Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di luglio-agosto 2023

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nei mesi di luglio e agosto 2023

La selezione di sentenze emesse dalla Corte Edu nei mesi di luglio e agosto riguarda la tutela di persone vulnerabili: da una parte, anziani soggetti ad amministrazione di sostegno; dall’altra, gruppi di sex workers.

In Calvi e C.G. c. Italia, la Corte riscontra la violazione dell’art. 8 della Convenzione per la mancanza di proporzionalità in misure restrittive nei confronti di una persona anziana soggetta ad amministrazione di sostegno e ricoverata presso una Residenza Sanitaria Assistenziale (“RSA”), in una situazione di isolamento e inibizione dei contatti con l’esterno. Più in generale, la Corte esprime preoccupazione per il sostanziale aggiramento dei limiti rigorosi del T.S.O., mediante il ricorso abusivo all’amministrazione di sostegno, nonché dà conto di una più ampia problematica legata alla tutela delle persone residenti nelle case di cura.

Il caso D.H. e Altri c. Macedonia del Nord concerne l’arresto di un gruppo di sex workers, con custodia presso la stazione di polizia per circa 20 ore e sottoposizione a un prelievo di sangue; la Corte accerta la violazione dell’art. 3 della Convenzione stante il mancato accesso a cibo, bevande e servizi igienici (doglianza rispetto cui l’onere della prova ricadeva innanzitutto sul Governo convenuto); rileva, altresì, la violazione del diritto alla riservatezza stante l’avvenuta pubblicazione, da parte del sito del Ministero dell’Interno, di foto ritraenti le ricorrenti.

In M.A. e Altri c. Francia, la Corte si pronuncia sull’ammissibilità del ricorso presentato da 291 sex workers di varie nazionalità, che lamentano la violazione del diritto all’integrità psico-fisica e al rispetto della vita privata a motivo della legge n. 2016-444 sulla responsabilità penale del cliente di prestazioni sessuali a pagamento. La decisione autonoma di ammissibilità si fonda, in particolare, su un’interpretazione estensiva della nozione di “vittima potenziale”.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 6 luglio 2023, ric. n. 46412/21, Calvi e C.G. c. Italia

Oggetto: articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) – ricovero presso Residenza Sanitaria Assistenziale (“RSA”) senza il consenso – mancanza di proporzionalità nell’applicazione e nel mantenimento di misure nell’ambito dell’amministrazione di sostegno.

 

Nel 2017, il secondo ricorrente era stato sottoposto dal giudice tutelare ad amministrazione di sostegno, su richiesta della sorella, perché considerato incapace di gestire il proprio patrimonio a causa della sua prodigalità.

Seguivano, negli anni successivi, l’avvicendamento di diversi amministratori di sostegno e una serie di perizie psichiatriche contrastanti sul grado di deterioramento del predetto.

Nel maggio 2020, il giudice tutelare estendeva i poteri dell’amministratore di sostegno in carica relativamente a tutti gli aspetti correlati alla cura personale del secondo ricorrente e, nell’ottobre 2020, ne autorizzava il ricovero in una Residenza Sanitaria Assistenziale (“RSA”), che veniva eseguito contro la volontà del ricorrente.

 Durante il collocamento presso la struttura, a seguito del clamore mediatico suscitato dalla vicenda portata all’attenzione dell’opinione pubblica, il secondo ricorrente, per volontà dell’amministratore, veniva sostanzialmente sottoposto ad isolamento sociale, inibendone i contatti con l’esterno – compresi quelli con il primo ricorrente, cugino dell’amministrato, che per questo si rivolgeva senza risultato al giudice tutelare – fatta eccezione per il sindaco del comune di residenza dell’anziano.

Della situazione si interessava anche il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, che inviava alla competente Procura della Repubblica una raccomandazione con la quale invitava l’organo a considerare l’opportunità di chiedere al giudice tutelare una rivalutazione della misura, atteso, per giunta, che il graduale rientro del ricorrente presso il proprio domicilio era stato suggerito altresì da uno dei periti nominati dal giudice tutelare.

Il primo ricorrente, dunque, si rivolgeva in nome proprio e in nome e per conto del cugino (secondo ricorrente) alla Corte EDU.

In punto di ammissibilità, la Corte respinge l’eccezione governativa, rilevando la sussistenza degli speciali presupposti che consentono ad un individuo di proporre ricorso in nome e per contro di un altro, anche in assenza di una procura debitamente scritta da parte di quest’ultimo ai sensi dell’art. 45, par. 3 del regolamento della Corte.

A questo proposito, la Corte rammenta, anzitutto, come, in applicazione dei criteri elaborati nella nota pronuncia Lambert e altri c. Francia e, più recentemente, sviluppati ex multis nel caso Legal Resource Center per conto di Valentin Câmpeanu c. Romania, i ricorsi proposti per conto di una o più presunte vittime di violazioni degli articoli 2, 3 e 8 della Convenzione, attribuite alle autorità nazionali, possano essere dichiarati ricevibili nonostante l’assenza di una valida procura, tenendo in particolare considerazione, da un lato, i fattori di estrema vulnerabilità in cui versa la persona, che potrebbero impedirle di sottoporre autonomamente il proprio caso alla Corte e, dall’altro, i rapporti tra la vittima e colui che si propone di rappresentarla.

Da questo punto di vista, la Corte osserva come, nella vicenda in esame, il secondo ricorrente si trovasse in effetti in una situazione che non gli consentiva di rivolgersi direttamente alla Corte per tutelare i propri diritti, considerati i poteri di surrogazione dell’amministratore di sostegno e atteso che la censura principale verteva proprio sulla sproporzione delle restrizioni che quest’ultimo aveva imposto all’amministrato con il benestare del giudice tutelare. Inoltre, rileva che non sussisteva alcun conflitto di interessi tra il primo e il secondo ricorrente, per quanto concerne l’oggetto del ricorso.

Sul punto, infine, la Corte soggiunge come la questione presenti un interesse generale, consentendo ai giudici europei di chiarire gli standard convenzionali di protezione applicabili a persone che si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità, quali sono gli anziani ospitati in case di cura.

Nel merito, la Corte chiarisce, in primo luogo, che le misure cui era stato sottoposto il secondo ricorrente avevano pacificamente costituito un’ingerenza nel suo diritto al rispetto alla vita privata protetta dall’art. 8, disposte in base alla disciplina civilistica dell’amministrazione di sostegno e adottate per lo scopo legittimo di proteggerlo. Nondimeno, le stesse non risultavano legittime sotto la lente del rispetto della proporzionalità e avevano quindi violato la disposizione convenzionale testé richiamata.

La Corte perviene a questa conclusione osservando, in prima battuta, che la privazione di una persona della capacità di agire, anche solo parzialmente, costituisce una misura particolarmente gravosa, che dovrebbe essere applicata soltanto in circostanze eccezionali e, inoltre, che il margine di discrezionalità riservato alle autorità statali si restringe, in considerazione della natura del diritto il cui esercizio viene limitato, a maggior ragione quando esso risulti cruciale per l’effettivo godimento da parte dell’individuo di diritti intimi o essenziali. In questa prospettiva, assume ovviamente un rilievo centrale, nella valutazione della Corte, l’esame del processo decisionale che ha portato all’adozione delle misure, nonché delle garanzie che in tale ambito hanno assistito l’individuo per scongiurare il rischio di arbitrarietà.

La Corte ulteriormente rileva, poi, che, nel caso di specie, la decisione di sottoporre il ricorrente ad amministrazione di sostegno non era stata basata sulla constatazione di una compromissione delle sue facoltà mentali, bensì sull’eccessiva dissolutezza e sul progressivo indebolimento fisico e mentale. Ad ogni modo, la Corte rammenta, per un verso, che, se dal punto di vista dell’articolo 5 della Convenzione, in determinate circostanze, la tutela del benessere di una persona affetta da disturbi mentali possa richiedere la collocazione in un istituto, tuttavia, tale obiettiva necessità non può mai determinare automaticamente l’imposizione di misure di fatto costrittive e, per altro verso, qualsiasi misura protettiva adottata nei confronti di una persona in grado di esprimere la propria volontà dovrebbe riflettere il più possibile quest’ultima. 

Ciò posto, i giudici europei osservano come, a seguito della sottoposizione del secondo ricorrente ad amministrazione di sostegno e, soprattutto dopo la sua collocazione nella RSA, le autorità non avessero in alcun modo tentato di adottare misure finalizzate al mantenimento delle sue relazioni sociali, né di attuare un percorso idoneo a favorirne il reinserimento presso il suo domicilio atteso che il collocamento era stato deciso in via provvisoria. Tutto ciò, senza tenere in alcun modo in conto la situazione concreta in cui l’anziano versava – il quale, per di più, non era stato adeguatamente coinvolto nel procedimento e nel corso del suo ricovero era stato sentito dal giudice tutelare una sola volta – e nonostante l’acquisizione di perizie da cui emergevano risultanze ed esigenze di segno opposto alla soluzione in concreto adottata.

Alla luce di questo quadro, la Corte rimarca come, sebbene il secondo ricorrente non fosse stato dichiarato incapace, né sottoposto a istituti più limitativi, egli si fosse trovato sostanzialmente integralmente privato della propria capacità di agire e posto sotto la completa dipendenza dell’amministratore di sostegno. 

Sulla scorta di tali considerazioni, oltra a concludere per la violazione dell’art. 8 della Convenzione, la Corte, da un punto di vista più generale, sottolinea con preoccupazione come, nel caso di specie, le autorità abbiano, in pratica, «abusato della flessibilità della disciplina dell’amministrazione di sostegno per perseguire finalità che la legge italiana assegna, con limiti rigorosi, al T.S.O., il cui quadro normativo è stato quindi aggirato ricorrendo abusivamente all'amministrazione di sostegno».

Ciò si inserisce – ad avviso della Corte – nell’ambito di una problematica più ampia. In argomento, la Corte richiama conclusivamente, da un lato, i recenti report del Comitato anti-tortura del Consiglio d’Europa (CPT) riguardanti, tra l’altro, anche la visita di residenze sanitarie assistenziali, rispetto alle quali il CPT ha raccomandato «visite regolari da parte dei giudici tutelari dei tribunali territoriali competenti ai residenti delle case di cura poste sotto misure di somministrazione di sostegno». Dall’altro, le preoccupazioni espresse dal Comitato per i diritti delle persone con disabilità circa la pratica della sostituzione nella presa di decisioni attraverso il meccanismo dell’istituto in commento.

Condividendo tali premure, e richiamando altresì la giurisprudenza sviluppata in base alla Carta sociale europea, invita gli Stati a favorire la partecipazione delle persone disabili o degli anziani in situazioni di dipendenza, come nel caso esaminato, impendendone l’isolamento e la segregazione.

 

Sentenza della Corte Edu (Seconda Sezione), 18 luglio 2023, ric. n. 44033/17, D.H. e Altri c. Macedonia del Nord

Oggetto: articolo 3 della Convenzione (divieto di tortura) – arresto di un gruppo di sex workers e loro sottoposizione a un prelievo di sangue in clinica statale – asseriti maltrattamenti in ragione del mancato accesso, durante le 20 ore di custodia, a cibo, bevande, servizi igienici e cure mediche – onere di provare la mancanza del maltrattamento spettante allo Stato.

Articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) – inammissibilità della doglianza relativa al prelievo di sangue, in quanto ingerenza prevista dalla legge, finalizzata a prevenire il reato di diffusione di malattie sessuali, eseguita in modo proporzionato (ordine del giudice istruttore, lesioni minime, consenso delle ricorrenti) – pubblicazione da parte del Ministero dell’Interno, sul proprio sito web, di fotografie scattate alle sex workers all’uscita dalla clinica – mancanza di adeguata motivazione da parte dei giudici nazionali nel rigettare la richiesta di risarcimento. 

 

Le ricorrenti venivano arrestate dalla polizia e, su ordine del giudice istruttore, sottoposte a un prelievo di sangue per individuare malattie sessualmente trasmissibili. Alla seconda ricorrente, veniva diagnosticata l’epatite C. Venivano rilasciate il giorno dopo, per l’ora di pranzo.

Le ricorrenti chiedevano il riesame di legalità dell’arresto, ritenendolo non giustificato, contestando di non essere state informate dei motivi pertinenti, di non aver ricevuto un registro ufficiale degli oggetti sequestrati, né cibo, acqua, servizi igienici e cure mediche, affermando altresì che il prelievo dei campioni di sangue fosse avvenuto senza un ordine del tribunale e che al di fuori della clinica fosse presente una trentina di fotografi. La quarta ricorrente ritirava la propria richiesta.

Il signor D.N. (ispettore di polizia) dichiarava che: solo una persona in custodia aveva chiesto assistenza medica alle 4.20 del mattino e un’ambulanza era stata chiamata dagli agenti di polizia; a tutte le persone in custodia era permesso di utilizzare servizi igienici e ciascuna aveva ricevuto cibo e bevande. 

Il Tribunale penale rigettava le richieste di riesame, valorizzando la dichiarazione rilasciata dal sig. Zh.B (avvocato di uno dei soggetti arrestati), secondo cui il personale di polizia si era comportato in modo corretto; ritenendo accertato che le ricorrenti avessero ricevuto il verbale ufficiale di perquisizione e sequestro, che fossero state informate del diritto a un avvocato, dell’ordine giudiziale di un accertamento medico, che tutte le riprese effettuate nella stazione di polizia fossero state effettuate per scopi interni del Ministero dell’Interno.

Lo stesso anno, l’Agenzia per la protezione dei dati personali accoglieva una richiesta di protezione dei dati personali nei confronti di tredici persone, tra cui la prima ricorrente, rilevando che quattro media avevano pubblicato fotografie e video in violazione dei loro diritti alla protezione dei dati personali.

Quattordici persone, tra cui le ricorrenti, presentavano un’azione civile contro il Ministero chiedendo il risarcimento dei danni derivanti dal maltrattamento e dalla violazione del diritto alla privacy.

Il Tribunale civile di primo grado accoglieva le richieste delle ricorrenti, riconoscendo loro un risarcimento, anche alla luce dell’art. 8 della Convenzione (la polizia era venuta meno al suo dovere di proteggere la privacy, non mettendo in sicurezza i locali e non allontanando i giornalisti) e dell’art. 3 (alle ricorrenti non erano stati forniti cibo, acqua o accesso ai servizi igienici per venti ore).

La Corte d’appello ribaltava la sentenza e rigettava le richieste delle ricorrenti, ritenendo che: la durata della detenzione fosse legittima; non vi fossero carenze nelle operazioni di perquisizione e sequestro; le dichiarazioni delle ricorrenti fossero contraddittorie e indimostrate; le ricorrenti avessero acconsentito al prelievo di campioni di sangue; le autorità di polizia non avessero alcuna responsabilità nell’esporre le ricorrenti alla stampa durante la loro visita in clinica.

Nel 2010, la seconda ricorrente veniva condannata per diffusione di malattie infettive, pena sospesa.

Le ricorrenti adivano la Corte di Strasburgo lamentando la violazione degli artt. 3 e 8 della Convenzione.

La Corte ritiene la violazione dell’art. 3 in ordine alla presunta mancanza di accesso a cibo, acqua e servizi igienici. Stante la difformità della ricostruzione dei fatti ad opera delle parti, occorre considerare che, da una parte, le ricorrenti appartenevano a un gruppo di persone “vulnerabili” secondo il diritto internazionale; dall’altra, spettava al Governo convenuto provare i fatti. La Corte d’Appello, contraddicendo quanto stabilito dal giudice di primo grado, si era limitata ad affermare che le dichiarazioni delle ricorrenti erano contraddittorie, senza spiegare quali fossero le contraddizioni nel merito; sembra invero essersi assestata sulle conclusioni raggiunte dal giudice istruttore. Le dichiarazioni dei sigg. D.N. e Zh.B. non erano sufficienti a controbilanciare i fatti descritti dalle ricorrenti (confermate dalle altre persone arrestate); in particolare, il signor Zh.B. aveva lasciato la stazione di polizia intorno all’una di notte, dunque non avrebbe potuto assistere agli eventi successivi. 

Viceversa, in ordine alla mancanza di cure mediche adeguate presso la stazione di polizia (doglianza non formulata dalla prima ricorrente), la Corte esclude la violazione rilevando che: la seconda ricorrente aveva dichiarato al giudice istruttore di aver rifiutato l’assistenza medica; la terza ricorrente, benché soffrisse di ipertensione arteriosa, aveva richiesto alla polizia alcuni farmaci senza render nota la propria patologia e, durante il prelievo di campioni di sangue, le era comunque stato somministrato un farmaco appropriato;  la quarta ricorrente non aveva chiesto assistenza medica e, benché vomitasse, in quanto eroinomane, nulla suggeriva la gravità delle sue condizioni né la necessità di un trattamento medico urgente. 

Nell’ottica dell’art. 8 della Convenzione, la valutazione della Corte concerne due profili: il prelievo di campioni di sangue e la pubblicazione di fotografie delle ricorrenti sul sito web del Ministero e da parte di alcuni organi di informazione.

La censura relativa al primo profilo è inammissibile perché del tutto infondata. Il prelievo di un campione di sangue, misura che interferisce col diritto alla privacy, si fondava sulla legge e perseguiva la finalità legittima di tutelare la salute pubblica attraverso la prevenzione della criminalità, finalità perseguita in modo proporzionato: i ricorrenti erano stati arrestati per il ragionevole sospetto del reato di diffusione di malattie sessualmente trasmissibili; il prelievo era stato ordinato da un giudice istruttore; gli effetti del prelievo sono molto brevi e non provocano intense sofferenze fisiche o mentali; alcune ricorrenti avevano acconsentito al prelievo; i risultati del prelievo non sono stati diffusi.

L’esame di merito attiene solo alla diffusione delle fotografie delle ricorrenti, le quali lamentavano, da una parte, che le autorità di polizia avevano informato i media della loro visita alla clinica (il che aveva portato allo scatto e alla pubblicazione delle fotografie su alcuni media); dall’altra, che il Ministero aveva pubblicato le fotografie scattate mentre erano sotto custodia.

Quanto alla prima doglianza, non è emersa la diretta responsabilità della polizia per lo scatto e la successiva pubblicazione: oltre a non esservi prova che le fotografie provenissero da autorità statali, le medesime erano state scattate in un’area pubblica, a cui la stampa aveva accesso illimitato.

Quanto, invece, alla pubblicazione sul sito web del Ministero, mentre i giudici di primo grado avevano ritenuto la lesione, la Corte d’appello non aveva affrontato la questione, pur ribaltando le conclusioni della sentenza impugnata. L’eccezione del Governo convenuto secondo cui l’identità delle ricorrenti fosse rimasta nascosta non trova riscontro. In conclusione, i giudici nazionali sono venuti meno all’obbligo di tutelare il diritto delle ricorrenti al rispetto della loro vita privata.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 31 agosto 2023, ric. n. 63664/19, M.A. e Altri c. Francia (decisione di ammissibilità)

Oggetto: articolo 34 della Convenzione (ricorsi individuali) – nozione di “vittima” – vittima potenziale – legittimazione dei sex workers ad agire contro una disciplina legislativa che criminalizza il cliente dell’attività di prostituzione.

 

La decisione autonoma di ammissibilità è resa dalla Corte con riferimento ai ricorsi complessivamente presentati da 291 sex workers di varie nazionalità, che lamentano la violazione dei loro diritti all’integrità psico-fisica e al rispetto della vita privata, quest’ultimo con particolare riguardo al diritto all’autodeterminazione personale e alla libertà sessuale, in ragione dell’adozione, da parte della Francia, di un modello di disciplina della prostituzione c.d. “neo-proibizionista”. Difatti, con la legge 13 aprile 2016, n. 2016-444, è stato introdotto nel codice penale l’art. 611-1, che punisce con pena pecuniaria il cliente della persona che si prostituisce, a prescindere dal carattere forzato, o meno, dell’attività della prima.

I ricorrenti, insieme al sindacato dei sex workers e ad alcune ONG, si erano rivolti al Conseil d’État per chiedere l’annullamento, per abuso di potere, della decisione implicita del Primo Ministro che aveva respinto la loro richiesta di annullamento del decreto n. 2016-1709 del 12 dicembre 2016, recante la regolamentazione attuativa dello stage di sensibilizzazione alla lotta al mercimonio di atti sessuali, sanzione accessoria introdotta all’ art. 131-16 c.p. applicata in caso di condanna. Nel corso del processo, il supremo giudice amministrativo, su istanza dei ricorrenti, sollevava una questione prioritaria di costituzionalità dinanzi al Conseil constitutionnel , avente ad oggetto gli artt. 225-12-1 e 611 c.p.

A seguito della decisione del Giudice costituzionale, resa a favore della compatibilità costituzionale delle disposizioni richiamate, e della conseguente sentenza di rigetto del Conseil d’État, i ricorrenti si rivolgevano alla Corte EDU, adducendo la violazione degli artt. 2, 3 e 8 della Convenzione.

Nel dichiarare l’ammissibilità del ricorso, la Corte ha anzitutto ricordato che, sebbene nel sistema convenzionale non sia ammessa la c.d. actio popularis, un individuo può comunque essere considerato alla stregua di “vittima potenziale” a motivo di una disciplina che, pur non avendo ancora trovato concreta applicazione nei suoi confronti, lo induce a modificare il proprio comportamento perché, ad esempio, rientra nella categoria di persone che rischiano di essere direttamente colpite dalla sanzione penale introdotta dalla legislazione in questione. 

A questo riguardo, la Corte, dopo aver rilevato che i ricorrenti non rientrano tra i soggetti in astratto destinatari della sanzione penale di cui alla legge n. 2016-444 e, a prima vista, neppure subiscono direttamente i suoi effetti; nondimeno, ribadisce che, per tutelare in maniera efficace e non meramente illusoria i diritti garantiti dalla Convenzione, occorre interpretare in modo flessibile la nozione di “vittima” e, allo stesso modo, la natura “diretta” degli effetti che una certa normativa può dispiegare sulla categoria di persone alla quale appartenga il ricorrente il quale, pertanto, benché non incluso nella sfera applicativa della misura legislativa indubbiata, avrà interesse a che la stessa sia espunta dall’ordinamento. In proposito, richiama, tra gli altri, i precedenti Open Door e Dublin Well Woman c. Irlanda e Vallianatos e altri c. Grecia (per vero, meno pertinente).

Da quest’ultimo punto di vista, la Corte puntualizza come, in determinate circostanze, un individuo possa essere legittimato ad agire dinanzi alla Corte, assumendo di essere “vittima”, ai sensi dell’art. 34 CEDU, in conseguenza di una misura legislativa che, pur non essendogli astrattamente direttamente applicabile, determina comunque effetti che incidono direttamente sul godimento dei diritti di cui lamenta la violazione. È ciò che accade, ad avviso della Corte, nella vicenda esaminata: se è vero, infatti, che l’articolo 611-1 del codice penale francese punisce il cliente della persona che offre la prestazione sessuale dietro pagamento, è inevitabile – anzi, è evidentemente intenzione del legislatore della riforma – che gli effetti della norma penale si riverberino anche e soprattutto sulla seconda; determinando, secondo i ricorrenti, maggiori rischi per la sua incolumità e pregiudicandone la libertà di autodeterminazione, in violazione degli articoli 2, 3 e 8 della Convenzione.

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
 
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

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