1. Il caso Marinoni c. Italia
Nel caso Marinoni c. Italia, la Corte EDU ha ritenuto che la condanna agli effetti civili dell’autore di un’opera giudicata diffamatoria dal giudice penale, ma non punibile per essere la condotta scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca e critica storica, non violi gli artt. 6 § 2e 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, sotto il profilo del rispetto del principio della presunzione di innocenza e della libertà di espressione.
Il ricorrente era stato chiamato a rispondere del reato di diffamazione a mezzo stampa, quale autore della pubblicazione di un’opera di “microstoria” – caratterizzata, cioè, dalla sovrapposizione del racconto storico con la storia personale dell’autore – avente ad oggetto la ricostruzione dei fatti noti come “la strage di Rovetta”, dal titolo La terrazza sul cortile. I fatti di Rovetta del 28 aprile 1945 nei ricordi di un bambino.
Secondo l’accusa, Nazareno Marinoni avrebbe attribuito alla sig.ra G.G. la responsabilità di aver inserito il nome di suo nonno nell’elenco degli arrestati e fucilati, come rappresaglia per un possibile attacco contro le forze di occupazione tedesche, sicché gli eredi della sig.ra G.G. avevano sporto querela nei confronti di Marinoni per il reato di diffamazione.
Il G.U.P. di Bergamo, pur ritenendo oggettivamente diffamatoria l’affermazione riportata dal Marinoni, aveva riconosciuto l’operatività, nel caso di specie, della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca e critica storica giacché, l’opera incriminata aveva il merito di riferire una versione alternativa della “strage di Rovetta”, chiarendo il ruolo dei servizi militari britannici[1].
La sentenza assolutoria del G.U.P. di Bergamo, però, veniva successivamente impugnata dalle parti civili costituite ai soli fini civili. La Corte di appello di Brescia, nel confermare la decisione del G.U.P. di Bergamo aveva, in effetti, riconosciuto l’ingiustizia del danno cagionato alle stesse parte civili dalla pubblicazione di notizie che, seppur espressione del diritto di cronaca e critica storica, risultavano pur sempre diffamatorie.
Il ricorrente presentava, dunque, ricorso per cassazione lamentando, tra l’altro, il carattere contraddittorio della motivazione della sentenza resa dalla Corte territoriale, adducendo l’esistenza di elenchi redatti dalle forze di occupazione in quel periodo storico. Con sentenza del 24 ottobre 2011, la Corte di cassazione respingeva il ricorso e il ricorrente adiva, così, la Corte di Strasburgo, lamentando la violazione degli artt. 6 § 2e 10 della Convenzione.
2. La sentenza della Corte Edu
Con la sentenza Marinoni c. Italia, del 18 novembre 2021, la Corte Edu ha dichiarato che le decisioni dei giudici italiani di merito e di legittimità sono conformi agli artt. 6 § 2e 10 della Convenzione.
Per vagliare la presunta violazione di tali norme convenzionali, sotto i rispettivi profili della presunzione di innocenza e della libertà di espressione, la Corte Edu si è avvalsa di due specifici precedenti affrontati nelle sentenze Allen c. Gran Bretagna del 12luglio 2013 e, per quanto concerne la violazione dell’art. 10 CEDU, Fatullayev c. Azerbaigian del 22 aprile 2010.
Ai fini della violazione dell’art. 6 § 2 della Convenzione, la Corte di Strasburgo ha chiarito che è necessario tenere conto della natura e del contesto del procedimento nel quale le autorità nazionali pronunciano dichiarazioni o assumono decisioni.
Siccome lo scopo della norma convenzionale è quello di garantire che ciascun individuo sia ritenuto innocente fino a prova contraria, le autorità nazionali sono tenute a trattare qualsiasi persona che sia stata assolta o comunque non dichiarata colpevole, come se fosse innocente.
Da tale prospettiva la Corte di Strasburgo ha osservato come le norme italiane che consentono alla parte civile di impugnare le sentenze di proscioglimento ai soli fini civili, non contrastano con l’art. 6 § 2 della Convenzione, considerata la diversità tra i criteri di accertamento della responsabilità civile e quelli di accertamento della responsabilità penale dell’imputato.
Nel caso Marinoni c. Italia, infatti, la Corte Edu rileva come sia stata esclusa la punibilità del ricorrente perché, agendo nel legittimo esercizio del diritto di cronaca e critica storica, ha beneficiato della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p.; tuttavia, considerato il carattere di “microstoria” dell’opera, la parte della narrazione attribuita ai soli ricordi personali dell’autore doveva ritenersi effettivamente lesiva della reputazione della sig. G.G., tant’è che i giudici nazionali gli hanno attribuito la responsabilità civile per i danni cagionati dalla pubblicazione stessa.
Per la Corte di Strasburgo, dunque, Nazareno Marinoni è stato assolto nel procedimento penale ed è stato trattato come imputato assolto – conformemente a quanto stabilito nella sentenza Allen c. Gran Bretagna – anche a seguito della sentenza della Corte di Appello di Bergamo che lo aveva condannato al risarcimento dei danni provocati dal fatto illecito della pubblicazione.
Ciò in quanto – chiariscono i Giudici convenzionali –le corti nazionali si sono limitate a giudicare secondo le regole della responsabilità civile, senza rimettere in discussione l’assoluzione del ricorrente.
Per quanto concerne, poi, la presunta violazioni dell’art. 10 della CEDU, la Corte Edu, premettendo che la ricerca della verità storica è parte integrante della libertà di espressione convenzionalmente tutelata, specialmente se il dibattito storico-critico attenga a fatti di particolare gravità che possono integrare crimini di guerra o crimini contro l’umanità, ha però evidenziato come, tenuto conto dell’importo della condanna al risarcimento dei danni e della gravità dei fatti attribuiti alla sig.ra G.G. dalla pubblicazione, l’ingerenza nella libertà di espressione da parte dei giudici nazionali non fosse tale da ravvisare la violazione dei principi sovranazionali.
3. La strage di Rovetta nella giurisprudenza nazionale in materia di diffamazione
Il caso sottoposto alla Corte EDU riguarda il racconto di uno stralcio piuttosto controverso della storia della Resistenza in Italia, risalente al 28 aprile 1945 quando furono fucilati quarantatré militari della divisione “Tagliamento”, inquadrata nell’esercito della Repubblica di Salò.
Si trattava di ragazzi compresi tra i quindici e i ventidue anni, che si erano arruolati nell’esercito del Nord-Italia, ricostituito dopo la liberazione di Mussolini, per continuare la guerra al fianco dei tedeschi.
Il giorno precedente i militari in questione – saputa della ritirata tedesca e dell’uccisione di Mussolini – si erano consegnati al CNL di Rovetta con la promessa di aver salva la vita. Il giorno 28 aprile, però, giunsero in paese partigiani delle brigate “Camozzi” e i quarantatré militi della divisione “Tagliamento” furono, poco dopo, fucilati.
Negli anni successivi fu aperta un’inchiesta penale per individuare irresponsabili dell’eccidio, terminata con sentenza del 21 aprile 1951 della Sezione Istruttoria della Corte d'Assise di Brescia, con cui venne dichiarato non doversi procedere nei confronti di vari imputati perché, fu statuito, si trattava di fatti non punibili ai sensi del D.D.L. 12 aprile 1945, n. 194 in quanto fatti considerati parte di un’azione di guerra[2].
La vicenda storica è stato oggetto di diversi approfondimenti storiografici e, almeno in un caso analogo, i giudici italiani hanno dovuto affrontare la medesima questione relativa ad una ipotesi di diffamazione a mezzo stampa, legata al racconto dei fatti di Rovetta.
In quel caso, si discuteva della natura diffamatoria o meno dell’opera intitolata I giorni alti – Bepi Lanfranchi e i suoi compagni, edito nel 2011, nel quale si accostava a tale Tartaglia – corresponsabile della strage di Rovetta – il nome di un soggetto ritenuto estraneo alla vicenda e di cui si lamentava l’offesa alla memoria.
La Corte di Appello di Brescia, in riforma della sentenza assolutoria di primo grado, aveva condannato l’imputato per il reato di diffamazione a mezzo stampa, quale autore dell’opera I giorni alti – Bepi Lanfranchi e i suoi compagni, non ravvisando l’applicazione della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p.
La Cassazione – investita della questione dal ricorso proposto dall’imputato – aveva rilevato, invece, come la pubblicazione dell’opera dovesse essere scriminata proprio dal legittimo esercizio del diritto di cronaca e critica storica, giacché se è vero che il diritto di critica storica postula l’uso del metodo scientifico, il quale implica l’esaustiva ricerca del materiale utilizzabile, lo studio delle fonti di provenienza e il ricorso ad un linguaggio corretto e scevro da polemiche personali, è anche vero che «il risultato della ricerca storica non è più o meno diffamatorio a seconda che sia corretto o condivisibile, né che lo storico debba essere giudicato, in sede penale, per la valentia nella ricerca o per la perspicacia nei giudizi, trattandosi di aspetti che attengono alla dotazione intellettuale dell’interessato, su cui nessuna valutazione è consentita al giudice penale»[3].
In altri termini, la giurisprudenza nazionale, attraverso tali decisioni, ha avuto modo di chiarire come le opere che ambiscono a ricostruire storie complesse e articolate, come quella della Resistenza italiana, devono essere valutate alla luce della complessiva ricostruzione delle vicende operata dall’autore e di tutte le informazioni da lui fornite, al fine di accertare l’eventuale carattere pretestuoso del giudizio, tale da ledere l’altrui reputazione.
4. Conclusioni
La sentenza Marinoni consente di soffermarsi su almeno due aspetti.
Quanto alla presunzione di innocenza, la decisione della Corte Edu si colloca nel solco dei precedenti e della giurisprudenza costituzionale nazionale, giungendo, nel caso concreto, ad affermare che i giudici nazionali non hanno utilizzato termini idonei a rimettere in discussione l’assoluzione penale del ricorrente, non violando, così la sua presunzione di innocenza.
La Corte costituzionale, infatti, con la recente sentenza n. 182/2021, ha affermato che quando il processo penale ha superato il primo grado ed è nella fase dell’impugnazione, la parte civile ha comunque diritto a vedersi soddisfatte le pretese risarcitorie in quella stessa sede.
Tale impostazione non viola il diritto dell’imputato alla presunzione di innocenza come declinato nell’ordinamento convenzionale dalla giurisprudenza della Corte Edu e come riconosciuto nell’ordinamento dell’Unione europea, giacché nella situazione processuale che vede il reato scriminato per la sussistenza di una causa di giustificazione e quindi l’imputato dichiarato non punibile, il giudice – sebbene in sede penale – non è più chiamato a formulare un giudizio di colpevolezza penale quale presupposto della decisione, di conferma o di riforma, sui capi della sentenza impugnata che concernono gli interessi civili, dovendo solo accertare se sia integrata la fattispecie civilistica dell’illecito aquiliano (art. 2043 c.c.).
Quello della sede di accertamento della responsabilità civile è un aspetto che, peraltro, la riforma “Cartabia” – introdotta con legge n. 134/2021 – ha affrontato con specifico riferimento ad una analoga casistica, introducendo il comma 1bis nell’art. 578 c.p.p., secondo cui, in caso di conclusione del processo penale con declaratoria di improcedibilità per superamento dei termini di cui all’art. 344-bisc.p.p., sarà sempre e solo il giudice civile ad occuparsi del prosieguo della azione civile, pur valutando le prove acquisite nel processo penale, evidentemente alla stregua delle finalità e dei criteri di accertamento processualcivilistici.
[1] In tal senso, cfr., Corte Edu, 18 novembre 2021, Marinoni c. Italia, § 7.
[2] In tal senso, cfr. Cass. pen., Sez. V, 17 ottobre 2019, n. 42755.