Le pronunce di giugno della Corte Edu qui selezionate riguardano l’ammissibilità dell’istanza di ricusazione nel procedimento di prevenzione, la legittimità dell’ammonimento del questore per atti persecutori, nonché il principio iura novit curia dinanzi alla Corte di Cassazione.
In Urgesi e Altri c. Italia, la Corte di Strasburgo accerta la violazione del diritto a un tribunale imparziale nell’ambito di un procedimento di prevenzione in cui il giudice relatore della Corte di appello aveva già rivestito il ruolo di pubblico ministero nel procedimento penale a carico dei proposti, rintracciando gli indizi di pericolosità, generica e qualificata, dai fatti posti a fondamento dell’accusa. Invero, l’esperibilità dell’istanza di ricusazione nel procedimento di prevenzione è stata confermata dalle Sezioni Unite solo a febbraio 2022, grazie a un’interpretazione coerente, se non estensiva, dell’intervento costituzionale n. 283/2000 (sull’esperibilità dell’istanza di ricusazione in caso d’incompatibilità per partecipazione dello stesso giudice a procedimenti diversi).
In Giuliano Germano c. Italia, la Corte ritiene che le autorità nazionali non avessero fornito ragioni pertinenti e sufficienti per emettere l’ammonimento di cui all’articolo 8 del d.l. n. 11/2009, in materia di atti persecutori. L’autorità di polizia non aveva fornito al ricorrente, destinatario della misura, l’adeguata protezione legale contro gli abusi, tra cui la possibilità di essere sentito. Anche il controllo giurisdizionale effettuato dalle autorità giudiziarie non è stato valutato come idoneo a sopperire alle mancanze dell’autorità di polizia. L’interferenza col suo diritto alla vita privata e familiare non poteva quindi dirsi «necessaria in una società democratica».
Infine, in Ben Amamou c. Italia, la Corte stigmatizza la possibilità, per la Corte di cassazione, di rigettare un ricorso in forza, principalmente, di una questione giuridica rilevata d’ufficio.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 8 giugno 2023, ric. n. 46530/09, Urgesi e Altri c. Italia
Oggetto: articolo 6 § 1 della Convenzione (equo processo) – aspetto civile – mancanza di imparzialità della corte d’appello nell’ambito di un procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione – giudice relatore del collegio di prevenzione già pubblico ministero nel grado di appello del procedimento penale – esame di questioni sostanzialmente identiche o strettamente connesse – timori di parzialità oggettivamente giustificati – mancata eliminazione del vizio da parte della Corte di cassazione.
I primi tre ricorrenti venivano condannati dal Tribunale di Taranto in relazione a una serie di attività criminali commesse da un’associazione a delinquere operante in Puglia. Tra le accuse, risultavano i reati di usura, estorsione, appartenenza ad associazione a delinquere o di tipo mafioso.
In appello, il terzo ricorrente patteggiava e, condannato, subiva altresì la confisca di alcuni beni; nei confronti del primo e del secondo ricorrente, il procedimento seguiva il rito ordinario, in pubblica udienza, sino alla conferma della condanna, ritenuta legittima anche dalla Corte di cassazione.
U.M., pubblico ministero nel procedimento di appello, concludeva il patteggiamento con il terzo ricorrente e rappresentava l’accusa contro il primo e il secondo ricorrente.
Pendente il procedimento penale, la Procura della Repubblica di Taranto chiedeva l’applicazione di misure di prevenzione per ciascuno dei tre ricorrenti.
Il Tribunale di Taranto, Sezione misure di prevenzione, sottoponeva i primi tre ricorrenti alla sorveglianza speciale di polizia e ordinava la confisca di beni appartenenti sia ai proposti che agli altri cinque ricorrenti, terzi nel procedimento di prevenzione.
La pericolosità sociale veniva ritenuta in base agli indizi di appartenenza ad associazione di tipo mafioso nei confronti del secondo e del terzo ricorrente, di usura nei confronti del primo ricorrente, ricavati dall’istruttoria svolta nel procedimento penale summenzionato e da altri precedenti.
I ricorrenti impugnavano il decreto di prevenzione dinanzi alla Corte d’appello di Lecce, del cui collegio il giudice U.M. risultava relatore. In udienza, le parti chiedevano a U.M. di astenersi ai sensi dell’art. 36, co. 1, lett. h) c.p.p. Tuttavia, l’istanza di astensione presentata dal giudice U.M. per «gravi ragioni di convenienza» veniva rigettata dal presidente della Corte d’appello, non ravvisando alcuno dei casi di astensione previsti dalla legge.
Le misure di prevenzione venivano confermate sia dalla Corte d’appello che dalla Corte di cassazione, la quale, in relazione al motivo di parzialità, riteneva, da un lato, che le affermazioni del pubblico ministero non pregiudicassero in alcun modo l’esito del processo penale e, dall’altro, che le valutazioni effettuate nell’ambito del procedimento penale e di quello preventivo riguardassero questioni distinte.
I ricorrenti adivano la Corte di Strasburgo lamentando l’iniquità del procedimento di prevenzione in ragione della mancanza di udienza pubblica e della violazione del diritto a un tribunale imparziale.
Il Governo italiano presentava una dichiarazione unilaterale ove riconosceva la violazione del diritto all’udienza pubblica, stante la pertinente e consolidata giurisprudenza convenzionale, e proponeva un risarcimento; benché non accettata dai ricorrenti, veniva ritenuta ragionevole dalla Corte.
Sotto il profilo dell’ammissibilità, il Governo eccepiva il mancato esaurimento dei rimedi interni, nello specifico il mancato deposito dell’istanza di ricusazione ex art. 37, co. 1, c.p.p., come interpretato dalla sentenza costituzionale n. 283/2000, secondo cui i giudici possono essere ricusati a causa della loro partecipazione a procedimenti separati, e dalla Corte di cassazione, citandone pronunce che avevano riconosciuto l’ammissibilità dell’istanza di ricusazione nei procedimenti di prevenzione; il Governo giustificava l’assenza di precedenti relativi alla funzione di pubblico ministero, piuttosto che di giudice, rilevandone la rarità. I ricorrenti, d’altronde, evidenziavano l’incertezza della giurisprudenza richiamata dalla parte pubblica.
La Corte di Strasburgo rileva il disaccordo delle parti circa l’ammissibilità dell’istanza di ricusazione nel procedimento preventivo. La sentenza costituzionale n. 283/2000 riguardava giudici chiamati a pronunciarsi sulla responsabilità di un imputato e già pronunciatisi nel procedimento di prevenzione sugli stessi fatti e sulle stesse persone, dunque una situazione opposta a quella degli attuali ricorrenti. Inoltre, le sentenze richiamate dalle parti mostrano che la questione in oggetto non ha dato luogo a un contrasto giurisprudenziale fino al 2008: il Governo non ha fornito alcuna prova per dimostrare che, nel 2004, momento in cui i ricorrenti avrebbero dovuto presentare la domanda di ricusazione, tale rimedio sarebbe stato efficace nei procedimenti preventivi. Il rigetto dell’istanza di astensione da parte del presidente della Corte d’appello conferma la necessità di rigettare l’eccezione governativa.
Nel merito, i criteri di valutazione dell’imparzialità sono stati riassunti dalla Grande Camera in Ramos Nunes de Carvalho e Sá c. Portogallo (n. 55391/13 e altri 2, §§ 145-149, 6 novembre 2018): l’imparzialità deve essere valutata soggettivamente, tenendo conto delle convinzioni personali e del comportamento del giudice, vale a dire, accertando se il giudice abbia dimostrato un pregiudizio o un’inclinazione personale nel caso specifico, nonché secondo un approccio oggettivo che consiste nel determinare se il tribunale offra, attraverso la sua composizione, garanzie sufficienti per escludere qualsiasi dubbio legittimo sulla sua imparzialità. Nella prima ipotesi, soggettiva, l’imparzialità personale di un giudice è presunta in assenza di prova contraria; nella seconda, oggettiva, ove applicata in relazione a un collegio, devono essere allegati fatti verificabili che consentano di mettere in discussione l’imparzialità di un membro. La valutazione oggettiva si riferisce principalmente a situazioni di natura funzionale, in cui non è in discussione la condotta personale del giudice, ma in cui, ad esempio, l’esercizio da parte della stessa persona di diverse funzioni nell’ambito del procedimento giudiziario, o legami gerarchici o di altro tipo con altro attore del procedimento, fanno sorgere dubbi oggettivamente giustificati.
Nel caso di specie, il ricorso deve essere esaminato esclusivamente sotto il profilo oggettivo, tenendo conto dei seguenti elementi: (i) la circostanza che l’imparzialità fosse discussa nei confronti di uno solo di tre giudici non è decisiva, posto che U.M. svolgeva la funzione di relatore, sicché la sua partecipazione era determinante per il collegio; (ii) U.M. aveva presentato a sua volta un’istanza di astensione; (iii) la pericolosità sociale dei ricorrenti era stata accertata sulla base di indizi relativi a fatti di cui U.M. aveva accusato i medesimi ricorrenti nel procedimento penale (minor peso riveste la circostanza che l’ampiezza degli indizi e del giudizio fosse diversa tra procedimento penale e preventivo); (iv) lo svolgimento del ruolo di accusa (seppur insieme ad altri giudici requirenti) postula la manifestazione di un’opinione sulla responsabilità penale (benché al pubblico ministero non spetti decidere sulla colpevolezza); (v) la Corte di cassazione, rigettando il motivo di ricorso relativo all’imparzialità della Corte d’appello, non ha posto rimedio alla violazione in esame.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 22 giugno 2023, ric. n. 10794/12, Giuliano Germano c. Italia
Oggetto: articolo 8 della Convenzione (vita privata e familiare) - Ammonimento di polizia imposto al ricorrente nell’ambito di un procedimento di prevenzione dello stalking – Adeguatezza della tutela giuridica contro gli abusi - Assenza di un termine di efficacia dell’ammonimento e del diritto di ottenerne il riesame o la revoca – Partecipazione del ricorrente al processo decisionale e esclusione per comprovate ragioni di urgenza – Controllo giurisdizionale sul fondamento fattuale e giuridico della misura
Il ricorrente lamenta di aver subito un sacrificio della sua sfera privata e familiare a causa dell’emissione nei suoi confronti di un provvedimento di ammonimento ai sensi dell’articolo 8 del d.l. n. 11 del 23 febbraio 2009 («Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori»).
La moglie del ricorrente lasciava infatti la casa di famiglia con la figlia di sette anni e, tre giorni dopo, presentava una denuncia penale, poi ritirata, contro il marito per i maltrattamenti che, a suo dire, egli le aveva inflitto la notte in cui se ne era andata. Qualche tempo dopo la moglie sporge un’altra denuncia in cui afferma che il ricorrente aveva molestato lei, la babysitter di sua figlia e alcuni amici con telefonate e messaggi di testo al fine di controllare la sua vita privata e di isolarla dalle sue relazioni.
In quella occasione la moglie ha chiesto che il ricorrente fosse ammonito dal questore competente. La polizia ha aperto un’inchiesta e ha raccolto numerose testimonianze da parte delle persone citate nella denuncia. Tra le persone sentite alcune hanno confermato la versione dei fatti della moglie del ricorrente mentre altri no. Viste le circostanze e, soprattutto, il fatto che era in corso un procedimento penale contro il ricorrente per aggressione fisica, il questore ha emesso nei suoi confronti un ammonimento a rispettare la legge e a non ripetere il tipo di comportamento persecutorio, rammentando che qualsiasi reiterazione dello stesso avrebbe comportato la procedibilità d’ufficio del reato di atti persecutori ex articolo 612 bis c.p. e che alla sanzione penale derivante dall’eventuale condanna sarebbe stata applicata automaticamente la circostanza aggravante prevista dalla legge.
Il ricorrente ha presentato ricorso contro il provvedimento, lamentando di non essere stato avvisato della richiesta di ammonimento e quindi di non aver potuto fornire la sua versione dei fatti, che l’ammonimento mancava di motivazione, che le indagini svolte dalla polizia erano imprecise e che non erano state soddisfatte le condizioni legali per l’imposizione dell’ammonimento. Ha inoltre sollevato la questione della costituzionalità della legge specifica, sostenendo che era in contrasto con il principio del contraddittorio, i diritti di difesa e la parità delle armi. Ha anche chiesto un risarcimento per il danno che sosteneva di aver subito. Il tribunale amministrativo ha respinto la richiesta di sospensione dell’ordine di custodia cautelare in attesa dell’eventuale appello ma ha ritenuto che i diritti di partecipazione e di difesa del ricorrente fossero stati violati. Di conseguenza, ha annullato l’ammonimento del questore.
Il Ministero dell’Interno ha presentato ricorso al Consiglio di Stato sostenendo che il tribunale di primo grado non aveva considerato che l’urgenza di un procedimento di prevenzione dello stalking giustificasse l’assenza di coinvolgimento del destinatario dell’ammonimento, il quale sarebbe stato emesso in ogni caso anche dopo aver sentito il ricorrente, poiché l’autorità di polizia locale aveva ritenuto fondata la richiesta della moglie. Il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso del Ministero e ha confermato l’ammonimento della polizia. Nonostante l’ammonimento determinasse un’interferenza nella sfera privata del ricorrente, l’obiettivo della misura era quello di proteggere la moglie da un danno potenzialmente grave e irreparabile. Il Consiglio di Stato ha quindi ritenuto che il fatto che il ricorrente non fosse stato informato preventivamente del procedimento amministrativo e non avesse avuto la possibilità di essere ascoltato non determinava una violazione dei suoi diritti di partecipazione. In ogni caso, avrebbe potuto ottenere un riesame completo della decisione rivolgendosi direttamente all’autorità di polizia o presentando un ricorso al prefetto locale. Ha inoltre osservato che l’ammonimento non era privo di motivazione e non era infondato, poiché le indagini intraprese dalla polizia avevano dimostrato il comportamento offensivo e intimidatorio del ricorrente nei confronti della moglie.
Di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il ricorrente ha lamentato la violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata, professionale e familiare) e dell’articolo 6 § 1 (diritto a un equo processo) della Convenzione, sul presupposto che la misura avrebbe potuto pregiudicare la sua vita privata e familiare, in particolare, ostacolando la possibilità di avere contatti con la figlia e seriamente danneggiando la sua reputazione come individuo e come avvocato. Dal punto di vista del difetto di legalità, la disciplina dell’ammonimento non sarebbe stata sufficientemente chiara da consentirgli di comprendere quale comportamento da parte sua avrebbe potuto evitare l’emissione dell’ammonimento o cosa avrebbe dovuto fare una volta emesso per evitare gli effetti in termini di aggravamento della pena che ne potevano derivare. Inoltre, sul piano della proporzionalità, il ricorrente lamentava l’assenza di sufficienti garanzie procedurali in quanto non era stato ascoltato in sede di emissione del provvedimento, non era stata fornita una motivazione adeguata e sufficiente a sostegno della misura e, infine, il controllo giurisdizionale sulla fondatezza della decisione di emettere l’ammonimento era stato inadeguato.
La Corte europea in premessa ha ribadito che nei casi che sollevano questioni di violenza domestica, gli Stati hanno il dovere, ai sensi degli articoli 2, 3 e 8 della Convenzione, di adottare misure per proteggere le vittime, o le potenziali vittime, da rischi reali e immediati per la loro vita e da danni fisici e psicologici. Nell’individuare le misure da adottare le autorità devono operare un’attenta ponderazione dei diritti in gioco, garantendo che esercizio dei poteri di polizia avvenga nel pieno rispetto del giusto processo. In questa fattispecie, assume rilevanza la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (la “Convenzione di Istanbul”) che l’Italia ha ratificato.
Rispetto al requisito della legalità della misura, la Corte ha riconosciuto che l’ammonimento della polizia aveva una base nel diritto nazionale, vale a dire l’articolo 8 del d.l. n. 11/2009, che mirava a combattere la violenza sessuale e lo stalking. La Corte ha ritenuto che tale testo fosse sufficientemente chiaro da impedire l’arbitrarietà. Per emettere un ammonimento non era necessaria una prova conclusiva della commissione di un reato, ma erano sufficienti seri motivi per ritenere che il comportamento vietato dall’articolo 612-bis del Codice penale fosse avvenuto e potesse avvenire in futuro. Inoltre, poiché la polizia doveva indicare le ragioni di fatto e di diritto che giustificavano la misura nel verbale che accompagnava l’ammonimento, la Corte ha ritenuto che tale obbligo consentisse ai tribunali amministrativi competenti di esercitare sufficientemente il loro controllo giurisdizionale.
Invece, la Corte ha ritenuto problematica l’assenza di un termine di efficacia della misura unita all’impossibilità di ottenere un riesame o la revoca della misura per sopraggiunto venir meno delle circostanze di fatto giustificative della sua emissione. Data la gravità dell’interferenza, l’assenza di un termine di efficacia e la mancata partecipazione al procedimento, la Corte ha ritenuto che in questo caso fosse necessario uno scrutinio rigoroso. L’articolo 53, paragrafo 2, della Convenzione di Istanbul stabiliva che gli ordini restrittivi o di protezione nei casi di violenza domestica dovevano essere “emessi per un periodo determinato o fino a quando non fossero modificati o revocati”. Tuttavia, questo fattore da solo non poteva portare alla conclusione che l’ingerenza in questione non fosse “conforme alla legge”, ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione. Nel valutare se le istruzioni impartite al ricorrente fossero state sufficientemente precise da consentirgli di sapere come regolare il suo comportamento, la Corte ha ritenuto che, dal testo dell’ammonimento, fosse chiaro che il comportamento vietato corrispondeva allo stalking e, in particolare, ad atti di «minaccia e molestia» ripetuti in modo tale da causare alla moglie un persistente e grave stato di ansia, paura e preoccupazione per la sua sicurezza personale. Quindi nonostante la problematicità di alcune carenze procedurali, la Corte ha giudicato la misura «conforme alla legge».
Per quanto riguarda la questione se il quadro giuridico applicabile aveva consentito al ricorrente di essere sufficientemente coinvolto nel processo decisionale, la Corte ha ricordato che l’efficacia di una misura preventiva dipende spesso dalla rapidità della sua attuazione. In questo caso, l’obiettivo della misura rientrava nell’ambito di applicazione dell’articolo 53 della Convenzione di Istanbul relativo agli ordini restrittivi o di protezione nel contesto della violenza domestica, che prevedeva che tali misure potessero essere emesse, se necessario, su richiesta di una sola parte, con effetto immediato ma temporaneo. La Corte ha ammesso che, in casi di urgenza, l’autorità di polizia potrebbe decidere di non ascoltare la persona interessata. Tuttavia, il ricorrente non ha avuto la possibilità di difendersi e non è stata fornita alcuna giustificazione dell’urgenza. Poiché le autorità di polizia avevano avuto il tempo di ascoltare numerose testimonianze, la Corte non vedeva alcun motivo per cui le autorità nazionali non avrebbero potuto ascoltare anche il ricorrente. La Corte ha osservato che il verbale che accompagnava l’ammonimento non era sufficientemente motivato e i fatti erano stati formulati in modo estremamente generico. L’argomentazione partiva dall’ipotesi dei fatti denunciati dalla moglie del ricorrente e stabiliva che tali fatti erano provati, senza menzionare le indagini intraprese e senza valutare come i risultati di queste avessero confermato l’ipotesi iniziale. Allo stesso modo, la descrizione del comportamento tenuto con un “atteggiamento potenzialmente minaccioso” era molto vaga. Il verbale menzionava le testimonianze e alcuni “documenti aggiuntivi”, ma non indicava quali fossero e come confermassero le affermazioni della moglie. Pertanto, i verbali non chiarivano come fossero state valutate le prove raccolte attraverso le indagini. Poiché la cautela era stata concessa solo sulla base delle argomentazioni e delle prove presentate dalla moglie, la Corte ha ribadito che le autorità avevano il dovere di condurre una valutazione «autonoma» e «proattiva» del rischio; la decisione sulle misure da adottare doveva prendere in considerazione tutti gli elementi a disposizione delle autorità. Tuttavia, sembra che non sia stata effettuata alcuna valutazione indipendente. A tal proposito è opportuno notare che questa conclusione costituisce una assoluta novità nella giurisprudenza della Corte che nei suoi precedenti ha sempre interpretato il dovere di valutazione «autonoma» e «proattiva» del rischio come un obbligo positivo posto a tutela della vittima e non del presunto autore della condotta persecutoria.
Per quanto riguarda l’adeguatezza del controllo giurisdizionale ex post, la Corte ha ritenuto che questo fosse tanto più necessario in questo caso, data l'incapacità dell'autorità di polizia locale di fornire motivazioni pertinenti e sufficienti per la misura adottata. Tuttavia, il Consiglio di Stato si era limitato a ritenere legittima l’ammonizione alla luce della decisione presa dall’autorità di polizia locale, senza procedere a una valutazione delle prove disponibili. La Corte non ha potuto ritenere che questo fosse un «controllo sufficiente», ai sensi della sua giurisprudenza. In particolare, la sentenza non ha esaminato l’aspetto critico del caso, ossia se l’autorità di polizia locale fosse stata in grado di dimostrare l’esistenza di fatti specifici su cui basare la valutazione che il ricorrente costituisse un pericolo per la moglie. La Corte ha concluso che le autorità giudiziarie non avevano effettuato un sufficiente controllo giurisdizionale della necessità e proporzionalità della misura. La Corte ha rilevato che il ricorrente era stato escluso dal processo decisionale in misura significativa senza dimostrare che ciò fosse necessario a causa dell’urgenza della situazione, che le autorità nazionali non avevano fornito ragioni pertinenti e sufficienti per giustificare la misura e che, in considerazione del modo in cui il Consiglio di Stato aveva condotto il riesame della questione, le garanzie fornite al ricorrente erano limitate.
In sintesi, le autorità nazionali non avevano garantito al ricorrente l’adeguata protezione legale contro gli abusi a cui aveva diritto. L’interferenza con il suo diritto alla vita privata e familiare non poteva quindi dirsi «necessaria in una società democratica». Di conseguenza, vi è stata una violazione dell’articolo 8 della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 29 giugno 2023, ric. n. 49058/20, Ben Amamou c. Italia
Oggetto: articolo 6 § 1 della Convenzione (equo processo) – aspetto civile – domanda di risarcimento da parte della compagnia assicurativa del veicolo su cui il ricorrente (terzo passeggero) viaggiava – rigetto, da parte dei giudici di primo e di secondo grado, per mancata identificazione del secondo veicolo, responsabile dell’incidente – rigetto, da parte dei giudici di legittimità, per mancanza di corresponsabilità del conducente dei veicolo su cui il ricorrente viaggiava – sostituzione d’ufficio, senza previa sottoposizione al contraddittorio, del motivo di rigetto della domanda.
Il ricorrente rimaneva gravemente ferito in un incidente stradale: il conducente del veicolo che lo trasportava aveva effettuato una manovra improvvisa per evitare di scontrarsi con un veicolo non identificato.
Il ricorrente adiva il Tribunale di Perugia per ottenere un risarcimento dalla compagnia assicurativa del veicolo su cui viaggiava, la quale ne aveva rigettato la domanda contestando lo status di “terzo passeggero”.
Inizialmente, il Tribunale di Perugia, sulla base di una perizia che aveva accertato lesioni fisiche pari all’85% e una riduzione permanente della capacità lavorativa, ritenendo applicabile l’art. 141 d.lgs. n. 209/2005, disponeva un indennizzo provvisorio. Dopo due anni, lo stesso Tribunale rigettava la domanda di risarcimento ritenendo l’art. 141 non applicabile: tale norma consente a un passeggero di chiedere il risarcimento dei danni alla compagnia di assicurazione del veicolo che lo trasportava, purché i due veicoli coinvolti nell’incidente siano identificati e assicurati; viceversa, nel caso di specie, il secondo veicolo non era stato identificato.
I giudici di appello confermavano la decisione di primo grado, precisando la ratio dell’art. 141, ossia consentire alla compagnia assicurativa che paga il risarcimento di ottenere il rimborso dalla compagnia assicurativa del responsabile civile, nonché consentire alla compagnia assicurativa del responsabile civile d’intervenire nel giudizio e sostituirsi alla compagnia assicurativa del conducente, riconoscendo la responsabilità del proprio assicurato. Il terzo passeggero avrebbe però potuto ricevere tutela ai sensi dell’art. 286 d.lgs. n. 209/2005 dal Fondo di garanzia per le vittime degli incidenti stradali.
I giudici di legittimità rigettavano, in camera di consiglio, l’impugnazione del ricorrente rilevando da una parte, che un’interpretazione dell’art. 141 d.lgs. n. 209/2005 conforme a Costituzione deve consentire alla persona trasportata di agire direttamente nei confronti della compagnia di assicurazione del veicolo su cui viaggiava, anche se l’incidente è stato causato dalla collisione con un veicolo non assicurato o non identificato; dall’altra, che l’azione diretta del terzo passeggero nei confronti dell’assicuratore del suo vettore è ammessa a condizione che sia possibile individuare la corresponsabilità, anche presunta, del conducente del veicolo su cui il terzo viaggiava.
Dinanzi alla Corte di Strasburgo, il ricorrente lamentava che la Corte di cassazione aveva basato la propria decisione su un motivo sollevato d’ufficio, non sottoposto al contraddittorio tra le parti, privandolo del diritto di accesso a un tribunale.
Secondo i giudici sovranazionali, benché il potere della Corte di cassazione di decidere la causa sulla base di una questione sollevata d’ufficio (in forza del principio iura novit curia) non sia in discussione, la mancata comunicazione alle parti dell’intenzione di esaminare d’ufficio una questione determinante potrebbe sollevare problemi ai sensi della Convenzione.
Nel caso di specie, la questione controversa riguardava la responsabilità solidale dei conducenti dei veicoli coinvolti, quale criterio per l’applicabilità dell’art. 141 d.lgs. n. 209/2005.
La Corte ritiene necessario valutare se (i) la questione facesse già parte del contraddittorio; (ii) se la questione sollevata d’ufficio fosse controversa; (iii) la questione abbia influenzato in modo determinante l’esito della causa; (iv) se la posta in gioco non fosse trascurabile.
Innanzitutto, sebbene le parti concordino sul fatto che il thema decidendum riguardasse le condizioni di applicabilità dell’art. 141, tuttavia, il criterio della corresponsabilità non sembra esser stato oggetto del contraddittorio: l’unico riferimento pertinente compare nella decisione di appello, quando l’applicabilità dell’art. 141 era stata già esclusa e solo per giustificare la possibilità del ricorrente di ottenere un risarcimento dal Fondo di garanzia; in altre parole, neanche i giudici di appello avevano incluso la corresponsabilità tra i criteri di applicabilità dell’art. 141. Oltretutto, alcuna delle parti aveva sollevato la questione coi motivi di ricorso per cassazione.
In secondo luogo, la questione affrontata d’ufficio dalla Corte di cassazione era, per ammissione stessa dei giudici di legittimità, nuova e potenzialmente controversa, circostanza che, a maggior ragione, avrebbe richiesto una preventiva discussione in contraddittorio.
Inoltre, l’assenza di corresponsabilità da parte del conducente del veicolo su cui il ricorrente viaggiava è risultata circostanza determinate per escludere l’applicabilità dell’art. 141 d.lgs. n. 209/2005, dunque per definire l'esito della controversia.
Infine, la posta in gioco era rilevante, posto che il ricorrente aveva riportato un danno grave e che, a seguito del rigetto della domanda di risarcimento, l’azione dinanzi al Fondo era prescritta.
Pertanto, la sostituzione del motivo di diritto in base al quale giustificare il rigetto della domanda di risarcimento, in particolare escludere l’applicabilità dell’art. 141 CdA, ha determinato l’iniquità del processo nazionale.
Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa