Le pronunce di marzo della Corte Edu qui selezionate riguardano argomenti delicati per l’ordinamento italiano: da una parte, il rapporto tra procedimento penale e risarcitorio (anche contabile), sotto i profili della presunzione d’innocenza a favore dell’imputato prosciolto e, in un’ottica diametralmente opposta, della valutazione dei diritti civili della vittima davanti ai giudici penali; dall’altra, la “detenzione” dei migranti presso centri hotspot.
In Rigolio c. Italia, l’aspetto reputazionale della presunzione d’innocenza lambisce la responsabilità erariale: considerata la Corte dei Conti alla stregua di un tribunale civile, i giudici europei ribadiscono i parametri linguistici con cui motivare la sentenza risarcitoria e riconoscono la legittimità dell’utilizzo di termini non riservati alla sfera penale e/o utilizzati per indicare un concetto tecnico giuridico (nel caso di specie, la formula “fatto corruttivo”); a tal fine, rilevano la natura non accessoria del procedimento contabile rispetto a quello penale e la necessità, nel primo, di accertare elementi ulteriori alla figura criminis, in particolare l’incidenza della condotta illecita sull’immagine della pubblica amministrazione e i costi necessari per riabilitare la medesima.
In Diémert c. Francia, la Corte torna sull’aspetto civile del diritto di accesso nell’ambito del procedimento penale. Nello specifico, benché l’azione civile per il risarcimento dei danni derivanti da diffamazione si sia prescritta in appello, dunque sia rimasta priva di un esame definitivo nel merito, il diritto di accesso non risulta violato, stante l’esistenza di una pronuncia equa in primo grado e la possibilità di “addebitare” lo spirare della prescrizione non solo alla Corte di Appello (ai numerosi rinvii disposti da quest’ultima) ma al ricorrente, su cui grava l’onere (non eccessivo nella prospettiva sia della giurisprudenza francese sia di quella sovranazionale) di vigilare sullo svolgimento del procedimento penale e sulla fissazione delle udienze.
Infine, in J.A. e altri c. Italia, l’ordinamento italiano viene condannato in relazione al trattenimento di stranieri presso l’hotspot di Lampedusa, centro fatiscente e sovraffollato, operante come luogo, non solo di identificazione e smistamento, ma di “detenzione”, in attesa di collocamento o espulsione. L’aumento dell’afflusso migratorio non consente di ridimensionare l’intensità della tutela derivante dalla Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 9 marzo 2023, ric. n. 20148/09, Rigolio c. Italia
Oggetto: articolo 6 § 2 della Convenzione (equo processo – presunzione di innocenza – aspetto reputazionale) – chiusura del procedimento penale per prescrizione e accertamento del fatto corruttivo ai fini delle statuizioni civili – procedimento contabile ed equiparazione della Corte dei conti al giudice civile – rilevanza accordata a figura criminis e fascicolo penale giustificabile entro il contesto del danno erariale.
Il ricorrente, all’epoca assessore del Comune di Besozzo, veniva arrestato e accusato in relazione al delitto di corruzione, per aver ritardato l’esame di una domanda di concessione edilizia al fine di ottenere il pagamento di tangenti da parte del proprietario istante. Il Tribunale di Varese lo condannava a quattro anni di reclusione e al risarcimento dei danni subiti da chi aveva pagato le tangenti e dal suddetto Comune, costituitosi parte civile. La Corte d’appello dichiarava l’estinzione del processo per prescrizione, confermando tuttavia la spettanza civile del Comune, decisione che la Corte di cassazione riteneva esente da vizi di legittimità.
Accanto al procedimento penale, il procuratore della Sezione regionale lombarda della Corte dei conti avviava un procedimento di responsabilità erariale per i danni procurati dal ricorrente all’immagine della pubblica amministrazione. In primo grado, i giudici ritenevano spirato il termine di prescrizione, facendolo decorrere dall’arresto del ricorrente, evento che aveva dato luogo al clamor o strepitus fori, senza interruzioni; viceversa, in sede d’impugnazione, la Sezione centrale condannava il ricorrente a pagare i danni all’immagine dal Comune di Besozzo, rilevando, da una parte, che la costituzione di parte civile nel procedimento penale aveva efficacia interruttiva; dall’altra, che l’evento determinante il clamor fori fosse da ravvisare nella sentenza penale di primo grado e non nell’arresto.
Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il ricorrente lamenta l’iniquità del procedimento contabile per violazione dell’equo processo, tenuto conto sia delle prerogative di cui al § 1 dell’articolo 6 della Convenzione, che dell’aspetto reputazionale della presunzione d’innocenza di cui al § 2.
Secondo la Corte, poiché le doglianze riguardano l’importanza che la Corte dei conti ha attribuito agli accertamenti compiuti dai giudici penali, il ricorso sarebbe stato vagliato unicamente alla luce dell’articolo 6 § 2.
Sotto il profilo dell’ammissibilità, l’aspetto reputazione dell’articolo 6 § 2 è applicabile ratione materiae al procedimento contabile, stante il collegamento col procedimento penale e, pertanto, con la “accusa penale”: benché l’esito del procedimento penale non sia decisivo dinanzi alla Corte dei conti, quest’ultima può attribuire rilevanza (e così è stato) all’accertamento ivi operato, al pertinente fascicolo.
Nel merito, i giudici europei ricordano che, mentre l’assoluzione non consente di sollevare alcun sospetto circa l’innocenza dell’imputato nei procedimenti successivi e connessi, l’interruzione del procedimento per motivi di rito, esemplificativamente per prescrizione, osta a una decisione giudiziaria che rifletta la convinzione di colpevolezza solo se priva di un precedente accertamento giuridico dei fatti, e senza che l’interessato abbia avuto la possibilità di esercitare i diritti della difesa; a tal fine, benché i termini utilizzati dall’autorità decidente rivestano importanza cruciale, un linguaggio infelice può non determinare una violazione della Convenzione, tenuto conto della natura e del contesto in cui il medesimo viene utilizzato.
In concreto, la Corte riconosce che i giudici contabili hanno richiamato e argomentato i “fatti di corruzione”, ma esclude la violazione attribuendo rilevanza ai seguenti elementi: al carattere non accessorio del procedimento contabile rispetto a quello penale, in quanto successivo e svolto dinanzi a un tribunale separato; alla valutazione della figura criminis, elemento costitutivo della responsabilità contabile, secondo un giudizio autonomo, in base a criteri e standard di prova civili, e, in astratto, sulla scorta di prove anche diverse; alla rilevanza di un elemento secondario, se non estraneo, al procedimento penale, ossia le ripercussioni dell’illecito sull’ente locale e sulle spese che questo avrebbe sostenuto per ripristinare la propria immagine pubblica; alla garanzia del contraddittorio; alla circostanza che espressioni come “fatto corruttivo” non sono riservate alla sfera del diritto penale ma possono essere utilizzate anche nel diritto civile.
Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 30 marzo 2023, ric. n. 71244/17, Diémert c. Francia
Oggetto: articolo 6 § 1 (equo processo – aspetto civile) – diritto di accesso a un tribunale – chiusura del procedimento penale per prescrizione nel grado di appello – negligenza della Corte d’appello nel disporre i rinvii dell’udienza – onere della parte civile di vigilare sullo svolgimento del procedimento e, in particolare, di contestare la fissazione delle udienze – onere non eccessivo ed esclusione della violazione sovranazionale nonostante i ritardi attribuibili all’autorità giudiziaria.
Il ricorrente denunciava per diffamazione un senatore francese, in relazione ad alcune dichiarazioni politiche che lo riguardavano, chiedendo altresì il risarcimento del danno. Il Tribunale di primo grado assolveva l’accusato rilevando che le dichiarazioni contestate non imputassero al ricorrente un fatto preciso e specifico. La Corte di appello, dopo aver rinviato per ben nove volte l’udienza, chiudeva il procedimento per prescrizione, decisione confermata dalla Corte di cassazione.
Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il ricorrente lamenta la violazione del diritto di accesso a un tribunale, stante la mancanza di una decisione nel merito del diritto civile al risarcimento nell’ambito del procedimento penale, e del diritto a un rimedio interno per far valere la prima violazione, ai sensi, rispettivamente, degli articoli 6 § 1 e 13 della Convenzione.
Premessa l’applicabilità dell’aspetto civile dell’art. 6 § 1 nel procedimento penale in cui la vittima eserciti l’azione risarcitoria, premesso che la chiusura del procedimento penale per priva sicuramente il danneggiato di un esame del merito del suo diritto, la Corte soppesa, ai fini del diritto di accesso a un tribunale, la diligenza serbata sia dal ricorrente che dalla Corte di appello: la richiesta civile del ricorrente era stata esaminata secondo serietà ed equità in primo grado; il termine di prescrizione per l’azione civile in sede penale è definito con precisione dalla legge francese, sicché la restrizione al diritto di accesso è prevedibile; benché la Corte di appello avesse rinviato l’udienza senza tener conto degli effetti dei rinvii sul diritto civile della vittima, il ricorrente avrebbe dovuto, in base al diritto interno, sorvegliare lo svolgimento del processo e impedire il decorso della prescrizione; il suddetto onere di vigilanza non risulta eccessivo considerato che il ricorrente era assistito da un avvocato.
La decisione di rigetto del ricorso non è pacifica. Con parere dissenziente, i giudici Mourou-Vikström e Elósegui sottolineano l’onerosità dell’esercizio della vigilanza sul procedimento penale da parte della vittima e l’assenza di comportamenti alternativi efficaci rispetto a quello effettivamente tenuto: la maggioranza sembra imporre al ricorrente l’onere di opporsi alla decisione con cui la Corte di appello fissava l’udienza.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 30 marzo 2023, ric. n. 21329/18, J.A. e altri c. Italia
Oggetto: articolo 3 (divieto di tortura – aspetto sostanziale) – migranti tunisini detenuti nel centro hotspot per dieci giorni in condizioni materiali precarie. Articolo 5 §§ 1 (f), 2 e 4 (diritto alla libertà e alla sicurezza) – privazione arbitraria della libertà per impedire l’ingresso non autorizzato nel paese – detenzione senza una base giuridica chiara e accessibile e in assenza di una decisione motivata – mancanza d’informazione circa i motivi giuridici della detenzione e conseguente impossibilità de facto di contestare la legittimità della detenzione. Articolo 4 P4 (divieto di espulsione collettiva di stranieri) – espulsione in Tunisia senza tenere conto della situazione individuale dei ricorrenti.
Il caso riguarda la permanenza dei ricorrenti presso l’hotspot di Lampedusa, nello specifico la legittimità della detenzione, il trattamento ivi ricevuto, la legittimità dell’ordine di espulsione in Tunisia.
I ricorrenti lasciavano le coste tunisine a bordo d’imbarcazioni di fortuna ma, dopo poche ore di navigazione, a seguito di un’emergenza in mare, venivano soccorsi da una nave italiana. Arrivati a Lampedusa, venivano sottoposti a visite mediche e procedure d’identificazione, nonché ricevevano volantini con informazioni sul trattamento dei minori e sulle procedure d’asilo.
Dopo dieci giorni, i ricorrenti venivano perquisiti, trasferiti in autobus presso l’aeroporto di Lampedusa e invitati a firmare documenti di cui non ricevevano copia, che solo in seguito apprendevano essere le notifiche degli ordini di respingimento. Dopo un incontro col rappresentante del consolato tunisino a Palermo, i ricorrenti veniva riportati in Tunisia.
Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, i ricorrenti lamentano l’illegittimità della detenzione e dell’ordine di respingimento, nonché i trattamenti disumani e degradanti subiti presso il Centro di primo soccorso e accoglienza.
Sotto il profilo dell’ammissibilità, la Corte differisce l’esame dell’eccezione relativa alla mancanza dello status di vittima, in quanto legata all’esame di merito del ricorso; rigetta l’eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, in quanto formulata tenuto conto della condizione dei richiedenti asilo, condizione non predicabile nei confronti dei ricorrenti.
Nel merito, per quanto concerne il divieto di trattamenti disumani e degradanti, la Corte ritiene che il Governo convenuto non abbia prodotto elementi sufficienti a superare le prove fornite dai ricorrenti circa le criticità delle condizioni materiali dell’hotspot di Lampedusa; sul punto, una relazione del Senato della Repubblica italiana, un rapporto del Consiglio d’Europa e uno del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura rilevano le condizioni fatiscenti degli hotspot, la mancanza di servizi e spazi, la scarsa igiene, il sovraffollamento. La Corte accerta, pertanto, la violazione dell’articolo 3, posto che le difficoltà derivanti dall’aumento dell’afflusso di migranti e richiedenti asilo, in particolare per gli Stati che costituiscono le frontiere esterne dell’Unione europea, non esonerano gli Stati membri del Consiglio d’Europa dagli obblighi che loro incombono in virtù di tale disposizione.
Per quanto concerne la privazione della libertà personale, tenuto conto delle peculiarità di una privazione imposta ex articolo 5 § 1 lett. f) (norma che consente il controllo della libertà degli stranieri in un contesto di migrazione), precisato che il rispetto delle procedure previste dalla legge nazionale non sia sufficiente ove l’autorità nazionali non procedano secondo “buona fede”, la Corte rileva che la legge italiana (nonostante l’integrazione del diritto comunitario) non era chiara circa il trattenimento di stranieri presso gli hotspot: quest’ultimi, all’epoca dei fatti, erano concepiti come centri di identificazione e smistamento sicché il trattenimento forzato eccedente i tempi necessari a tali operazioni deve considerarsi detenzione arbitraria, non giustificabile né disciplinata dalla normativa riguardante gli hotspot.
Dalla mancanza di base legale consegue, altresì, la violazione del diritto a ricevere informazioni sufficienti sui motivi della detenzione (articolo 5 § 2) e del diritto di presentare ricorso a un tribunale avverso la medesima (articolo 5 § 4).
Ultima doglianza attiene al divieto di espulsione collettiva sancito dall’articolo 4 Prot. 4, norma che garantisce il diritto a un colloquio individuale circa l’espulsione ovvero il diritto di presentare argomentazioni avverso l’espulsione e di ricevere un esame appropriato delle medesime. In concreto, il breve lasso di tempo tra la notifica dei provvedimenti di respingimento e l’allontanamento effettivo nonché la verosimile mancanza di comprensione degli stessi provvedimenti sono fattori sufficienti a ritenere la violazione del diritto a impugnare i suddetti ordini.
Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa