Le più rilevanti sentenze del mese di ottobre della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardano, da un lato, la legittimità del decreto di espulsione disposto nei confronti di un cittadino turco, con patologia psichiatrica, per cui era necessario un trattamento continuativo ed effettivo; dall’altro, la ragionevolezza alla base del bilanciamento degli interessi operato dalle autorità spagnole, in tema di videosorveglianza dei dipendenti sul luogo di lavoro. Decisioni rilevanti hanno inoltre riguardato la libertà di espressione, integrando in un caso la fattispecie dell’art. 10 e in un’altra causa il diritto tutelato dall’art. 8.
Sentenza della Corte Edu (Sezione IV) 1 ottobre 2019 rich. nn. 57467/15, Savran c. Danimarca
Oggetto: articolo 3 (proibizione della tortura), patologia psichiatrica, espulsione, garanzie minime, effettività e accessibilità al trattamento.
La Corte ha statuito, per quattro voti contro tre, la violazione dell’art. 3 della Convenzione.
Il presente caso vede coinvolto un cittadino turco, arrivato in Danimarca nel 1991 all’età di sei anni. Nel 2008, in seguito a una condanna riportata per lesioni personali aggravate commesse da più persone riunite, provocando la morte del soggetto, venne collocato per un periodo indeterminato presso l’unità di sicurezza riservata a soggetti gravemente affetti da patologie psichiatriche. Gli fu diagnosticato il disturbo della «schizofrenia paranoide» e fu disposto nei suoi confronti un decreto di espulsione. Nel 2012, il difensore presentò una richiesta di sostituzione della pena, in seguito alla quale intervenne una modifica da parte del Tribunale di prima istanza, che – sulla base dei referti medici, dei rapporti del servizio immigrazione e delle dichiarazioni del ricorrente – lo affidò a un servizio ospedaliero psichiatrico. Lo stesso tribunale considerò la decisione di espulsione inappropriata, data la situazione medica del ricorrente e le considerazioni dei medici curanti, i quali evidenziarono la necessità di un trattamento continuativo. In aggiunta, il sig. Savran motivò alla Corte l’inopportunità di un ritorno in Turchia, non solo per le condizioni di salute, ma anche per la mancanza di legami familiari e la non conoscenza della lingua turca.
In secondo grado, la Corte d’appello ribaltò la decisione e, insistendo sulla gravità del reato commesso, concluse che lo Stato turco avrebbe offerto un trattamento opportuno. Nel maggio 2015, al ricorrente fu negata l’autorizzazione a ricorrere alla Corte Suprema.
Il cittadino turco sostiene dunque che l’espulsione e il ritorno in Turchia, dato il suo stato di salute, costituiscano una violazione dell’art. 3 e 8 della Convenzione Edu.
La Corte di Strasburgo premette anzitutto che, decretando l’espulsione di un soggetto, le autorità hanno l’obbligo di esaminare caso per caso le cure disponibili nello Stato di destinazione e se tali cure siano o meno adeguate al caso concreto, al fine di evitare una sofferenza che possa ricadere nella fattispecie dell’art. 3. Le condizioni che devono essere poste a fondamento di una decisione di espulsione sono: l’effettività dell’accesso alle cure, il costo del trattamento, l’esistenza o meno di una rete sociale e familiare, nonché l’accessibilità al trattamento, ossia la distanza da percorrere per usufruirne.
Secondo la Corte, nel caso di specie, la necessità della prosecuzione del trattamento e di una somministrazione quotidiana delle cure costituiscono elementi chiave, al fine di evitare il peggioramento delle condizioni psichiche e di assicurare il reinserimento del soggetto nella società. Inoltre, richiedendo il trattamento farmacologico una supervisione quotidiana ed essendo stato diagnosticato il disturbo della «schizofrenia paranoide», in mancanza di una rete familiare e sociale in Turchia, il ricorrente non avrebbe potuto sorvegliare da sé la corretta somministrazione delle cure; una tale situazione avrebbe comportato dunque un aggravamento della sua condizione.
Le autorità danesi avrebbero dovuto assicurarsi la disponibilità di tale assistenza al paziente sul territorio turco. La Corte condivide dunque le conclusioni del giudice di primo grado, secondo cui non era chiaro se il ricorrente, una volta espulso, avrebbe beneficiato di una reale possibilità di ricevere il trattamento necessario, oltre a un controllo costante. Il tribunale di seconda istanza, ribaltando la decisione del giudice di primo grado, senza alcuna verifica né approfondimento, ha considerato effettivo e accessibile il trattamento disponibile nello Stato turco. Le autorità interne avrebbero dovuto ottenere prove effettive, sulla sussistenza delle garanzie delineate, come precondizione per l’espulsione.
Per tali motivi la Corte di Strasburgo riconosce che vi è stata violazione dell’art. 3 della Convenzione e non ritiene necessaria una valutazione separata relativa all’art. 8.
Sentenza della Corte Edu (Grande Camera) 17 ottobre 2019 rich. nn. 1874/13 e 8567/13, López Ribalda e altri c. Spagna
Oggetto: articolo 6 § 1 (diritto a un processo equo), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), videosorveglianza nell’ambiente di lavoro, legittimità e proporzionalità, bilanciamento degli interessi.
La Corte Edu ha statuito, per quattordici voti contro tre, la non violazione dell’art. 8 e, all’unanimità, la non violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione.
La causa López Ribalda e altri c. Spagna nasce dal ricorso di cinque cittadine spagnole che – dipendenti in una catena di supermercati, come cassiere e commesse – lamentano la violazione degli articoli 6 § 1 e 8 della Convenzione, in materia di videosorveglianza negli ambienti di lavoro.
Poiché il supermercato in questione stava subendo perdite economiche, per indagare su tali perdite, il datore di lavoro installò alcune videocamere di sorveglianza, alcune visibili altre nascoste; le ricorrenti vennero avvisate solamente dell’installazione delle telecamere visibili. Dalle immagini riprese nel supermercato nell’arco di dieci giorni risultò che le ricorrenti e altri membri del personale commettevano furti all’interno del negozio; vennero dunque licenziati quattordici dipendenti.
Tre delle ricorrenti firmarono accordi extragiudiziari e, per tali motivi, venne rigettata la loro domanda di fronte al giudice del lavoro. Le due rimanenti invece ricorsero di fronte al giudice del lavoro il quale, operando un bilanciamento tra gli interessi in gioco, concluse che non vi fu violazione del loro diritto al rispetto della vita privata, giudicando il loro licenziamento legittimo e le prove (ossia le immagini ricavate dalla videosorveglianza) valide. Il Tribunale di seconda istanza confermò tale decisione.
La sezione III della Corte Edu, con una sentenza del 9 gennaio 2018, statuì la violazione dell’art. 8, sostenendo che la videosorveglianza perpetrata per un periodo di tempo prolungato non rispettava la normativa in vigore e che le autorità interne erano venute meno al loro dovere di bilanciamento degli interessi in campo.
Giunto il caso al vaglio della Grande Camera, la Corte valuta la questione alla luce dei principi della giurisprudenza (v. sent. Barbelescu c. Romania), secondo cui le autorità interne devono esaminare diversi aspetti per un giusto bilanciamento: se i dipendenti vengono informati dell’attivazione di misure di videosorveglianza; il grado di intrusione di tali misure; se ci sono motivi legittimi che ne giustifichino l’adozione; se vi è la possibilità di adottare misure meno intrusive; quali sono le conseguenze della sorveglianza per i dipendenti; e infine, se vi sono garanzie appropriate per reagire a tali misure.
La Grande Camera rileva che le autorità interne hanno operato un giusto bilanciamento tra i diversi interessi in campo; da un lato il diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata, dall’altro l’interesse del datore di lavoro alla buona gestione della propria impresa. I tribunali spagnoli hanno sostenuto la legittimità di tali interventi, giustificati dal sospetto di furto, e la proporzionalità di questi, dato che si è proceduto ad installare le apparecchiature esclusivamente nei luoghi necessari. Considerazioni che la Grande Camera ha considerato ragionevoli.
In aggiunta, esaminando il «grado di intimità» a garanzia del lavoratore sul posto di lavoro, la Corte sottolinea come tale grado possa essere ridotto nei luoghi aperti al pubblico. Poiché la sorveglianza ha avuto una durata breve – di dieci giorni – le registrazioni sono state viste da un numero ridotto di persone e utilizzate meramente per individuare i responsabili delle perdite dell’impresa, la Corte Edu ritiene che tale ingerenza nel diritto delle ricorrenti non ha raggiunto un livello di gravità tale da costituire una violazione dell’art. 8.
In merito al difetto di comunicazione delle operazioni di sorveglianza, le corti interne hanno giudicato l’ingerenza nella vita privata dei dipendenti proporzionata: la sussistenza di sospetti fondati relativi a gravi irregolarità e l’entità delle perdite costituiscono motivazioni ragionevoli. Inoltre, le ricorrenti avrebbero potuto usufruire di altri rimedi previsti dalla legislazione spagnola, come ad esempio ricorrere all’Agenzia per la protezione dei dati.
Sul profilo dell’art. 6 § 1, relativo all’equità del processo nel suo complesso, la Corte di Strasburgo osserva che le ricorrenti hanno avuto la possibilità di opporsi all’utilizzo delle registrazioni da parte delle autorità a titolo di prova. Avendo le autorità motivato ampiamente le pronunce, l’utilizzo di tali prove non ha costituito pregiudizio all’equità del processo.
La Grande Camera statuisce dunque che non vi è stata violazione né sul profilo dell’art. 6 § 1 né dell’art. 8 della Convenzione, poiché le decisioni delle autorità interne hanno interferito in maniera legittima e proporzionata nei diritti delle ricorrenti.
Sentenza della Corte Edu (Sezione V) 10 ottobre 2019 rich. nn. 4782/18, Lewit c. Austria
Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), libertà di espressione, mezzo stampa, tutela della reputazione, dignità, legge sui media, bilanciamento degli interessi.
La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 8 della Convenzione.
Il ricorrente, un cittadino austriaco sopravvissuto all’Olocausto, lamenta la violazione dell’art. 8 della Convenzione da parte dei tribunali interni, poiché inottemperanti al loro dovere di tutela della reputazione di fronte alle affermazioni diffamatorie divulgate dal periodico Aula.
Nell’estate 2015, venne pubblicato da tale periodico un articolo che qualificava le persone sopravvissute al campo di concentramento di Mauthausen come «assassini di massa», «criminali» e «piaghe». Venne aperto un procedimento, in seguito archiviato. Nel febbraio 2016, il medesimo autore pubblicò tali concetti negli stessi termini, facendo inoltre riferimento al procedimento penale archiviato. Il sig. Lewit e altri nove superstiti agirono in giudizio contro l’autore degli articoli e la testata Aula, affermando che, nonostante non fossero stati nominati personalmente, erano stati diffamati e insultati in qualità di vittime del regime nazionalsocialista, in violazione della legge sui media, nonché richiedendo un risarcimento per il danno morale e il ritiro delle dichiarazioni. Le giurisdizioni interne – sia in primo grado che in appello – rigettarono la domanda, sostenendo che i ricorrenti non fossero direttamente coinvolti dall’articolo e che, limitandosi a riportare l’esito di un’inchiesta giudiziaria, l’articolo del 2016 non avesse alcun proposito diffamatorio.
Sulla ricevibilità della domanda, la Corte Edu ricorda che stereotipi negativi e propositi diffamatori possono recare pregiudizio alla vita privata di un soggetto appartenente a un gruppo; tale è la situazione del ricorrente, che, insieme ad altri sopravvissuti al campo di Mauthausen, costituisce un gruppo sociale. La Corte precisa inoltre che i ricorrenti hanno esperito tutti i gradi di giudizio previsti dalla legislazione sui media.
Sul merito della questione, la quinta sezione ribadisce l’imposizione dettata dall’art. 8, vale a dire la necessità di operare il bilanciamento di tutti gli interessi in campo: del singolo e della società nel suo complesso; bilanciamento su cui le corti interne non si sono pronunciate. Poiché non vi erano precedenti giurisprudenziali in merito all’offesa di un soggetto appartenente a un gruppo numeroso che si riduce ad un gruppo sempre più ristretto, le corti interne non hanno apportato prove sufficienti e motivazioni rilevanti a sostegno della loro tesi (§ 83). La Corte d’Appello, nonostante abbia riconosciuto la mancanza di motivazione nella decisione di primo grado, si è limitata a ribadire tale interpretazione.
La Corte Edu dunque non condivide la pronuncia delle corti interne, secondo cui l’articolo della testata austriaca non ha coinvolto direttamente né personalmente il ricorrente. Data la mancanza di una valutazione approfondita sulla legittimazione ad agire e sulle differenti circostanze delle due pubblicazioni, i giudici di Strasburgo ritengono che le autorità interne non abbiano esaminato opportunamente il nucleo della questione presentata dal sig. Lewit. Le corti austriache non hanno perciò ottemperato al loro obbligo processuale sancito dall’art. 8 della Convenzione, violando così – secondo la Corte Edu – tale disposizione.
Sentenza della Corte Edu (Sezione IV) 8 ottobre 2019 rich. nn. 15428/16, Szurovecz c. Ungheria
Oggetto: articolo 10 (libertà di espressione), libertà di stampa, bilanciamento di interessi, tutela giurisdizionale, inchiesta giornalistica, condizioni di vita dei richiedenti asilo.
La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 10 della Convenzione.
La causa Szurovecz c. Ungheria nasce dal ricorso di un cittadino ungherese – all’epoca dei fatti giornalista della testata online abcug.hu – che denuncia la violazione del diritto alla libertà di espressione sancito dall’art. 10 della Convenzione Edu, poiché le autorità interne gli hanno impedito di osservare personalmente le condizioni di vita in un centro di accoglienza.
Nel settembre 2015, il ricorrente richiese l’autorizzazione ad entrare nel centro di accoglienza di Debrecen, al fine pubblicare un articolo sulle condizioni di vita dei richiedenti asilo – data la crisi dei rifugiati in corso in Ungheria – precisando che non avrebbe fotografato i soggetti senza il loro consenso. La richiesta venne rigettata a tutela della vita privata e della sicurezza degli ospiti della struttura, poiché, già vittime di persecuzione, la diffusione della loro immagine sui media li avrebbe esposti a un rischio ulteriore. Il sig. Szurovecz agì in giudizio, che si concluse tuttavia con una pronuncia di irricevibilità da parte del tribunale amministrativo: il diniego dell’autorizzazione – secondo il giudice amministrativo – non costituiva una decisione amministrativa e, per tale motivo, non rientrava nella sfera di controllo del potere giudiziario.
La Corte, in linea generale, ricorda che uno degli elementi costitutivi della libertà di stampa consiste nella possibilità di condurre ricerche in prima persona e impedire tali ricerche significa ostacolare un sistema di informazione autentico e attendibile. Poiché le autorità non hanno concesso al giornalista Szurovecz l’ingresso al centro e la conseguente raccolta diretta di dati e fotografie, la Corte riconosce che vi è stata ingerenza, nella sua libertà di espressione, da parte dello Stato. Tale ingerenza è altresì fondata su presupposti di legge e persegue uno scopo legittimo – così come richiesto dalla disposizione convenzionale – vale a dire, la protezione della vita privata dei richiedenti asilo.
Tuttavia, secondo i giudici di Strasburgo, la motivazione a fondamento del rigetto della richiesta non era sufficiente: in primo luogo, le autorità interne non hanno valutato il contenuto dell’inchiesta giornalistica, né hanno considerato la rilevanza pubblica del tema; inoltre, non hanno specificato le modalità con cui tale inchiesta avrebbe compromesso la sicurezza degli ospiti. Infine, la Corte – in risposta alle dichiarazioni del Governo – ritiene che non sarebbe stato garantito in egual modo il diritto del ricorrente se avesse dovuto fare riferimento a informazioni e notizie diffuse da Ong o se avesse dovuto effettuare le interviste all’esterno della struttura: un’inchiesta condotta indirettamente non avrebbe avuto il medesimo impatto.
I tribunali ungheresi avrebbero dovuto operare – a parere della Corte – un bilanciamento tra i vari interessi in campo: ma, non sottoponendo la questione al controllo giurisdizionale, tale bilanciamento non è stato effettuato. In conclusione, data l’importanza in una società democratica di riferire su alcune questioni di interesse generale, in presenza di un periodo di crisi dei rifugiati in Ungheria, la decisione delle autorità non ha tenuto conto dell’interesse del giornalista di condurre l’inchiesta in prima persona, né dell’interesse generale della società di ricevere tali informazioni. Vi è dunque stata violazione dell’art. 10.
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Marika Ikonomu, Università Statale di Milano, già tirocinante presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa
Maria Giuliana Civinini, presidente del Tribunale di Pisa