Nel mese di febbraio, tre casi importanti decisi dalla Corte Edu attengono alla presenza di stranieri sul territorio di uno Stato membro. Da un lato, un cittadino marocchino a cui è stato negato il rinnovo del permesso di soggiorno, principalmente a causa della sua pericolosità sociale. Dall’altro, due vicende, che riguardano minori stranieri non accompagnati, in cui i giudici di Strasburgo hanno riscontrato la violazione dell’articolo 3 per le condizioni degradanti a cui sono stati sottoposti, in due diverse realtà: la “giungla” di Calais ed alcune stazioni di polizia della Grecia del Nord. La situazione di queste ultime ha portato la Corte a rilevare, in aggiunta, la violazione degli articoli 5 § 1, 5 § 4 e 13.
Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 14 febbraio 2019 rich. nn. 57433/15, Narjis c. Italia
Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), cittadino marocchino soggiornante in Italia, decreto di espulsione, diritto alla vita familiare, pericolosità sociale.
La Corte ha statuito la non violazione dell’articolo 8
Il ricorrente, cittadino marocchino, a seguito di un ricongiungimento familiare, avendo il padre un permesso di soggiorno come commerciante ambulante, fece ingresso sul territorio italiano nel 1989. Alla morte del padre, l’attività fu rilevata prima dalla madre e poi dalle sorelle. Nel 1996, il sig. Narjis divenne titolare di un permesso di soggiorno per motivi familiari.
Il suo casellario giudiziale conta 19 iscrizioni, tra cui furto aggravato, rapina, ricettazione, detenzione e porto abusivo di armi. Durante la detenzione, il 16 gennaio 2010 fece richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno, la quale venne rigettata dal questore per motivi di pericolosità sociale. Ricorse, dunque, al TAR; nell’attesa della sentenza, il prefetto di Milano ordinò l’espulsione del ricorrente, decisione poi contestata dal soggetto dinanzi al giudice di pace di Milano. Quest’ultimo attese la decisione del TAR, il quale rigettò il ricorso, rigetto poi confermato anche dal Consiglio di Stato. Durante l’attesa della decisone del tribunale amministrativo, il ricorrente lasciò il territorio italiano, stabilendosi in Marocco, dove si trova tuttora, nonostante il 16 aprile 2016 fu emesso un nuovo avviso di ricerca a seguito di una condanna per ricettazione.
Il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 8 della Convenzione, sostenendo che, avendo vissuto la maggior parte della sua vita in Italia, «le autorità italiane non abbiano tenuto sufficientemente conto di questo elemento nell’esercizio del bilanciamento dei diversi interessi in gioco richiesto dalla giurisprudenza della Corte» (§ 27).
La Corte fa una valutazione in merito all’ingerenza dello Stato italiano nella vita privata e familiare del ricorrente, poiché vista la lunga permanenza del soggetto in Italia (20 anni) la decisione di rigetto costituisce, senza dubbio, un’ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata. Tuttavia, il sig. Narjis «non ha dimostrato l’esistenza di ulteriori elementi di dipendenza, al di là di normali legami affettivi» familiari (§ 35); pertanto la Corte non esamina la doglianza sul profilo della “vita familiare”.
L’articolo 8 richiede che l’ingerenza dello Stato sia «prevista dalla legge», abbia uno «scopo legittimo» e che sia una misura necessaria in una società democratica. Sul primo profilo, la Corte ritiene che le disposizioni del T.U. in materia di immigrazione siano chiare e precise. Gli scopi legittimi individuati dai giudici di Strasburgo, inoltre, giustificano l’ingerenza, essendo la «difesa dell’ordine» e la «prevenzione di reati» previsti dal comma 2 dell’articolo 8 della Convenzione. Infine, per quanto attiene al terzo profilo, la Corte, da un lato, sottolinea la tendenza manifesta e crescente del soggetto alla recidiva, dall’altro, «alla luce del suo percorso delittuoso, dell’uso corrente di stupefacenti e della sua apparente incapacità di integrarsi nel mondo del lavoro, le autorità italiane potevano legittimamente dubitare della solidità dei suoi legami sociali e culturali nel paese ospitante» (§ 48). La Corte riconosce l’accuratezza del Consiglio di Stato nell’esame di tutte le circostanze rilevanti per un equo bilanciamento degli interessi, sia «del ricorrente alla tutela della sua vita privata», sia «dello Stato alla salvaguardia dell’ordine pubblico» (§ 49), nonché l’esercizio da parte del TAR del suo ruolo di giudice convenzionale.
La Corte Edu dichiara, dunque, che non vi è stata alcuna violazione dell’articolo 8.
***
Sentenza della Corte Edu (Sezione V) 28 febbraio 2019 rich. nn. 12267/16, Khan c. Francia
Oggetto: articolo 3 (proibizione della tortura), minore straniero non accompagnato, trattamento inumano e degradante.
La Corte ha deliberato la violazione dell’articolo 3
Il ricorso ha per oggetto le condizioni di vita di un minore straniero non accompagnato, dodicenne all’epoca dei fatti, sul territorio francese, più precisamente nella zona Sud della landa di Calais. Il minore, non essendo stato preso in carico dalle autorità francesi, visse sei mesi all’interno di una baracca. Un’ong ricorse ad un giudice minorile, il 19 febbraio 2016, chiedendo un collocamento provvisorio per il soggetto. Con un’ordinanza del 22 febbraio 2016, il giudice ordinò la presa in carico del ricorrente dall’assistenza sociale ai minori, nel termine di un mese, per garantirgli una forma di protezione e permettergli il ricongiungimento familiare in Gran Bretagna.
Tuttavia, il minore lamenta di non aver ricevuto alcuna protezione, né dal dipartimento del Pas-de-Calais, né dal prefetto. Il 2 marzo 2016, iniziarono le operazioni di smantellamento della zona Sud, le quali provocarono la distruzione dell’abitazione del ricorrente, che trovò rifugio nella zona Nord. Nelle settimane successive, il minore entrò clandestinamente in Gran Bretagna.
La V Sezione della Corte ha statuito la violazione dell’articolo 3 sotto il profilo materiale. Quella del minore viene considerata dalla Corte una situazione di estrema vulnerabilità ed essa prevale sull’illegalità del suo soggiorno (§74). Il rapporto del Difensore dei diritti ha giudicato la landa una «bidonville», in cui la maggioranza dei migranti si trovava a vivere in condizioni indegne (§ 12). Il ricorrente infatti, per inazione delle autorità francesi, ha vissuto per sei mesi in un ambiente manifestamente inadatto alla sua condizione di minore, caratterizzato soprattutto da precarietà, insicurezza ed insalubrità, nonché dal rischio di subire violenze fisiche, incluse violenze sessuali (§ 93). Anche i giudici del Consiglio di Stato hanno rilevato una carenza strutturale che esponeva tutti i soggetti a trattamenti inumani o degradanti, provocando così gravi violazioni ad una libertà fondamentale (§ 15).
I giudici di Strasburgo, nell’analisi dell’adempimento dei doveri delle autorità competenti, ricordano che queste non avevano neppure identificato il ricorrente come minore straniero non accompagnato. Alle autorità pertiene inoltre la responsabilità di non aver condotto il soggetto presso l’abitazione designata, responsabilità che non spettava né alle organizzazioni non governative, né all’avvocato, tantomeno all’amministratore ad hoc che era stato designato.
La Corte riconosce la complessità della situazione, soprattutto tenendo conto dell’elevato numero di soggetti presenti all’epoca nella “giungla” di Calais, così come la difficoltà di individuare i minori stranieri non accompagnati e fornire loro un’accoglienza consona. Tuttavia, le autorità non hanno fatto tutto ciò che era ragionevole per rispondere all’obbligo di presa in carico e di protezione del soggetto. Considerata la giovane età del ricorrente e la precarietà dell’ambiente in cui è stato costretto a vivere per vari mesi, nonché la non esecuzione dell’ordinanza da parte delle autorità, la Corte ritiene che lo Stato francese non abbia assolto le obbligazioni dettate dalla Convenzione e giudica la situazione, costitutiva di trattamenti degradanti, contraria all’articolo 3.
***
Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 28 febbraio 2019 rich. nn. 19951/16, H.A. e altri c. Grecia
Oggetto: articolo 3 (proibizione della tortura), articolo 5 § 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza), articolo 5 § 4 (diritto a che si decida entro breve termine sulla legittimità della detenzione), articolo 13 (diritto ad un ricorso effettivo), in combinato disposto con l’articolo 3, minori stranieri non accompagnati, condizioni di detenzione, trattamenti degradanti.
La Corte ha deliberato la violazione degli articoli 5 § 1, 5 § 4, 3 (per quanto concerne le condizioni delle stazioni di polizia in generale), 13
La causa H.A. e altri c. Grecia riguarda il trattenimento di nove minori non accompagnati in alcune stazioni della polizia. I minori, tra i 14 ed i 17 anni, provenienti da Siria, Iraq e Marocco, entrarono in Grecia con l’obiettivo di recarsi in altri Paesi europei. Trattenuti nelle stazioni di polizia dai 21 ai 33 giorni, i ricorrenti denunciano le loro condizioni di detenzione: lamentano il sovraffollamento delle celle, la mancanza di riscaldamento, aereazione e illuminazione, la pessima qualità del cibo, le violenze fisiche e psicologiche perpetrate da alcuni poliziotti, a cui si aggiunge la limitazione alla libertà di circolazione (§ 17).
I minori vennero poi trasferiti in un centro di accoglienza aperto a Diavata, dove è presente una zona destinata ai minori non accompagnati, la cd. safe zone, gestita dall’ong Arsis. In seguito, furono collocati in una struttura di accoglienza riservata esclusivamente ai minori non accompagnati. I soggetti lamentarono le condizioni di detenzione davanti ai tribunali greci, tuttavia, i casi vennero archiviati.
I ricorrenti sollevano dunque la violazione di diversi articoli della Convenzione. Anzitutto, la Corte rileva la violazione dell’articolo 3, per i trattamenti degradanti subiti dai minori presso diverse stazioni di polizia. Il solo luogo di accoglienza che non ha raggiunto la soglia di gravità dell’articolo 3 è il centro di Diavata, una safe zone creata per rispondere ai bisogni dei minori non accompagnati. Gli altri luoghi di detenzione, al contrario, presentavano caratteristiche atte a far nascere un sentimento di solitudine ed isolamento, afferma la Corte. Lo stato delle stazioni di polizia non era idoneo ai bisogni di incarcerazione prolungata: non vi era uno spazio esterno in cui circolare liberamente, nessuna struttura interna di ristorazione, nessun contatto con il mondo esterno, né attraverso la radio né attraverso la televisione e, infine, l’assenza di un’assistenza o un sostegno psicologico e sociale, mancanza considerata inaccettabile. La gravità delle violazioni, inoltre, aumenta per il solo fatto della minore età dei soggetti, considerati vulnerabili.
La prima sezione ha poi rilevato la violazione dell’articolo 13, in combinato disposto con l’articolo 3, non essendo stato garantito il diritto dei soggetti ad un ricorso effettivo: ai soggetti non era dato di sapere la durata della loro detenzione e la loro collocazione nel centro di accoglienza di Diavata è avvenuta grazie all’intervento dell’ong. Inoltre, passati sei mesi dal deposito dell’esposto, riguardante le condizioni di detenzione, il procuratore dispose l’archiviazione, dopo aver sentito alcuni detenuti adulti reclusi nelle stesse stazioni di polizia.
La privazione della libertà e l’impossibilità di comunicare con gli avvocati hanno portato la Corte a rilevare la violazione dell’articolo 5, in particolare dei paragrafi 1 e 4. La permanenza dei minori nelle stazioni di polizia, nonostante siano state giustificate dalla necessità di proteggere i soggetti, è considerata dai giudici di Strasburgo una privazione della libertà. Il diritto interno non prevede né la cd. custodia protettiva per i minori non accompagnati, né un limite temporale. La situazione si aggrava nella misura in cui la privazione della libertà avviene in condizioni di detenzione incompatibili con una permanenza di lungo periodo. Inoltre, si ricorda che molti strumenti internazionali prevedono la detenzione dei minori esclusivamente in ultima istanza e chiedono che venga evitata ogniqualvolta sia possibile, oltre all’obbligo, che compete alle autorità, di realizzare l’interesse superiore del minore nell’adozione delle decisioni.
Infine, i nove minori ricorrenti non sono stati messi nelle condizioni di ricorrere ad un’autorità giudiziaria per contestare le condizioni di detenzione. È stato negato loro ogni contatto con l’avvocato, circostanza che non ha permesso loro di agire per accelerare il trasferimento in una struttura adeguata. Peraltro, non avendo ufficialmente lo status di detenuti, non fu concesso loro di iniziare una procedura innanzi al tribunale amministrativo. Vi è stata dunque violazione dell’articolo 5 § 4.