esclude la violazione della Convenzione rilevando, da una parte, che la norma invocata è l’art. 6, non l’art. 7; dall’altra, che legalità e prevedibilità non hanno, rispetto alle sanzioni “penali” del settore fiscale, il rigore che contraddistingue il “nocciolo duro” della materia penale.
Infine, con la sentenza I.M. e Altri c. Italia, la Corte di Strasburgo torna a condannare l’ordinamento italiano in relazione a episodi di violenza domestica, non tanto per la loro effettiva consumazione, quanto per l’incidenza di tali fenomeni sull’organizzazione di incontri tra genitori e figli dinanzi ad assistenti sociali e/o psicologi. In particolare, risulta illegittima la sospensione della responsabilità genitoriale di una madre denunciata per non aver portato i figli agli incontri col padre, nonostante quest’ultimo fosse aggressivo e gli incontri si svolgessero in un ambiente non protetto.
Sentenza della Corte Edu (Grande Camera), 3 novembre 2022, ric. n. 22854/20, Sanchez-Sanchez c. Regno Unito
Oggetto: articolo 3 della Convenzione (divieto di tortura) – richiesta di estradizione da parte di un paese terzo per sottoporre a giudizio un soggetto indagato di reati di associazione a delinquere legati agli stupefacenti – rischio di condanna all’ergastolo in caso di accertamento della responsabilità penale del ricorrente – riducibilità de facto o de iure della pena dell’ergastolo ai fini della compatibilità convenzionale, secondo il test elaborato nel caso Vinter e Altri c. Regno Unito – impossibilità di estendere il test Vinter ai casi di estradizione in paesi terzi – nuovo e apposito test in due fasi 1) prova, a carico del ricorrente, di un rischio reale di condanna all’ergastolo senza prospettive di liberazione condizionale o vigilata; 2) individuazione, nel paese terzo, di meccanismi di revisione dell’ergastolo secondo i progressi del detenuto verso la riabilitazione o altre circostanze personali rilevanti.
Il ricorrente, cittadino messicano, viene arrestato dalle autorità inglesi in seguito alla richiesta di estradizione presentata dagli Stati Uniti, con l’accusa di aver commesso reati di associazione a delinquere per il traffico di stupefacenti.
Nell’ambito dell’udienza di estradizione, egli sosteneva l’incompatibilità della medesima con l’art. 3 della Convenzione, in ragione delle condizioni di detenzione statunitensi e del rischio concreto di una condanna all’ergastolo senza possibilità di accedere alla liberazione condizionale o vigilata (life imprisonment without parole). I giudici nazionali, dando conto di due importanti precedenti della Corte di Strasburgo (i casi Vinter e Altri c. Regno Unito e Trabelsi c. Belgio) ritenevano che il ricorrente non avesse dimostrato l’esistenza di un rischio reale di violazione dei diritti tutelati dalla Convenzione, rilevando altresì che la condanna all’ergastolo fosse un’eventualità rara in ipotesi di traffico di droga, che, una volta condannato, avrebbe potuto ottenere riduzioni di pena dichiarandosi colpevole, ovvero chiedere la grazia o il rilascio per motivi di salute. La decisione veniva confermata dalla High Court.
Il ricorso sovranazionale lamenta l’incompatibilità dell’estradizione con l’art. 3 della Convenzione, stante il rischio di condanna alla pena dell’ergastolo senza prospettive di liberazione.
La questione di legittimità convenzionale dell’ergastolo è stata dettagliatamente affrontata dalla Grande Camera nel caso Kafkaris c. Cipro del 2008. Di per sé, esso non è incompatibile con la Convenzione; tuttavia, qualora risulti “non riducibile” de iure o de facto, può sollevare un problema ai sensi dell’art. 3: occorre una qualche prospettiva di liberazione, rispetto alla quale è sufficiente la previsione interna della possibilità di ottenere la liberazione condizionale o anticipata ovvero altro provvedimento di clemenza o commutazione della pena. Nel 2013, con la sentenza Vinter e Altri c. Regno Unito, la Corte raffina il suddetto orientamento esigendo l’esistenza e l’esperibilità (dopo un certo periodo di espiazione) di un meccanismo di revisione dell’ergastolo incentrato sulla riabilitazione del detenuto.
Il caso di specie, tuttavia, richiede di valutare la compatibilità convenzionale dell’ergastolo nel contesto di un’estradizione verso un paese terzo.
In generale, poiché la tortura e i trattamenti disumani o degradanti sono vietati in termini assoluti, l’estradizione di una persona da parte di uno Stato contraente può comportare la responsabilità di quest’ultimo ai sensi dell’art. 3 della Convenzione, qualora vi siano seri motivi di ritenere l’esistenza di un rischio reale di maltrattamenti nel paese terzo richiedente. A tal fine, la Corte esamina le conseguenze prevedibili, ponendo a carico del ricorrente la prova del suddetto rischio; se l’onere è adempiuto, spetta al governo convenuto produrre prova contraria.
Ciò posto, un test elaborato in ambito nazionale può essere esteso ai casi di estradizione solo con una certa cautela, considerato che lo Stato contraente si troverebbe a rispondere per il trattamento imposto in un ordinamento terzo, piuttosto che nel proprio. In particolare, la Corte esclude che gli Stati contraenti siano ritenuti responsabili per le carenze procedurali di uno Stato terzo, stante la difficoltà di esaminare la legislazione e la prassi ivi vigenti. Inoltre, a fronte dell’accertamento della violazione dell’art. 3, mentre nel contesto nazionale il ricorrente risulterebbe già detenuto e in attesa del suddetto meccanismo di revisione, nel contesto dell’estradizione il ricorrente finirebbe per non essere neanche processato.
Sulla scorta di tali considerazioni, occorre adattare il test Vinter all’ipotesi di estradizione, ricollegandovi due fasi: 1) verificare se il ricorrente abbia provato l’esistenza di rischi reali di condanna all’ergastolo senza prospettiva di liberazione condizionale o vigilata; 2) solo se la prima verifica ha avuto esito positivo, accertare, conformemente al test Vinter, l’esistenza nel paese terzo di un meccanismo di revisione della pena basato sul percorso di riabilitazione.
Nel caso di specie, il giudice distrettuale inglese non ha ritenuto probabile l’irrogazione dell’ergastolo e il ricorrente, nel procedimento dinanzi alla Grande Camera, non ha fornito precedenti di condanna all’ergastolo di imputati per reati analoghi a quelli contestatigli. In conclusione, non risulta soddisfatta la prima verifica del test “riadattato”, sicché non è possibile affermare che l’estradizione del ricorrente sia idonea a produrre una violazione dell’art. 3 della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Grande Camera), 3 novembre 2022, ric. n. 49812/19, Vegotex International S.A. c. Belgio
Oggetto: articolo 6 § 1 (diritto a un equo processo) – aspetto penale – richiesta di pagamento di debito fiscale comprensivo di un’imposta supplementare e di una sovrattassa (solo quest’ultima avente funzione punitiva) – sopravvenienza di un orientamento giurisprudenziale sulle cause d’interruzione della prescrizione dei debiti fiscali: l’effetto interruttivo decorre, piuttosto che dalla richiesta di pagamento, dall’esecutività di quest’ultima – eccezione di prescrizione sollevata nel giudizio di appello – sopravvenienza di una legge d’interpretazione autentica sull’effetto interruttivo già a partire dalla richiesta di pagamento – conferma del debito fiscale in appello in ragione della sospensione della prescrizione e in Corte di Cassazione in ragione dell’interruzione, questione rilevata d’ufficio alla luce dell’applicazione retroattiva della suddetta novella – estensione delle garanzie dell’art. 6 § 1 in materia fiscale (minore rispetto al “nocciolo duro” del diritto penale) – mancanza di un legittimo affidamento circa l’applicazione di un orientamento giurisprudenziale sopravvenuto, non pacifico ed espressamente contrastato dal legislatore – “sostituzione dei motivi” da parte della Corte di Cassazione e compatibilità col diritto di accesso al tribunale, coi principi del contraddittorio e della parità delle armi – eccessiva durata del procedimento.
Nel 1995 l’Agenzia delle Entrate informava la società ricorrente dell’esigenza di rettificare la dichiarazione dei redditi per l’anno fiscale 1993 e presentava una richiesta di pagamento comprensiva, da un lato, di un’imposta supplementare, dall’altro, di una maggiorazione fiscale. La ricorrente proponeva reclamo dinanzi all’autorità amministrativa; tuttavia, quest’ultima, nell’ottobre 2000, notificava un’ingiunzione di pagamento, al tempo idonea a interrompere il termine di prescrizione del debito fiscale. Dopo la proposizione di ricorso dinanzi ai giudici nazionali, nello specifico durante il procedimento di primo grado, la Corte di Cassazione (in altro procedimento, con sentenza del 2002) interpretava la normativa sulla prescrizione nel senso che la richiesta di pagamento non avrebbe potuto avere effetti interruttivi fintanto che il credito non fosse divenuto indiscutibile. Sulla base di siffatto nuovo orientamento giurisprudenziale, la ricorrente sollevava, dinanzi ai giudici d’appello, l’eccezione di prescrizione. Intanto il legislatore, con novella entrata in vigore nel luglio 2004, forniva l’interpretazione autentica (in quanto tale retroattiva) della disciplina sull’interruzione della prescrizione del credito fiscale, in modo da vanificare il suddetto orientamento e ripristinare la prassi previgente. I giudici di appello non applicavano la novella, rigettando le doglianze difensive sulla base dell’intervenuta sospensione (piuttosto che interruzione) del termine di prescrizione; i giudici di legittimità confermavano la decisione sulla base della novellata disciplina sull’interruzione, rilevando la questione d’ufficio.
Premesso che l’aspetto penale dell’art. 6 della Convenzione è applicabile solo alla sovrattassa o maggiorazione d’imposta, in quanto integrante una sanzione penale alla luce dei criteri formulati nel caso Engel, la prima questione sottoposta alla Grande Camera è la legittimità del processo a carico della ricorrente nella misura in cui la Corte di Cassazione ha applicato retroattivamente la norma sull’interruzione della prescrizione dei crediti fiscali.
In genere, sulla scorta della giurisprudenza sovranazionale in materie coperte dall’art. 7 della Convenzione, solo motivi imperativi d’interesse generale possono giustificare un’ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia e influenzare la decisione di una controversia pendente; a tal fine, l’esistenza di interessi finanziari non è di per sé sufficiente.
Il governo convenuto ha argomentato, tra gli scopi dell’interferenza, la stabilità finanziaria (benché la giurisprudenza della Corte di Cassazione “ribaltata” dal legislatore fosse destinata a interessare un numero relativamente limitato di casi); il contrasto alle frodi fiscali su larga scala; l’obiettivo di non creare discriminazioni arbitrarie tra contribuenti che hanno rinunciato di propria iniziativa alla parte del termine di prescrizione scaduto (pagando il debito fiscale) e contribuenti che non l’hanno fatto; l’esigenza di correggere la giurisprudenza di Cassazione e garantire la certezza del diritto rispetto a una prassi da tempo consolidata.
Poiché il principio di irretroattività della legge, soprattutto penale, ha lo scopo di garantire la certezza del diritto, la Corte di Strasburgo ritiene che, nel caso di specie, tale certezza non sia stata compromessa ma valorizzata dall’intervento del legislatore e che, pertanto, non sia possibile accertare una lesione del legittimo affidamento della società ricorrente. Infatti, l’eccezione di prescrizione è stata formulata in base a un orientamento giurisprudenziale sopravvenuto rispetto alla prassi esistente al momento della richiesta di pagamento e dell’inizio del procedimento, oltretutto non condiviso dalla generalità dei giudici. Benché la reviviscenza della responsabilità penale dopo la scadenza di un termine di prescrizione sia incompatibile con l’interpretazione del principio di legalità e prevedibilità di cui all’art. 7 della Convenzione, il rigore di questa norma non s’impone nel caso in esame che riguarda l’art. 6, non l’art. 7, e il settore fiscale, piuttosto che il “nocciolo duro” del diritto penale.
I giudici sovranazionali aggiungono poi che la c.d. “sostituzione dei motivi” da parte della Corte di Cassazione, ossia la prassi di rilevare una questione d’ufficio e di fondare la decisione finale su quest’ultima, piuttosto che sui motivi addotti per la medesima decisione nel grado di giudizio precedente, non abbia violato né la parità delle armi (posto che società e Stato hanno vantato le medesime prerogative), né il contraddittorio (posto che la Procura Generale aveva già fatto presente la rilevanza della questione d’ufficio, sicché la ricorrente avrebbe ben potuto replicare con apposite memorie o oralmente), né il diritto di accesso a un tribunale (considerato che la ricorrente ha avuto la possibilità di presentare le proprie argomentazioni anche dinanzi alla Corte di Cassazione).
L’unico profilo di violazione attiene alla durata irragionevole del procedimento, iniziato, con la fase amministrativa di riscossione, nel 1995 e conclusosi nel 2009.
In calce alla sentenza, i giudici parzialmente dissenzienti Spano, Kjølbro, Turković, Yudkivska, Pejchal, Mourou-vikström e Felici contestano alla maggioranza di non aver tenuto conto dello stretto legame tra artt. 6 e 7 della Convenzione, ai fini della valutazione della lesione del legittimo affidamento.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 10 novembre 2022, ric. n. 25426/20, I.M. e Altri c. Italia
Oggetto: articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) – obblighi positivi – madre costretta a rifugiarsi coi figli in un centro anti-violenza a causa dell’aggressività dell’ex marito – ordine del tribunale di garantire incontri con entrambi i genitori – svolgimento degli incontri in un ambiente non protetto – sospensione della responsabilità genitoriale della madre perché considerata “non collaborativa” agli incontri con l’ex marito – decisione non supportata da ragioni pertinenti e sufficienti.
Il ricorso riguarda la capacità delle autorità nazionali di proteggere e assistere una donna e i suoi figli durante gli incontri di questi ultimi col padre.
Nel 2014, la prima ricorrente lasciava la casa familiare e portava con sé i figli, secondo e terzo ricorrente, in un centro anti-violenza, denunciando i maltrattamenti subiti dall’ex marito, tossicodipendente e alcolizzato. La Procura richiedeva un provvedimento urgente di sospensione della responsabilità genitoriale dell’uomo, accordandogli la possibilità di vedere i figli solo in ambiente protetto. In un primo periodo, gli incontri non sono stati organizzati per mancanza di risorse. Il tribunale, informato del trasferimento dal primo al secondo centro di accoglienza, disponeva che gli incontri si svolgessero presso il centro. Tuttavia, quest’ultimo non era dotato né di personale specializzato né di protezioni adeguate, sicché gli incontri venivano tenuti in luoghi quali la biblioteca comunale o una sala del municipio, dinanzi a un funzionario dei servizi sociali, piuttosto che a uno psicologo. Le relazioni degli specialisti al tribunale attestavano l’atteggiamento offensivo e aggressivo dell’uomo nei confronti della prima ricorrente e sollecitavano l’individuazione di un luogo adatto allo svolgimento degli incontri.
La ricorrente veniva denunciata dall’ex marito per aver saltato due incontri e si giustificava adducendo che motivi lavorativi le avevano impedito di portare i figli presso un luogo di incontro, oltre che non protetto, distante 120 km. Nel maggio 2016, senza ascoltare l’assistente sociale che conosceva i bambini e aveva assistito agli incontri, i giudici penali sospendevano la responsabilità genitoriale di entrambi i genitori sottolineando come la ricorrente si fosse opposta agli incontri, a nulla rilevando che il Tribunale civile di Tivoli avesse disposto l’affidamento esclusivo dei figli alla prima ricorrente.
I successivi incontri si svolgevano alla presenza di uno psicologo e confermavano la premura della madre e l’aggressività del padre; inoltre, mentre nei confronti della prima l’autorità giudiziaria archiviava il procedimento penale (aperto per mancata esecuzione di un ordine del giudice e sottrazione di minori), nei confronti del secondo veniva eseguita una condanna a pena detentiva per reati legati agli stupefacenti e perpetrati tra il 1994 e il 2018. Solo nel maggio 2019, il tribunale ripristinava la responsabilità genitoriale della madre.
Dinanzi alla Corte di Strasburgo, si discute appunto la legittimità della sospensione della responsabilità genitoriale della prima ricorrente, poiché forma di interferenza col diritto al rispetto della vita familiare di cui all’art. 8 della Convenzione, nonché l’adeguatezza della protezione fornita ai minori, tenuto conto della loro incolumità, del loro sano e sereno sviluppo, del legame coi genitori.
In generale, quando il diritto al rispetto della vita familiare coinvolge minori, l’interesse di quest’ultimi è preminente nella valutazione dell’osservanza della Convenzione. Così, in ipotesi di conflitto dei genitori, la salute del minore impone di mantenere i rapporti con entrambi, salve ipotesi eccezionali. A tal fine, il processo decisionale del giudice deve essere equo, deve coinvolgere entrambi i genitori, esaminare circostanze fattuali, emotive, psicologiche, mediche.
Nel caso di specie, con riguardo alla posizione del secondo e del terzo ricorrente, la Corte osserva che la decisione del tribunale di autorizzare incontri in condizioni di protezione e in presenza di uno psicologo per lungo tempo non è stata attuata: lo psicologo è stato nominato dopo più di un anno e, nonostante le numerose segnalazioni di pericolo dei servizi sociali, gli incontri si sono svolti in un ambiente non protetto. Sarebbe stato dunque opportuno sospenderli (circostanza avvenuta solo nel novembre 2018).
Tutto ciò ha messo a repentaglio l’equilibrio psicologico ed emotivo dei bambini, in chiara violazione dell’art. 8 della Convenzione.
Con riguardo alla posizione della prima ricorrente, la Corte ritiene che le autorità nazionali non abbiano fornito ragioni pertinenti e sufficienti per sospendere per ben 3 anni la sua responsabilità genitoriale. Benché il domicilio dei figli fosse rimasto il medesimo, la sospensione ha inciso sulla capacità di prendere decisioni rilevanti nell’interesse dei figli. Eppure i giudici sono pervenuti a tale decisione senza ascoltare l’assistente sociale che si era occupata degli incontri familiari durante il primo anno di separazione, senza tener conto delle difficoltà emerse durante i suddetti incontri, della mancanza di sicurezza più volte segnalata.
Sotto un profilo sistematico, la Corte censura la prassi dei tribunali civili di considerare come “non collaborative” le donne che si rifiutano di portare i figli agli incontri col padre, benché lo facciano invocando la violenza domestica subita.
L’interferenza non risulta dunque proporzionata.
Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa