Alcune tra le più rilevanti sentenze di marzo della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardano i diritti fondamentali (assistenza medica, diritto di visita, diritto ad un ricorso effettivo) di soggetti sottoposti a misure restrittive della libertà personale. La Corte si è pronunciata, inoltre, su alcuni casi di violazione dell’articolo 8, concernenti tra l’altro il diritto dei nonni e dei genitori, nelle procedure di adozione, a mantenere un legame con il bambino. Infine, due pronunce importanti, sull’indebita ingerenza da parte del Ministro della giustizia islandese nelle procedure di nomina dei giudici (art. 6) e sulla proporzionalità della pena nel reato di diffamazione (art. 10): qual è il confine tra la protezione della reputazione e dei diritti di alcuni soggetti e la libertà di espressione?
Sentenza della Corte Edu (Sezione IV) 12 marzo 2019 rich. nn. 41216/13, Petukhov c. Ucraina (n. 2)
Oggetto: articolo 3 (proibizione della tortura), inadeguatezza delle cure mediche durante la detenzione, liberazione condizionale, revisione delle sentenze di condanna all’ergastolo, grazia presidenziale.
La Corte ha dichiarato la violazione dell’articolo 3.
La Corte Edu si è già pronunciata in merito alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione in un altro caso, sollevato dallo stesso sig. Petukhov, sull’insufficienza delle cure mediche ricevute fino al luglio 2010, periodo non coperto dalla presente sentenza. Il ricorrente, in questo secondo caso Petukhov c. Ucraina, lamenta la violazione dell’articolo 3 della Convenzione per l’inadeguatezza dell’assistenza medica nelle strutture detentive, per la perpetuità della pena, senza alcuna possibilità di liberazione né di riesame, nonché per le condizioni di detenzione, oltre alla violazione dell’articolo 8, viste le restrizioni che hanno impedito l’esercizio del diritto di visita alla moglie.
Il signor Petukhov nel 2004 è stato condannato all’ergastolo, per una serie di reati gravi legati alla criminalità organizzata. Affetto da tubercolosi, nel 2010 viene trasferito all’ospedale penitenziario specializzato di Kherson, dove dichiarano un’invalidità minima. Tuttavia, la malattia si aggrava ed il ricorrente inizia a maturare una resistenza alla maggior parte dei farmaci. Iniziano dunque le cure palliative e, stabilizzatesi le sue condizioni, viene trasferito in un centro di detenzione provvisoria a Kiev, dove continua a scontare la pena. Il ricorrente lamenta l’inadeguatezza delle cure mediche e la mancanza dei farmaci necessari di fronte alle autorità penitenziarie, le quali riconoscono l’assenza delle terapie anti-tubercolosi durante la permanenza presso l’ospedale di Kherson. Tra il 2010 e il 2015, il soggetto ha denunciato, invano, non solo alle autorità, ma anche al commissario parlamentare per i diritti umani, numerose violazioni sulle condizioni di detenzione nell’ospedale penitenziario ed in un’altra struttura in cui è stato collocato per diversi mesi.
La IV Sezione dichiara irricevibile la doglianza riguardante le condizioni di detenzione; tuttavia, pronuncia la violazione dell’articolo 3, analizzando due differenti profili. Anzitutto, a causa della mancanza di cure adeguate, a partire dal suo trasferimento all’ospedale psichiatrico, la malattia si è aggravata irreversibilmente, tanto da rendere il soggetto resistente alla terapia farmacologica; la Corte ha rilevato la violazione per la mancanza di protezione della salute del detenuto da parte delle autorità. Sotto il secondo profilo, la Corte afferma che una pena detentiva a vita, per essere compatibile con l’articolo 3, deve offrire una prospettiva di liberazione ovvero una possibilità di riesame, mentre lo Stato ucraino prevede come unica possibilità di liberazione la grazia presidenziale. Nell’analisi delle modalità per l’ottenimento di tale grazia, la Corte considera i presupposti («i condannati possono beneficiare della grazia eccezionalmente e in circostanze straordinarie») contrari al diritto, proprio dei soggetti condannati all’ergastolo, di conoscere a priori le azioni necessarie e le condizioni applicabili per beneficiare della liberazione. Posto che la decisione presidenziale è totalmente discrezionale, la Corte Edu non ritiene che vengano assicurate sufficienti ed adeguate garanzie procedurali contro gli abusi. Il regime applicato ai condannati all’ergastolo viene considerato, dai giudici di Strasburgo, incompatibile con il diritto ad una revisione: i condannati a vita sono separati dagli altri detenuti e vivono ventitré ore della loro giornata chiusi in una cella, senza che venga loro proposta alcuna attività. Le possibilità di ricevere la grazia presidenziale sono perciò (quasi) nulle, di conseguenza la Corte ha pronunciato la violazione dell’articolo 3 per non aver offerto al soggetto prospettive di liberazione.
La IV Sezione sottolinea, dunque, un problema sistemico in tema di ergastolo, posto in evidenza dai numerosi casi pendenti in materia e dai ricorsi futuri che potrebbero giungere. Per un’esecuzione adeguata della sentenza, la Corte chiede allo Stato ucraino di riformare il sistema di revisione delle sentenze di condanna all’ergastolo, perché il mantenimento del regime detentivo venga giustificato da motivazioni legittime, permettendo ai condannati di conoscere le azioni possibili e le condizioni applicabili per beneficiare della liberazione.
Il giudice Pinto, nella sua opinione separata, manifesta la sua insoddisfazione per la decisione in merito all’articolo 41: la Corte, a suo parere, dovrebbe fare un passo ulteriore, prevedendo che il procedimento di riesame con cui si valuta l’eventuale scarcerazione sia di competenza dell’organo giurisdizionale, al quale dovrebbero competere l’analisi di elementi di fatto e di diritto.
Infine, il giudice Kuris, in un’ulteriore opinione separata, denuncia la Câmpeanu formula (formula che predilige l’esame delle questioni principali, le cd. main legal questions), ormai invocata iperbolicamente dalla Corte; tale formula è stata utilizzata, per esigenze di speditezza, come giustificazione dell’assorbimento della questione inerente all’articolo 8.
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Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 21 marzo 2019 rich. nn. 39065/16, O.S.A. e altri c. Grecia
Oggetto: articolo 5 § 4 (diritto ad un ricorso effettivo), 5 § 2 (diritto ad essere informato sui fatti contestati), 5§ 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza), 3 (proibizione della tortura), centro di accoglienza, condizioni di detenzione, effettività del ricorso.
La Corte ritiene che vi sia stata violazione dell’articolo 5 § 4 e che non vi sia stata violazione dell’articolo 3.
Il caso O.S.A. e altri c. Grecia riguarda principalmente l’effettività del diritto a «presentare un ricorso in tribunale, affinché decida entro breve termine sulla legittimità della detenzione».
I ricorrenti, quattro cittadini afgani, arrivati sull’isola di Chio, vengono arrestati e collocati nel centro di Vial, il 21 marzo 2016, centro destinato all’accoglienza, all’identificazione e alla registrazione dei migranti. Ricevuto l’ordine di espulsione, il 4 aprile i ricorrenti manifestano la volontà di procedere alla domanda di asilo, grazie alla quale l’espulsione viene sospesa fino al termine dell’esame della domanda. L’obbligazione di non lasciare l’isola viene dunque annullata e due dei ricorrenti non si presentano al momento della registrazione della domanda di asilo.
I ricorrenti invocano diverse disposizioni della Convenzione. Lamentano, anzitutto, la violazione dell’articolo 5 § 4 per l’impossibilità di ottenere una decisione giudiziaria sulla legalità della loro detenzione. Chiedono, inoltre, che la Corte si pronunci sugli articoli 5 § 1, a causa del carattere arbitrario della loro detenzione, 5 § 2, poiché ritengono di non aver ricevuto alcuna informazione sulle ragioni poste alla base dei fatti contestati, ed infine sull’articolo 3, per le condizioni di detenzione presso il centro di Vial.
I giudici di Strasburgo si pronunciano esclusivamente sulla prima doglianza, considerando quella relativa all’articolo 5 § 1 mal fondata e per questo rigettata, quella relativa all’articolo 5 § 2 assorbita dalla decisione concernente il § 4 e, infine, in merito all’articolo 3, la Corte non ritiene che le condizioni di detenzione abbiano raggiunto la soglia di gravità perché si possa considerare che siano stati perpetrati trattamenti inumani e degradanti. Sull’articolo 5 § 4, invece, i giudici di Strasburgo rilevano che ai ricorrenti, per cui l’unica lingua conosciuta è il «farsi», non è stato garantito il diritto ad un ricorso effettivo. Le decisioni prese sono state comunicate loro in lingua greca e, non essendo stati assistiti da un avvocato, non avevano sufficienti competenze giuridiche per comprendere le informazioni fornite. Non solo non è presente alcun tribunale amministrativo sull’isola, rimedio assicurato nella brochure informativa distribuita, ma soprattutto ai ricorrenti non è stata garantito alcun diritto di difesa. Il governo non ha fornito alcuna informazione sulle modalità di assegnazione dell’assistenza legale e, soprattutto, non ha precisato se il numero di avvocati e le disponibilità economiche delle ong siano sufficienti a soddisfare i bisogni della popolazione del centro di Vial, superando il numero dei migranti, all’epoca dei fatti, il migliaio di persone. Poiché i ricorrenti non hanno potuto esercitare il loro diritto ad un ricorso effettivo, la Corte ha rilevato la violazione dell’articolo 5 § 4.
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Sentenza della Corte Edu (Sezione III) 5 marzo 2019 rich. nn. 38201/16, Bogonosovy c. Russia
Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita familiare), adozione, diritto dei nonni a mantenere un legame con il minore.
La Corte ritiene ha affermato la violazione dell’articolo 8.
La III Sezione della Corte è stata chiamata a decidere su un caso riguardante il diritto di due nonni a mantenere un contatto con la nipote, anche dopo l’adozione, richiamando l’articolo 8 della Convenzione Edu. I ricorrenti hanno inoltre allegato la violazione dell’articolo 13 (diritto ad un ricorso effettivo), per essere stati privati di uno strumento di ricorso contro tale violazione, richiesta poi assorbita dalla decisione in merito all’articolo 8.
Il ricorrente, divenuto uno al momento della decisione poiché la signora Bogonosova è deceduta nel 2018, ha cresciuto sua nipote, nata nel 2006, per diversi anni (2008–2013), a causa del decesso della madre, figlia del ricorrente, nel 2011. Alcuni membri della famiglia, che hanno aiutato i nonni nella crescita della nipote, nel 2013 hanno portato a termine la procedura di adozione. Tuttavia, dal momento del completamento dell’adozione, ai ricorrenti sono stati posti ostacoli al mantenimento del legame con la nipote. Di conseguenza, il sig. Bonosov fa appello contro la decisione di adozione: il tribunale di San Pietroburgo nel 2015 conferma la decisione, argomentando che la legge non prevede che nella procedura di adozione vengano coinvolti i parenti. Nonostante il ricorrente abbia rimarcato la presenza dell’articolo 67 del Codice di famiglia nell’ordinamento interno, che garantisce ai parenti il diritto di mantenere i contatti con un minore, nonché di richiedere un provvedimento giudiziario qualora i genitori adottivi impediscano le visite, il tribunale del distretto pone fine alla procedura, affermando che il ricorrente non ha manifestato la propria volontà di mantenere un legame con la nipote durante la fase iniziale di adozione, non avendo, perciò, il diritto di richiedere che il giudice emetta un provvedimento. Il Tribunale di prima istanza, tuttavia, aveva autorizzato la sig.ra Bogonosova a mantenere i contatti con la nipote, decisione poi annullata poiché appellata dalla famiglia adottiva.
Anzitutto, la Corte valuta il legame tra il ricorrente e la nipote sufficiente per poter invocare l’articolo 8, essendosi occupato di lei per cinque anni. Il diritto invocato dal sig. Bogonosov, previsto dall’articolo 67 del Codice di famiglia, viene garantito esclusivamente se allegato nella fase iniziale del procedimento di adozione. Tuttavia, il tribunale di San Pietroburgo non solo ha fatto credere al ricorrente che avrebbe potuto fare una richiesta anche successivamente, ma soprattutto non ha esaminato tale diritto al momento dell’appello del ricorrente alla decisione di adozione. Il tribunale ha interpretato ed applicato il diritto in modo da escludere completamente la presenza del nonno nella vita della nipote. I giudici di Strasburgo hanno, dunque, giudicato l’assenza di valutazioni sulle relazioni tra i due soggetti da parte del Tribunale interno, successivamente all’adozione, una violazione del diritto al rispetto della vita familiare, di cui il ricorrente è titolare.
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Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita familiare), adozione, diritto dei genitori a mantenere un legame con il minore
La Corte ha dichiarato irricevibile il ricorso perché la richiesta era manifestamente non fondata.
I ricorrenti, genitori di 5 bambini nati tra il 2000 e il 2012, lamentavano che le autorità nazionali avessero dichiarato adottabili i loro figli senza mettere in atto reali misure di supporto e senza ordinare una perizia sulle loro capacità parentali; si dolevano anche che non fosse stata adottata una forma di adozione mite che consentisse il mantenimento della relazione.
La Corte, dopo aver riassunto i fatti e aver ricordato i principi fondamentali traibili dalla sua giurisprudenza, nell’applicarli al caso di specie, ha escluso la violazione dell’articolo 8 Cedu in quanto: la famiglia era stata presa in carico dai Servizi fin dal 2008 e che i bambini sono stati posti in affido extra-familiare progressivamente in ragione delle condizioni di vita insoddisfacenti, delle privazioni materiali, dell’incapacità affettiva, educativa e pedagogica dei genitori e che nel corso di molti anni il diritto di visita dei genitori era stato previsto e favorito. La sospensione della responsabilità parentale e l’affidamento ai Servizi sociali erano stati disposti solo dopo sei anni di presa in carico caratterizzati dall’adozione di numerose azioni di supporto. L’adottabilità era stata dichiarata nel 2015 con decisione basata su motivazioni pertinenti e sufficienti, all’esito di un percorso graduale e di continui interventi di sostegno tesi a riunire i bambini ai genitori. La Corte ha ritenuto che il compito delle autorità interne era difficile, tenuto conto della sensibilità della materia e del rifiuto dei bambini di tornare a vivere coi genitori, ma che era stato realizzato un giusto equilibrio tra i diversi interessi in gioco.
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Sentenza della Corte Edu (Sezione V) 21 marzo 2019 rich. nn. 30315/10, Bigun c. Ucraina
Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), diritto di visita in detenzione, ergastolo
La Corte ha dichiarato la violazione dell’articolo 8 e la non violazione dell’articolo 13.
I ricorrenti, due cittadini ucraini sposatisi nel 2000, lamentano la violazione degli articoli 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 13 (diritto ad un ricorso effettivo). Uno dei due soggetti, condannato all’ergastolo nel 2001, ha presentato un ricorso amministrativo contro il Dipartimento nazionale per l’esecuzione delle sentenze, per il rifiuto delle molteplici richieste, dei due ricorrenti, di poter esercitare il diritto alle visite di lunga durata (long-term family visits). Il ricorrente si è visto rigettare la sua richiesta da parte dei tre gradi di giurisdizione, sulle basi di un articolo della legislazione interna, il quale prevedeva il diritto dell’ergastolano a ricevere solamente una visita breve ogni sei mesi. I ricorrenti chiedono il divorzio nel 2014.
I due soggetti sostengono che per un periodo di tredici anni siano state concesse loro visite brevi e sporadiche ed imposti divieti riguardanti il contatto fisico e la privacy: denunciano dunque la violazione del loro diritto ad una vita privata, nonché il diritto ad avere un figlio, considerando così il diniego arbitrario e illegittimo. L’impedimento all’esercizio di tali diritti ha portato alla rottura del matrimonio. Il divieto delle visite di lunga durata per i condannati all’ergastolo, inoltre, è considerato dal ricorrente «inflessibile», in altre parole, la legislazione rendeva impossibile adottare un approccio individualizzato e variabile in base alle circostanze del singolo caso. Le motivazioni principali addotte dal governo, invece, si concentrano sull’interesse pubblico, ed in particolare sul piano della sicurezza.
La V Sezione della Corte ritiene che sia un dovere delle autorità assicurare la piena garanzia di questo diritto, nonché prevenire la frattura dei legami affettivi: la privazione della libertà comporta necessariamente delle limitazioni nella sfera privata e familiare; tuttavia, il rispetto della vita familiare costituisce una parte essenziale dei diritti di un detenuto.
I giudici di Strasburgo, nell’analisi del secondo comma dell’art. 8, considerano l’interferenza dello Stato eccessiva: lo Stato, infatti non ha mano libera nell’introduzione delle restrizioni, senza prevedere alcuna eccezione che sia applicabile in casi specifici. Nonostante la legislazione sia stata modificata nel 2016, consentendo una visita di lunga durata ogni due mesi, il ricorrente al tempo dei fatti non aveva alcuna speranza di veder modificata la legislazione interna; a riprova di ciò, il rapporto del CPT (Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti) che, nel 2011, esorta l’Ucraina ad emendare la legislazione e ad impegnarsi nella prevenzione della rottura dei legami familiari, incrementando le visite consentite ai condannati all’ergastolo e migliorando le circostanze e le modalità di incontro. Per tali motivi la Corte Edu ha rilevato la violazione dell’art. 8, la non violazione dell’art. 13, poiché tale disposizione non può essere interpretata come un rimedio per modificare la legislazione interna, e l’assorbimento dell’art. 12, ritenendo che non sia necessaria una valutazione separata.
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Oggetto: articolo 6 (diritto a un equo processo), tribunale costituito per legge, nomina dei giudici, separazione dei poteri, indipendenza della magistratura.
La Corte ha rilevato la violazione dell’articolo 6 § 1 (diritto ad un tribunale costituito per legge). La Corte ha, inoltre, deciso all’unanimità l’assorbimento della questione relativa all’articolo 6 § 1 (diritto a un tribunale indipendente e imparziale).
Nella sentenza Guðmundur Andri Ástráðsso c. Islanda, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 6 § 1 (diritto ad un tribunale costituito per legge e diritto a un tribunale indipendente e imparziale), poiché sostiene che le accuse penali attribuitegli non siano state decise da un tribunale costituito per legge e che la Corte suprema abbia violato il suo diritto ad essere ascoltato da un tribunale imparziale ed indipendente.
Nel collegio giudicante della nuova Corte d’appello, istituita il 1° gennaio 2018, è presente un giudice la cui nomina non ha seguito il procedimento previsto dalla legge. Il nuovo Judiciary Act ha previsto un Comitato di valutazione per la nomina dei quindici giudici della nuova Corte. I quindici nominativi più qualificati sono poi stati trasmessi al Ministro della giustizia, il quale li ha comunicati al Presidente del Parlamento. Tuttavia, la lista trasmessa all’organo legislativo conteneva solo undici dei quindici giudici designati dal Comitato; i rimanenti quattro nominativi sono stati inseriti dal Ministro, nonostante non fossero tra i più qualificati nella graduatoria del Comitato. Successivamente, il Parlamento ha approvato a maggioranza la lista proposta dal Ministro, poi firmata dal Presidente islandese. Due dei magistrati esclusi dalla lista del Ministro, ma considerati tra i più qualificati da parte del Comitato, hanno denunciato in giudizio l’illegalità di tali nomine. Nel terzo grado di giudizio, innanzi alla Corte suprema, che ha rigettato entrambe le domande di risarcimento per il danno materiale, i giudici estromessi hanno ricevuto un risarcimento per danno alla persona.
Il sig. Ástráðsso, condannato in primo grado per guida senza una licenza valida e sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, ha presentato un ricorso alla Corte suprema, che tuttavia ha trasferito il caso alla neonata Corte d’appello. Il collegio giudicante è formato da tre giudici, tra i quali è presente uno dei quattro giudici nominati dal Ministro senza una procedura trasparente. Di conseguenza, il ricorrente richiede la rimozione del giudice dal collegio, per l’irregolarità nella procedura di nomina; mozione rigettata dalla Corte d’appello, la quale peraltro conferma la sentenza di primo grado. Il ricorrente, infine, impugna la sentenza innanzi alla Corte suprema, lamentando la violazione del principio del giusto processo. Tuttavia, la Corte rigetta il ricorso affermando che non vi è dubbio sulla legittimità di tale processo.
La II Sezione della Corte Edu mette in evidenza ciò che è stato rilevato dalla Corte suprema islandese, nonostante quest’ultima non consideri tali elementi sufficientemente gravi per mettere in dubbio la nomina dei giudici. Vi è stata, senza dubbio, una violazione della legislazione nazionale sia da parte del Ministro, che non ha giustificato sufficientemente la scelta dei quattro candidati né comparato le competenze di questi con le competenze dei giudici estromessi, e da parte del Parlamento, che avrebbe dovuto, con votazione separata, pronunciarsi sulle nomine una ad una. In questo modo è stato violato l’intento della procedura stabilita per legge, che, attribuendo la competenza ad un Comitato, vuole limitare la discrezionalità dell’esecutivo, vale a dire garantire l’importante interesse pubblico di salvaguardia dell’indipendenza del potere giudiziario dal potere esecutivo. La Corte di Strasburgo sottolinea la rilevanza del rispetto della legge, in una società democratica fondata sullo Stato di diritto, alla luce del principio della separazione dei poteri. Di conseguenza, l’ingiustificata discrezionalità del Ministro e l’inadempimento dello schema legislativo da parte del Parlamento hanno «violato la vera essenza del principio per cui il tribunale debba essere costituito per legge, uno dei principi fondamentali del rule of law». È stata dunque rilevata una violazione dell’articolo 6 § 1 (diritto ad un tribunale costituito per legge); la questione relativa all’imparzialità e all’indipendenza del tribunale (art. 6 § 1 – diritto a un tribunale indipendente e imparziale) è stata ritenuta assorbita dalla decisione sulla prima questione.
Un’importante pronuncia della Corte Edu che ha portato alle dimissioni del Ministro della giustizia Sigríður Á. Andersen, la quale ha incoraggiato il governo ad appellare la sentenza, chiedendo la pronuncia della Grande Camera.
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Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 7 marzo 2019 rich. nn. 22350/13, Sallusti c. Italia
Oggetto: articolo 10 (libertà di espressione), reato di diffamazione e omesso controllo, proporzionalità della pena, pena detentiva.
La Corte ritiene che vi sia stata violazione dell’articolo 10.
Sallusti, noto giornalista italiano, all’epoca dei fatti era direttore del quotidiano Libero. Nel febbraio 2007 Libero pubblica due articoli su un fatto di cronaca riguardante una minore di tredici anni che viene costretta dai suoi genitori e dal giudice tutelare ad abortire. Notizia apparsa su altre testate, viene poi smentita dall’Ansa, precisando che la decisione della ragazza è stata volontaria. Nonostante ciò, il quotidiano in questione pubblica i due articoli, di cui uno firmato da uno pseudonimo. Il giudice tutelare presenta una querela al Tribunale di Milano, denunciando il reato di diffamazione, aggravato dall’attribuzione di un fatto determinato, e il reato di omesso controllo, in quanto direttore del quotidiano. Il ricorrente viene dunque condannato, in primo grado, al pagamento di una multa e di un risarcimento per omesso controllo sul contenuto dell’articolo diffamatorio e diffamazione aggravata, relativamente all’articolo anonimo. Il secondo grado di giudizio riforma parzialmente la sentenza del Tribunale di Milano, poiché considera la pena inflitta eccessivamente mite: dispone la pena della reclusione, di un anno e due mesi, conferma la multa di euro 5.000 e triplica la somma del risarcimento, che diviene di euro 30.000. La Corte di cassazione conferma tale decisione, tentando di giustificare la pena detentiva, attribuendo al caso valore di circostanza eccezionale. Disposti gli arresti domiciliari in luogo della reclusione e scontati ventun giorni, il ricorrente invia la richiesta di commutazione della pena in pena pecuniaria al Presidente della Repubblica, il quale, condividendo le opinioni critiche della Corte Edu in merito all’irrogazione della pena detentiva ai giornalisti, dispone la commutazione.
Sallusti denuncia la violazione dell’articolo 10 della Convenzione da parte dell’ordinamento italiano, evidenziando la sproporzionalità della pena e il danno prodotto alla sua carriera.
Pacifico che vi sia stata, da parte dello Stato, un’ingerenza nel diritto alla libertà d’espressione e che «l’ingerenza perseguiva in ogni caso il fine legittimo di proteggere la reputazione e i diritti di altri, ovvero della tredicenne e dei suoi genitori» nonché del giudice, si discute se tale ingerenza sia stata necessaria in una società democratica. I giudici di Strasburgo concordano con il Governo sul carattere offensivo delle notizie non solo nei confronti di un giudice, ma anche di un minore, dei genitori e dei medici, nonché sull’obbligo in capo al direttore del giornale di esercitare un controllo: la condanna è dunque considerata una «pressante esigenza sociale». Tuttavia, la Corte Edu contesta la proporzionalità della pena, affermando che «l’inflizione di una pena detentiva non fosse giustificata», per il suo effetto inevitabilmente dissuasivo. La Corte, riconoscendo la sproporzionalità della misura, ritiene che tale ingerenza non sia qualificabile come «necessaria in una società democratica» e rileva la violazione dell’articolo 10 della Convenzione.
Merita sottolineare che la Corte ha considerato con favore nella motivazione le iniziative legislative in corso di esame presso il Parlamento italiano, in linea con le sentenze emesse nei confronti dell’Italia, in particolare, il disegno di legge in discussione al Senato n.925 sulla riforma del delitto di diffamazione che prevedeva l’esclusione della reclusione (nel corso della attuale legislatura è in discussione al Senato il ddl Caliendo n.812, mentre alla Camera pende l’esame del ddl Verini C. 416).
L’Italia ha già ricevuto due condanne per violazione dell’articolo 10 Cedu, nei casi Belpietro e Ricci, attualmente all’esame del Comitato dei Ministri in composizione diritti umani, in sede di supervisione sull’esecuzione delle sentenze. La relativa documentazione può essere visionata sul sito delle esecuzioni.