Nel caso Vool e Toomik c. Estonia, la Corte affronta un’ipotesi di disparità di trattamento tra detenuti in via cautelare e definitiva, quanto alle prescrizioni di durata degli incontri coi parenti. In concreto, la finalità di garantire lo svolgimento delle indagini e l’integrità del quadro probatorio non sembra giustificare la disparità con riguardo alla concessione di incontri di lunga durata. La sentenza assume rilevanza anche interna perché richiede standard motivazionali specifici (la valutazione dell’impatto della custodia cautelare sul diritto al rispetto della vita familiare del detenuto e la rivalutazione della persistenza delle prescrizioni associate alla cautela) nell’ambito di un regime che spesso dipende da indicazioni dell’amministrazione penitenziaria, piuttosto che dei giudici.
La rilevanza del vincolo familiare nell’esecuzione di provvedimenti detentivi emerge anche nel caso N.B. e Altri c. Francia. La Corte valuta la legittimità delle condizioni di detenzione amministrativa di un minore in attesa di rimpatrio coi genitori. In generale, lo status di particolare vulnerabilità in capo al minore deve prevalere su quello di clandestinità dei genitori. Le indicazioni europee risultano utili per allineare alla Convenzione anche i Centri di permanenza per il rimpatrio italiani (attualmente sotto il vaglio della Corte). Quanto ai legami familiari, il maltrattamento subito dal minore non rappresenta automaticamente una fonte di violazione nei confronti dei genitori, i quali sono tenuti a dimostrare l’esistenza di una lesione aggiuntiva rispetto all’inevitabile angoscia per la detenzione del figlio.
In Grzęda c. Polonia, la Corte si interroga sulla legittimità della riforma polacca sull’ordinamento giudiziario e, in particolare, delle disposizioni riguardanti l’organo di autogoverno della magistratura sotto il profilo dell’indipendenza del singolo magistrato e del rispetto delle garanzie procedurali e sostanziali in occasione della sua rimozione ex lege da un incarico prima della naturale scadenza del mandato.
Infine, nella causa Y e Altri c. Bulgaria, la Corte ha condannato le autorità bulgare per mancato assolvimento dei propri obblighi positivi di protezione del diritto alla vita in un episodio di violenza domestica sfociato con l’uccisione di una donna a causa delle carenze investigative e delle omesse misure di protezione volte a prevenire la probabile aggressione da parte del marito. Nonostante la condanna, la Corte ha però ritenuto di non condannare le autorità bulgare sotto il diverso profilo della discriminazione di genere, giudicando come non provato il nesso tra le carenze degli organi di pubblica sicurezza e un generale e diffuso contesto discriminatorio causalmente connesso alla prima violazione.
Sentenza della Corte Edu (Terza Sezione), 29 marzo 2022, ric. n. 7613/18 e 12222/18, Vool e Toomik c. Estonia
Oggetto: Articolo 14 (Divieto di discriminazione) e articolo 8 (Rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione – custodia cautelare e diritto di ricevere visite di lunga durata – detenuto in custodia cautelare soggetto a restrizioni supplementari rispetto al detenuto in via definitiva.
I ricorsi sottoposti alla Corte di Strasburgo riguardano il divieto ex lege, per i detenuti in via cautelare, di ricevere visite familiari di lunga durata, nonostante le medesime visite siano generalmente autorizzate nei confronti dei detenuti in via definitiva.
Il primo ricorrente era indagato per estorsione e partecipazione ad associazione criminale. Il Tribunale lo sottoponeva alla custodia cautelare detentiva in virtù del ragionevole sospetto che egli avesse commesso i suddetti reati e che, se rilasciato, avrebbe potuto reiterarli. La Corte d’Appello confermava siffatta decisione, rilevando, in merito alla circostanza che il ricorrente avesse un partner convivente, che ciò non gli avesse sinora impedito di svolgere attività criminali, sicché non v’era motivo per ritenere adeguato un diverso tipo di cautela. Con analogo argomentare veniva rigettata una successiva istanza di sostituzione della detenzione col monitoraggio elettronico.
In seguito, il Tribunale prorogava il termine di detenzione del primo ricorrente, ritenendo sufficientemente provato che il ricorrente avesse mantenuto i rapporti con l’associazione criminale di appartenenza anche dopo essere stato sottoposto a procedimento penale.
Fino alla condanna di primo grado, in più occasioni il Tribunale ha reiterato la custodia, senza però valutare né il perdurare dei motivi di custodia né l’impatto di quest’ultima sulla vita privata e familiare del ricorrente, a causa della sua impossibilità di avere visite di lunga durata.
L’’ufficio del procuratore generale, infatti, basandosi sul codice di procedura penale, aveva ordinato il completo isolamento del primo ricorrente dagli altri detenuti, nonché la limitazione del suo diritto alle visite, ai congedi in carcere, alla corrispondenza, all’uso del telefono. Il pubblico ministero riteneva necessario un controllo completo sui contatti del primo ricorrente per impedire efficacemente la sua comunicazione con i membri della stessa organizzazione criminale o con persone che avessero accesso a prove rilevanti per l’indagine; anche quando comunicava con la famiglia, il primo ricorrente poteva trasmettere informazioni e minacce capaci di influenzare le persone informate sui fatti.
Dopo qualche mese, il procuratore generale revocava parzialmente le restrizioni supplementari, su richiesta del ricorrente, per consentire visite, corrispondenza e telefonate di breve durata con la convivente, la madre e il fratello; viceversa rigettava la richiesta di visite di lunga durata, in quanto vietate dalla legge. Progressivamente, venivano revocate anche le altre restrizioni. Complessivamente il ricorrente fruiva di cinquantuno visite di breve durata, nell’arco di due anni, ciascuna di settanta minuti; di 351 telefonate; di indefinita comunicazione tramite corrispondenza e pacchi. Quanto al divieto di visite di lunga durata, il ricorrente sollevava un’eccezione di incostituzionalità. La Corte Suprema riteneva di doverla valutare, non in via generale, bensì in relazione a detenuti specifici, a circostanze specifiche. Nel caso di specie, il divieto di visite di lunga durata era proporzionato nei confronti del primo ricorrente, al fine di scongiurare la manipolazione dei testimoni e delle vittime e la distruzione delle prove. L’organizzazione criminale di cui il ricorrente era accusato di far parte coinvolgeva anche i parenti più prossimi dei suoi membri; in essa, minacce e violenza potevano considerarsi un modus operandi caratteristico, tant’è vero che le si attribuivano reati fine quali l’estorsione. In ordine alla differenza di trattamento tra detenuti in via cautelare e definitiva, la Corte suprema la riteneva giustificata, posto che questi ultimi non potevano più compromettere il proprio procedimento penale.
Il secondo ricorrente, indagato per traffico di stupefacenti, veniva sottoposto a custodia cautelare per scongiurare il pericolo di reiterazione, dimostrato dalle numerose condanne penali già subite sia in Estonia che in altri paesi, sia il pericolo di latitanza. Il Tribunale prorogava la custodia ritenendo persistenti entrambi i rischi. La Corte d’Appello confermava la decisione valutando anche le ripercussioni della detenzione sulla vita privata e familiare del ricorrente.
In seguito, il Tribunale rinviava a giudizio il secondo ricorrente e ne rigettava le richieste di sostituzione della detenzione col monitoraggio elettronico, nonché di revoca delle restrizioni aggiuntive quanto ai contatti e alle comunicazioni coi familiari, per il rischio che i testimoni venissero in qualche modo influenzati.
Inizialmente, l’ufficio del procuratore gli vietava le visite di breve e lunga durata, il diritto alla corrispondenza e l’uso del telefono tra lui e i suoi parenti più prossimi, per impedirgli di diffondere informazioni sul corso del procedimento penale e influenzare potenziali testimoni. In seguito, la Corte d’Appello revocava tutte le restrizioni e consentiva al ricorrente di corrispondere con la compagna convivente, la madre e i figli, di usare il telefono e di avere visite di breve durata, Il secondo ricorrente fruiva altresì di un incontro di lunga durata con la partner convivente.
Nel 2019, la Corte suprema, in un caso non riguardante alcuno dei due ricorrenti rilevava, in virtù di circostanze concrete, dichiarava l’incostituzionalità del divieto, per il detenuto in via cautelare, di visite di lunga durata coi parenti più prossimi, soprattutto col bambino di quattro anni (né vittima né testimone del procedimento). La Corte accordava effetti retroattivi alla sentenza nei confronti del ricorrente e di coloro che al momento della sentenza avessero impugnato una decisione di rigetto dell’istanza di visite di lunga durata.
Sulla base di siffatta decisione, i ricorrenti hanno chiesto di riaprire i loro procedimenti, richieste rigettate.
I ricorrenti lamentano dunque dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la violazione dell’articolo 8 della Convenzione, in combinato disposto con l’articolo 14, nella misura in cui il diritto interno gli ha impedito di avere visite di lunga durata coi loro partner, a differenza di quanto concesso ai detenuti condannati in via definitiva.
La Corte ribadisce che l’articolo 14 della Convenzione protegge le persone che si trovano in situazioni analoghe dall’essere trattate in modo diverso e senza giustificazione nel godimento dei loro diritti e libertà della Convenzione. Non ha “un’esistenza autonoma”, potendo essere invocato solo in relazione ai diritti e alle libertà salvaguardati dalle altre disposizioni sostanziali della Convenzione.
In particolare, l’applicabilità dell’articolo 8 in combinato disposto con l’articolo 14 della Convenzione, quanto al trattamento riservato a detenuti in via cautelare o definitiva, è già stata affrontata. La Corte ha anche avuto modo di stabilire che più della metà degli Stati contraenti consente le visite coniugali ai detenuti (con una serie di restrizioni diverse), senza tuttavia farne derivare un obbligo in base alla Convenzione.
Nel caso di specie, poiché il governo convenuto ha ammesso l’esistenza di una disparità di trattamento tra le due tipologie di detenuti, argomentandone la differente finalità, risulta pacifica l’applicabilità delle norme invocate dai ricorrenti.
Resta da valutare se la diversità di trattamento, con riguardo specificamente alle visite di lunga durata, possa essere considerata legittima. Di norma, sussiste una violazione se la medesima difetta di giustificazione obiettiva e ragionevole, in altre parole, se non persegue uno scopo meritevole o se non esiste un rapporto di proporzionalità tra mezzi impiegati e scopo perseguito.
In concreto, i giudici nazionali hanno fondato le restrizioni carcerarie, compresi gli incontri coi familiari, durante la custodia preventiva, in virtù dell’esigenza di garantire l’efficacia delle indagini, un obiettivo in effetti non pertinente rispetto ai detenuti condannati in via definitiva.
Si tratta di uno scopo legittimo e astrattamente idoneo a giustificare una differenza di trattamento. Tuttavia, occorre valutarne l’idoneità anche in concreto.
Benché nel diritto interno la situazione familiare di una persona sia uno degli aspetti da prendere in considerazione quando la si pone in custodia cautelare, i giudici nazionali non l’hanno valutata con riguardo al primo ricorrente, avendo semplicemente constatato che avere un partner convivente non aveva impedito in passato le attività criminali. Questi era accusato di estorsione e partecipazione a organizzazione criminale, sicché i motivi principali della sua detenzione preventiva erano la necessità di impedirgli di commettere altri reati, compresi quelli contro l’amministrazione della giustizia. In concreto, i giudici consideravano il rischio che la compagna convivente potesse essere utilizzata nel tentativo di ostacolare il processo di raccolta delle prove. Tuttavia, il divieto di incontri a lungo termine è proseguito anche dopo che l’ufficio del procuratore aveva gradualmente eliminato tutte le ulteriori restrizioni di contatto e comunicazione, compresa quella con le persone detenute nell’ambito dello stesso procedimento penale, sicché i giudici nazionali non hanno spiegato perché il rischio inerente alle visite a lungo termine senza supervisione fosse di tale portata da giustificare un divieto prolungato per circa due anni, dopo che tutte le altre restrizioni di contatto e comunicazione erano state eliminate. L’importanza di fornire ragioni pertinenti per tali restrizioni aumenta col passare del tempo che la persona trascorre in detenzione preventiva.
Per quanto riguarda il secondo ricorrente, i giudici nazionali hanno preso atto dell’interferenza con la sua vita familiare, ma hanno accordato prevalenza alle esigenze del procedimento penale. Egli era accusato di ricettazione illegale di grandi quantità di stupefacenti e vantava diversi precedenti. I tribunali nazionali hanno ritenuto la custodia necessaria per evitare che commettesse altri reati legati alla droga e che si rendesse latitante. Il partner convivente del ricorrente non risulta essere stato né un testimone né un co-accusato nello stesso procedimento penale o essere stato sospettato di essere coinvolto in altre attività criminali. Dal ragionamento della Corte Suprema risulta piuttosto che il divieto delle visite di lunga durata è stato considerato utile allo scopo di impedire al ricorrente di commettere ulteriori reati in generale, e che il rischio di esercitare un’influenza indebita sullo svolgimento del procedimento penale era legato (almeno dopo la revoca delle restrizioni aggiuntive) alla natura delle accuse in quanto tali.
Benché le visite di lunga durata senza supervisione potrebbero comportare un rischio più elevato che i membri della famiglia siano convinti di aiutare l’imputato a minare il procedimento penale, la Corte rileva come il divieto sia continuato anche dopo che i tribunali avevano gradualmente eliminato le altre restrizioni di contatto e di comunicazione.
Con riguardo a entrambi i ricorrenti, vi è stata quindi una violazione dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8 della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 31 marzo 2022, ric. n. 49775/20, N.B. e Altri c. Francia
Oggetto: Articolo 3 della Convenzione (Proibizione della tortura), aspetto sostanziale – detenzione amministrativa di un minore di anni 8 – presenza dei genitori ma inadeguatezza del centro; articolo 34 della Convenzione (Ricorsi individuali) – ritardo nell’esecuzione delle misure provvisorie per cessare la detenzione del minore – mancanza di giustificazione.
I ricorrenti, di nazionalità georgiana, lasciavano il loro paese ed entravano illegalmente in Francia, ove l’Ufficio per la protezione dei rifugiati e degli apolidi (OFPRA) respingeva le richieste di asilo.
Il prefetto delle Ardenne ordinava quindi a N.B. e N.G. di lasciare la Francia con un termine per la partenza volontaria (provvedimento confermato dal tribunale amministrativo).
Poiché i ricorrenti non si conformavano spontaneamente alle misure, il prefetto disponeva gli arresti domiciliari, anch’essi impugnati davanti al tribunale amministrativo, e procedeva all’allontanamento forzato dei ricorrenti, prenotando il volo per la Georgia del 7 novembre 2020.
Nel frattempo, a partire dal 6 novembre 2020, i ricorrenti venivano collocati, insieme al figlio, nel centro di detenzione amministrativa di Metz.
Il 7 novembre 2020, l’amministrazione chiedeva di prenotare un nuovo volo scortato tra il 1° e il 4 dicembre 2020, nel quadro delle misure di lotta contro il Covid, dopo l’entrata in vigore di un accordo franco-georgiano.
Il giudice della libertà del tribunale di Metz autorizzava la proroga della detenzione di N.B. e N.G. per un periodo di 28 giorni.
I ricorrenti adivano in via provvisoria la Corte di Strasburgo ai sensi dell’art. 39 del suo regolamento, la quale, in data 13 novembre, indicava al governo francese far cessare la detenzione amministrativa.
Con un’ordinanza del 19 novembre, il giudice del procedimento sommario ordinava al prefetto delle Ardenne di porre fine alla loro detenzione entro 24 ore dalla notifica dell’ordinanza.
Il giorno successivo, l’agente del governo francese informava la Corte europea che i ricorrenti erano stati portati in Georgia.
La Corte di Strasburgo ha già avuto modo di valutare l’istituto francese della detenzione amministrativa nei minori (esemplificativamente nel caso di M.D. e A.D. c. Francia) alla luce dell’art. 3 della Convenzione, prendendo in considerazione i seguenti tre fattori: l’età dei minori, l’idoneità o meno dei locali per i loro bisogni specifici e la durata della detenzione.
Nel caso di specie, benché il minore fosse accompagnato da entrambi i genitori durante la detenzione, tale circostanza non è sufficiente per ritenere assolto l’obbligo dell’autorità di proteggerlo e di adottare misure adeguate in virtù dell’art. 3.
Lo status di particolare vulnerabilità del minorenne è decisivo e prevale sullo status di straniero in irregolare del genitore.
In ordine al criterio relativo all’età, un bambino di otto anni (sebbene la casistica convenzionale abbia interessato minori d’età inferiore) vanta sicuramente una posizione di particolare vulnerabilità
In ordine alle condizioni di accoglienza, la Corte sottolinea i seguenti profili: il centro di Metz-Queuleu risulta autorizzato ad accogliere le famiglie; la presenza nel centro di annunci all’altoparlante espone le persone detenute a un grave inquinamento acustico; il cortile esterno della zona di soggiorno dedicata alle famiglie è separato dalla zona riservata ad altri detenuti da una semplice recinzione, permettendo così ai detenuti di vedere tutto ciò che vi accade; sebbene vi siano strutture per bambini e neonati, il centro è caratterizzato dall’onnipresente dimensione di sicurezza.
Nel complesso, le condizioni detentive di Metz-Queuleu rappresentano una fonte importante di stress e di ansia per un bambino piccolo, ma non sono di per sé sufficienti a soddisfare la soglia di gravità richiesta per rientrare nel campo di applicazione dell’art. 3.
Tuttavia, il passare del tempo può determinare il superamento di suddetta soglia. Sul punto, si rileva che le autorità nazionali hanno inizialmente adottato tutte le misure necessarie per eseguire il trasferimento il più rapidamente possibile e quindi limitare la durata della detenzione. D’altronde, il comportamento dei genitori, vale a dire il rifiuto dei ricorrenti d’imbarcarsi, non è decisivo.
In conclusione, la Corte ritiene che la detenzione di un minore di otto anni, nelle suddette condizioni di stress, per una durata di quattordici giorni sia stata eccessiva rispetto alle esigenze dell’articolo 3
Per quanto riguarda i genitori, la Corte affronta la questione della configurabilità di una violazione nei loro confronti a causa dei maltrattamenti subiti dal figlio. A tal fine, occorre dimostrare l’esistenza di fattori particolari e aggiuntivi rispetto all’angoscia emotiva che, inevitabilmente, deriva in capo ai parenti della vittima di gravi violazioni: la vicinanza del rapporto parentale, le circostanze particolari del rapporto, la misura in cui il parente ha assistito agli eventi in questione, il modo in cui le autorità hanno reagito alle denunce dei ricorrenti.
Nella fattispecie, la Corte ritiene che il ricorso dei genitori, nella parte in cui lamentano sofferenze proprie nel centro di detenzione, non sia fondato. Sebbene la detenzione amministrativa col figlio possa aver ingenerato un sentimento d’impotenza, angoscia e frustrazione, la Corte non è quindi in grado di concludere, sulla base del materiale del fascicolo, che essi si siano trovati in una situazione tale da raggiungere la soglia di gravità richiesta per rientrare nel campo di applicazione dell’art. 3.
L’ultimo aspetto da affrontare è il ritardo del governo francese nell’eseguire le misure provvisorie indicate dalla Corte. È principio giurisprudenziale consolidato che il mancato rispetto di una misura provvisoria possa comportare la violazione dell’art. 34 della Convenzione.
Nello specifico, il governo convenuto è stato informato della misura provvisoria il 13 novembre 2020. Solo venerdì 20 novembre 2020 il governo rispondeva alla Corte, informandola che i ricorrenti erano stati imbarcati per la Georgia.
In mancanza di qualsiasi giustificazione per il ritardo, la Corte conclude che le autorità francesi sono venute meno agli obblighi loro imposti dall’art. 34.
Sentenza della Corte EDU (Grande Camera), 15 marzo 2022, rich. n. 43572/18, Grzęda c. Polonia
Oggetto: Articolo 6 della Convenzione (materia civile), accesso alla corte, mancanza di controllo giurisdizionale, cessazione prematura ex lege del ruolo di un giudice della Corte amministrativa suprema, sussistenza di un diritto civile ai sensi della Convenzione, indipendenza della magistratura, integrità del processo di nomina, garanzie procedurali per licenziamento o rimozione dei giudici.
Il ricorrente era un giudice della Corte suprema amministrativa della Polonia che, in conformità con le disposizioni costituzionali e legislative all’epoca vigenti, è stato eletto dall’Assemblea generale dei giudici di quel tribunale per svolgere un mandato di quattro anni come membro del Consiglio nazionale della magistratura (NCJ). Tuttavia, il suo mandato come membro del NCJ è terminato prematuramente (due anni dopo la nomina), a seguito dell’entrata in vigore di una nuova legislazione nel contesto di una riforma giudiziaria più generale. In particolare, la nuova legislazione modificava la legge sul NCJ del 2017, prevedendo che i membri giudiziari del NCJ non fossero più eletti dai giudici ma dal Sejm (una delle due camere del parlamento polacco), e che i mandati dei membri giudiziari del NCJ eletti sulla base delle disposizioni precedenti restassero in carica solo fino al giorno precedente l’inizio del mandato dei suoi nuovi membri eletti. Pertanto, quando il Sejm ha eletto 15 giudici come nuovi membri del NCJ, il mandato del ricorrente come membro giudiziario del NCJ è cessato ex lege senza alcun preavviso ufficiale.
Di fronte alla Corte Europea, basandosi sugli articoli 6 § 1 (diritto a un processo equo) e 13 (diritto a un ricorso effettivo), il ricorrente lamentava di essersi visto negare l’accesso a un tribunale in quanto non c’era stata la possibilità di contestare la cessazione della sua appartenenza al NCJ, e la mancanza di un ricorso effettivo a tale riguardo. La Camera semplice di fronte alla quale era pendente il ricorso rinunciava alla propria competenza a favore della Grande Camera.
La Corte nel valutare la violazione dell’articolo 6, §1, della Convenzione ha tenuto conto delle precedenti sentenze già emesse contro la Polonia, relative alla riorganizzazione del sistema giudiziario[1], delle sentenze della Corte costituzionale polacca, della Corte suprema e della Corte amministrativa suprema, e della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE)[2], nonché di molteplici rapporti e valutazioni delle istituzioni europee e internazionali.
In via preliminare, la Corte ha stabilito l’applicabilità dell’Articolo 6 della Convenzione in materia civile. La controversia, infatti, ha sollevato una questione nuova circa l’applicabilità della protezione convenzionale in caso di cessazione prematura del mandato del ricorrente come membro giudiziario della NCJ, il quale però manteneva il suo servizio come giudice.
Seguendo la sua consolidata giurisprudenza la Corte ha ricordato che, affinché l’articolo 6 § 1 nel suo profilo “civile” sia applicabile, deve esserci una controversia su un “diritto” che possa dirsi essere riconosciuto dall’ordinamento interno, a prescindere dal fatto che tale diritto sia protetto dalla Convenzione. In altri termini, l’articolo 6 § 1 non può garantire né creare un diritto sostanziale che già non abbia una base giuridica nell’ordinamento interno dello Stato interessato. Di regola, spetta alle autorità giudiziarie nazionali il compito di interpretare la legislazione interna per accertare la sussistenza di un “diritto”. Per converso, salvo che l’interpretazione dei giudici nazionali non sia arbitraria o manifestamente irragionevole, la Corte si deve limitare a verificare che gli effetti di tale interpretazione non siano incompatibili con la Convenzione.
In materia di pubblico impiego, la natura “civile” del diritto deve essere interpretata alla luce della disciplina generale di diritto del lavoro che regola i rapporti tra privati oppure può basarsi sulle disposizioni speciali disciplinanti l’esercizio di funzioni pubbliche. Esistono anche sistemi misti, che combinano le norme di diritto del lavoro applicabili nel settore privato con alcune norme specifiche applicabili alla funzione pubblica.
Nella controversia in esame la Corte ha fatto applicazione dei criteri già stabiliti nella causa Vilho Eskelinen[3]. Per quanto riguarda i dipendenti pubblici impiegati nella pubblica amministrazione, secondo i criteri Eskelinen lo Stato convenuto non può invocare davanti alla Corte lo status di dipendente pubblico del ricorrente per giustificare la mancata protezione sancita dall’articolo 6 con riferimento all’accesso a un tribunale, a meno che non siano soddisfatte due condizioni: (α) che lo Stato nel suo diritto nazionale abbia espressamente escluso l’accesso a un tribunale per il posto o la categoria di personale in questione e (β) che tale esclusione sia giustificata da motivi oggettivi nell’interesse dello Stato. Affinché l’esclusione sia giustificata, non basta dimostrare l’esercizio del potere pubblico da parte del dipendente o un rapporto fiduciario particolarmente forte con l’amministrazione statale-datrice di lavoro. È altresì necessario che venga provato che la controversia per cui di richiede il controllo giurisdizionale sia legata all’esercizio del potere statale o abbia compromesso il rapporto di fiducia e lealtà[4].
Vige una generale presunzione di applicabilità dell’articolo 6 della Convenzione. Spetterà allo Stato convenuto dimostrare, in primo luogo, che un dipendente pubblico non ha un diritto di accesso ad un tribunale in base al diritto nazionale e, in secondo luogo, che l’esclusione dei diritti di cui all’articolo 6 per il dipendente pubblico è giustificata.
I criteri Eskelinen trovano applicazione anche nelle controversie riguardanti i giudici: nonostante la magistratura non faccia parte della funzione pubblica ordinaria, essa può essere è considerata parte integrante di una funzione pubblica tipica.
La Corte, quindi, ha fatto applicazione dei criteri Eskelinen nel caso concreto. Con riferimento all’esistenza di un diritto nell’ordinamento interno (sub i) ha accertato che alla luce del quadro giuridico interno in vigore al momento della sua elezione e durante il suo mandato, il ricorrente avrebbe potuto presumibilmente rivendicare un diritto alla protezione contro la rimozione dalla sua posizione di membro giudiziario del NCJ. In particolare, considerando l’articolo 187 § 3 della Costituzione che prevedeva e proteggeva il mandato quadriennale dei membri eletti del NCJ, esisteva nel diritto interno un diritto per un giudice eletto alla CGN di servire un mandato completo, salvo le eccezioni di legge esaustivamente elencate (riguardanti l’incapacità oggettiva di ricoprire tale carica ovvero la cessazione per decisione o iniziativa del membro stesso). La pretesa del ricorrente di avere il diritto di servire il suo intero mandato come membro giudiziario del NCJ trovava anche sostegno nel fatto che quest’ultimo era un organismo incaricato dalla Costituzione di salvaguardare l’indipendenza dei tribunali e dei giudici.
Rispetto allo scopo perseguito attraverso la misura di cessazione anticipata del mandato del ricorrente, vale a dire quello di mantenere il carattere congiunto dei membri eletti della NCJ, la Corte ha osservato che si tratta di una misura che sollevava chiaramente un problema di proporzionalità. Infatti, si sarebbero potute adottare misure alternative che avrebbero raggiunto lo scopo dichiarato, senza violare la regola costituzionale del mandato quadriennale e senza ignorare la consolidata giurisprudenza costituzionale che richiede che i cambiamenti di status dei membri degli organi costituzionali siano accompagnati da un adeguato periodo di adattamento o si applichino dall’inizio di un nuovo mandato.
La Corte ha quindi concluso che la vicenda avesse dato vita ad una vera e seria controversia su un “diritto”, vale a dire, quello di mantenere il servizio per un intero mandato di quattro anni come membro giudiziario della NCJ, che il ricorrente doveva poter rivendicare in base al diritto interno.
Per quanto riguarda la natura civile del diritto, la Corte ha applicato il test Eskelinen e, in particolare, le due condizioni cumulative, che, se pienamente soddisfatte, confuterebbero la presunzione di applicabilità dell’articolo 6.
Rispetto alla prima condizione (sub α), vale a dire, se il diritto interno escludeva espressamente l’accesso a un tribunale per il posto o la categoria di personale in questione, in considerazione dell’aspetto inedito del caso, la Corte ha ritenuto opportuno sviluppare ulteriormente la prima condizione per come già elaborata in precedenza, per attenuarne il rigore. La Corte, tuttavia, ha ritenuto che un’applicazione troppo rigorosa della prima condizione non sarebbe stata del tutto appropriata al caso di specie. La suddetta condizione può dirsi soddisfatta non solo quando il diritto interno contiene un’esplicita esclusione dell’accesso a un tribunale, ma anche quando l’esclusione in questione sia implicita, perché derivante da un’interpretazione sistematica del quadro giuridico applicabile o dell’intero corpo normativo.
Per quanto invece riguarda la seconda condizione (sub β), vale a dire, se l’esclusione dall’accesso alla giustizia sia giustificata da motivi oggettivi nell’interesse dello Stato, la Corte ha richiamato l’approccio adottato nella causa Vilho Eskelinen. Il semplice fatto che il richiedente appartenga a un settore o a un servizio che partecipa all’esercizio di un potere conferito dal diritto pubblico non è di per sé decisivo. Affinché una legislazione nazionale che esclude l’accesso a un tribunale non contrasti con l’articolo 6 § 1 della Convenzione, essa deve essere compatibile con uno stato di diritto che richiede, tra l’altro, che qualsiasi interferenza deve in linea di principio essere basata su uno strumento di applicazione generale. La misura in questione non può essere considerata uno strumento di questo tipo, in quanto era diretta a un gruppo specifico di quindici persone chiaramente identificabili (i membri giudiziari del NCJ) e il suo scopo primario era quello di rimuoverli dall’incarico.
Inoltre, nel caso in questione, la misura andava a interferire con l’indipendenza della magistratura, poiché la NCJ era un organo incaricato della sua salvaguardia. Una delle sue principali funzioni era esercitare una competenza esclusiva nel proporre candidati alla nomina ad ogni livello della magistratura e ad ogni tipo di tribunale. L’esercizio effettivo del suo ruolo costituzionale richiedeva quindi l’autonomia dell’organo nei confronti del potere politico statale. La rimozione, o la minaccia di rimozione, di un membro giudiziario della NCJ durante il suo mandato potenzialmente aveva l’effetto di influenzare l’indipendenza personale di quel membro nell’esercizio delle sue funzioni.
L’esigenza di garantire l’indipendenza dei consigli giudiziari è stata confermata nelle raccomandazioni del Comitato dei Ministri e da altri organi del Consiglio d’Europa. Secondo le norme pertinenti del Consiglio d’Europa, l’autonomia di un consiglio giudiziario in materia di nomine giudiziarie deve essere protetta dall’ingerenza del potere legislativo ed esecutivo e la sua indipendenza deve essere garantita. Inoltre, è stato raccomandato che non meno della metà dei membri dei consigli giudiziari siano giudici scelti dai loro pari. Mentre esisteva una pratica diffusa, approvata dal Consiglio d’Europa, di istituire un consiglio giudiziario come organo responsabile della selezione dei giudici, la Convenzione non prevedeva alcun requisito esplicito in tal senso. Secondo la Corte, qualunque sia il sistema scelto dagli Stati membri, essi devono rispettare l’obbligo di garantire l’indipendenza della giustizia. Di conseguenza, quando è stato istituito un consiglio giudiziario, le autorità dello Stato dovrebbero avere l’obbligo di garantire la sua indipendenza dal potere esecutivo e legislativo al fine, tra l’altro, di salvaguardare l’integrità del processo di nomina giudiziaria. Gli Stati erano liberi di adottare tale modello come mezzo per garantire l’indipendenza giudiziaria, ma non potevano strumentalizzarlo in modo da minare tale indipendenza.
In considerazione del chiaro legame tra l’integrità del processo di nomina giudiziaria e il requisito di indipendenza giudiziaria garantito dall’articolo 6 § 1 della Convenzione, la Corte ha ritenuto che il cambiamento fondamentale delle modalità di elezione dei membri giudiziari della NCJ (da parte del Sejm invece che dalle assemblee dei giudici) considerato congiuntamente alla cessazione anticipata dei mandati dei precedenti membri giudiziari, si traducesse in una compressione dell’indipendenza giudiziaria. Sebbene la Convenzione non impedisca agli Stati di prendere decisioni legittime e necessarie per riformare la magistratura, qualsiasi riforma non dovrebbe portare a minare l’indipendenza della magistratura e dei suoi organi di autogoverno.
Alla luce di tutte queste considerazioni, la Corte ha concluso che l’esclusione del ricorrente dall’accesso a un tribunale non poteva essere giustificata da motivi oggettivi nell’interesse dello Stato. La posizione del ricorrente come membro giudiziario eletto del NCJ era stata interrotta prematuramente per effetto della legge, in assenza di un controllo giudiziario sulla legalità di questa misura. L’esclusione del ricorrente da una salvaguardia fondamentale per la protezione di un diritto civile discutibile strettamente connesso alla protezione dell’indipendenza giudiziaria non poteva essere considerata nell’interesse di uno Stato di diritto. I membri del potere giudiziario dovrebbero godere – come gli altri cittadini – di una protezione dall’arbitrarietà del potere legislativo ed esecutivo, e solo il controllo da parte di un organo giudiziario indipendente della legalità di una misura come la rimozione dall’incarico era in grado di rendere effettiva tale protezione. In altre parole, la seconda condizione del test Eskelinen non era stata soddisfatta.
Una volta accertata l’applicabilità dell’articolo 6, 1§, della Convenzione, la Corte ha deciso la causa nel merito. In particolare, la Corte ha ritenuto che garanzie procedurali simili a quelle che dovrebbero essere disponibili nei casi di destituzione o rimozione dei giudici dovrebbero essere applicate anche quando, come nel caso in questione, un membro giudiziario del NCJ è stato rimosso dalla sua posizione. Tali garanzie sono inoltre funzionali a proteggere l’autonomia del consiglio giudiziario in questione dall’invasione del potere legislativo ed esecutivo. Nel valutare qualsiasi giustificazione per escludere l’accesso a un tribunale per quanto riguarda l’appartenenza a organi di governo giudiziario, la Corte ha preso in considerazione il forte interesse pubblico sotteso alla salvaguarda dell’indipendenza della magistratura e dello stato di diritto.
La Corte ha anche tenuto conto del contesto generale delle varie riforme intraprese dal governo polacco in materia di amministrazione della giustizia, rilevando come l’intera azione legislativa in Polonia facesse emergere l’intento di indebolire l’indipendenza giudiziaria. In particolare, la riforma del NCJ estendeva il controllo del ministro della Giustizia sui tribunali e aumentava il suo ruolo in materia di disciplina giudiziaria. Di conseguenza, il potere giudiziario - un ramo autonomo del potere statale - era stato esposto alle interferenze del potere esecutivo e legislativo e si era quindi sostanzialmente indebolito. Il caso in esame rappresentava, quindi, un esempio di questa tendenza più generale. Di conseguenza, a causa della mancanza di controllo giurisdizionale in questo caso, lo Stato convenuto aveva compromesso l’essenza stessa del diritto del ricorrente ad accedere a un tribunale.
Per tutte queste ragioni, la Grande Camera ha dichiarato sussistente la violazione dell’articolo 6, §1, della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Quarta Sezione), 22 marzo 2022, ric. n. 9077/18, Y e Altri c. Bulgaria
Oggetto: Articolo 2 della Convenzione (profilo sostanziale), obblighi positivi, di violenza domestica, mancata protezione da parte delle autorità della vita della donna uccisa dal marito, nonostante le sue numerose denunce, misure preventive inadeguate, mancata risposta immediata, mancata valutazione dei rischi in ogni occasione di denuncia, assenza di una violazione dell’Articolo 14 in combinato disposto con l’Articolo 2 della Convenzione, mancanza di prova che la mancata protezione della vita sia dovuta alla discriminazione di genere.
I ricorrenti sono parenti di una donna che è stata uccisa dal marito con un colpo mortale di pistola. Nei mesi precedenti l’omicidio, la donna aveva denunciato alle autorità un comportamento minaccioso marito, da ultimo tramite una chiamata al numero di emergenza nazionale e una denuncia scritta alla polizia il giorno prima della sua morte e con un’ultima denuncia scritta alla procura distrettuale il giorno dell’incidente.
A seguito dell’omicidio, il marito era stato arrestato dalla polizia. Il giudice cautelare lo ha posto in detenzione preventiva, rilevando, in particolare, che il modo in cui aveva sparato alla moglie e il suo stato mentale instabile denunciavano il rischio di commissione di ulteriori reati. La misura cautelare veniva confermata in appello.
Il marito veniva poi processato per omicidio aggravato e possesso illegale di un’arma da fuoco e, infine, condannato per tali reati a una pena detentiva di tredici anni e quattro mesi, da scontare in “regime severo”. Egli veniva anche condannato a pagare a ciascuna delle sue figlie (entrambe ricorrenti di fronte alla Corte di Strasburgo), che si erano costituite parte civile contro di lui, una somma titolo di danno non patrimoniale.
I ricorrenti di fronte alla Cedu lamentavano la violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita) della Convenzione, sostenendo che le autorità bulgare non hanno preso sul serio le denunce della loro parente nei confronti del marito e non hanno adottato misure per evitare il rischio per la sua vita. I ricorrenti lamentano la violazione dell’articolo 14 (divieto di discriminazione) in combinato disposto con l’articolo 2, lamentando che le suddette mancanze dell’autorità di polizia non rappresentassero un caso isolato, ma fossero dovute alla loro generale compiacenza nei confronti della violenza contro le donne.
La Corte di Strasburgo ha valutato separatamente le due doglianze.
Rispetto alla violazione dell’Articolo 2 della Convenzione, essa ha innanzitutto richiamato il consolidato obbligo positivo, posto a carico dell’autorità statale, di adottare misure operative preventive per proteggere una persona la cui vita è a rischio dalla violenza di un altro individuo[5]. Secondo questo indirizzo della giurisprudenza della Corte se le autorità sanno o dovrebbero sapere dell’esistenza di un rischio reale e immediato per la vita di un individuo o di individui identificati da atti criminali di un terzo, devono adottare misure nell’ambito dei loro poteri che potrebbero ragionevolmente essere previste per evitare tale rischio.
La portata e il contenuto di tale dovere sono state recentemente specificate nel contesto della violenza domestica[6] e sono stati compendiati dalla Corte in tali termini: (a) Le autorità devono rispondere immediatamente alle accuse di violenza domestica; (b) Quando tali accuse giungono alla loro attenzione, le autorità devono verificare se esiste un rischio reale e immediato per la vita di una o più vittime identificate di violenza domestica, effettuando una valutazione del rischio autonoma, proattiva e completa; nel valutare la realtà e l’immediatezza del rischio, le autorità devono tenere in debito conto il contesto particolare della violenza domestica; (c) Se la valutazione del rischio rivela che esiste un rischio reale e immediato per la vita, le autorità devono adottare misure operative preventive per evitare tale rischio. Queste misure devono essere adeguate e proporzionate al livello di rischio valutato.
Sulla scorta di questi principi, la Corte di Strasburgo è pervenuta alle seguenti valutazioni conclusive.
Con riferimento alla tempestività della reazione (sub a), le autorità avevano risposto immediatamente solo in un’occasione, inviando una pattuglia dopo che la madre della vittima le aveva chiamate a seguito di una discussione. Per quanto, invece, riguarda le azioni conseguenti alla denuncia presentata dalla vittima, se è vero che le autorità avevano reagito abbastanza rapidamente, tuttavia, la loro azione si era limitata nel prendere nota delle sue affermazioni e in una blanda richiesta di indagine rivolta a colleghi di un’altra zona. Per quanto concerne l’ordine di protezione, prima provvisorio e poi definitivo, emesso dal tribunale, sebbene fosse risultato tempestivo nell’emissione, tuttavia, gravi ritardi nell’invio ai dipartimenti di polizia competenti ne avevano condizionato l’efficacia. Inoltre, una volta ricevuto l’ordine provvisorio, il dipartimento di polizia competente per l’esecuzione dell’ordine lo aveva archiviato senza prendere alcun provvedimento per assicurarne il rispetto. Viceversa, l’ordine di protezione definitivo non era stato apparentemente nemmeno portato all’attenzione della polizia.
Per quanto riguarda la qualità della valutazione del rischio per la vittima (sub b), la Corte ha accertato che non ci fossero elementi che evidenziassero un tentativo delle autorità bulgare di valutare la condotta del marito in relazione al rischio di incolumità della vittima. Anche supponendo, tuttavia, che una sorta di valutazione dei rischi, seppur informale, avesse avuto luogo, in ciascuna delle occasioni rilevanti, o almeno in alcune di esse, tale valutazione non era stata autonoma, proattiva o completa. La principale carenza in tal senso riguarda il mancato controllo delle autorità, in fase di indagine, circa il possesso da parte del marito (o di qualsiasi altra società associata a lui) avesse ottenuto una licenza di porto d’armi, come indicato dalla vittima al momento della enuncia. Né altre azioni erano state compiute per verificare il possesso effettivo di una pistola, nonostante gli orientamenti operativi nazionali in tal senso.
Rispetto alla conoscenza o conoscibilità da parte delle autorità di un rischio reale e immediato per la vita della vittima, la Corte ha quindi precisato che se le autorità avessero effettuato una corretta valutazione dei rischi, esse avrebbero probabilmente apprezzato, sulla base delle informazioni a loro disposizione in quel momento, che il marito poteva rappresentare un rischio reale e immediato per la vita della vittima. Tale conclusione trovava conferma nella circostanza che lo stesso tribunale interno avesse ritenuto sufficientemente credibili le affermazioni della vittima, al punto da emettere un ordine di protezione provvisorio a suo favore.
Le autorità avrebbero dovuto quindi apprezzare la realtà e l’immediatezza del rischio per la sua vita. Il fatto che non l’abbiano fatto sembra essere stato, almeno in parte, dovuto alla mancanza di formazione specifica dei funzionari competenti. Coloro che avevano preso in carico le denunce della signora V. non avevano apparentemente ricevuto una formazione specifica sulle dinamiche della violenza domestica, come richiesto dalla giurisprudenza della Corte.
Infine, circa l’adeguatezza e proporzionalità delle misure preventive adottate dalle autorità, la Corte ha concluso che le uniche misure operative adottate per proteggere la vittima erano state gli ordini di protezione provvisori e definitivi emessi in suo favore. Tuttavia, questi provvedimenti erano rimasti privi di una tangibile efficacia. Inoltre, le autorità bulgare avrebbero potuto, coerentemente con i poteri di cui disponevano, adottare ulteriori misure, tra cui il sequestro della pistola e l’incriminazione del marito per possesso illegale di un’arma da fuoco, il suo arresto e incriminazione per aver violato i termini dell’ordine di protezione emesso contro di lui nonché l’attuazione di una qualche forma di protezione di polizia, comunque consentita dall’ordinamento.
La Corte è poi passata a valutare la seconda doglianza dei ricorrenti, concernente la presunta violazione dell’Articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 2.
La Corte ha innanzitutto esaminato se ci fosse una qualche evidenza probatoria che la violenza domestica colpisse principalmente le donne, e che l’atteggiamento generale delle autorità avesse creato un clima favorevole a tale violenza. La sussistenza di una simile prova avrebbe spostato l’onere della prova sullo Stato convenuto, richiedendogli di dimostrare quali misure correttive fossero state adottate per rimediare allo svantaggio associato al sesso.
La Corte ha premesso che, come in tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, la violenza domestica in Bulgaria colpisce prevalentemente le donne. Tuttavia, la Corte ha riscontrato l’assenza di prova di comportamenti delle autorità nazionali volti a dissuadere le donne vittime di tali violenze dal denunciarle, o di ritardi sistematici da parte dei tribunali nell’emissione di ordini di protezione.
La Corte ha rilevato che le autorità nazionali non hanno raccolto e conservato statistiche complete sul modo in cui le forze dell’ordine trattano i casi di violenza domestica, il che costituisce una grave omissione. Da parte loro, i ricorrenti avevano tentato di dimostrare la discriminazione con dati statistici. La Corte ha però giudicato queste informazioni come incomplete e, quindi, non idonee a fornire una base adeguata a dimostrare un contesto di discriminazione generalizzata. Inoltre, la Corte ha negato l’impostazione dei ricorrenti secondo cui che all’epoca dei fatti la legge bulgara avesse completamente ignorato il problema della violenza domestica, ponendo indebiti ostacoli alle donne che avessero voluto denunciare tale violenza. Nel caso di specie, la legge forniva alle autorità strumenti sufficienti per adottare misure idonee a proteggere la vittima. Tali strumenti non erano stati efficacemente esperiti dalle autorità competenti. Alla luce di quanto precede, la Corte non concordava con i ricorrenti sulla passività generale e discriminatoria da parte delle autorità nazionali nei confronti della violenza domestica diretta contro le donne.
La Corte è infine passata ad esaminare se ci fosse stata qualche prova di pregiudizio di genere da parte dei funzionari che si sono occupati specificamente del caso in questione. La passività della polizia locale, secondo la Corte, sebbene riprovevole e in violazione dell’articolo 2, non poteva essere considerata di per sé come rivelatrice di un atteggiamento discriminatorio da parte delle autorità. La polizia aveva svolto un’indagine interna dopo la morte vittima e un’azione disciplinare era stata poi intrapresa contro gli agenti che avevano trascurato i loro doveri. Questo fatto tendeva a suggerire che le autorità non avevano guardato la questione con indifferenza.
Né si poteva sostenere che la risposta giudiziaria all’uccisione della vittima avesse dimostrato un atteggiamento indulgente verso la violenza domestica. Anche se nessuna accusa era stata presentata contro il marito per aver violato i termini dell’ordine di protezione, tuttavia, dopo la commissione del delitto, egli era stato processato per omicidio aggravato e possesso illegale di un’arma da fuoco. I tribunali avevano portato avanti il procedimento abbastanza rapidamente concludendolo con una condanna severa e proporzionata.
Tutte le considerazioni di cui sopra, prese nel loro insieme, hanno portato la Corte a concludere che nelle circostanze del presente caso non c’era stata alcuna violazione del divieto di discriminazione imposto dalla Convenzione.
La Corte ha quindi concluso che vi è stata una violazione dell’articolo 2, in sé considerato, mentre ha respinto la doglianza dei ricorrenti con riferimento alla pretesa violazione dell’Articolo 14 in combinato disposto con l’Articolo 2 della Convenzione
[1] Corte EDU, Xero Flor w Polsce sp. z o.o. c. Polonia, rich. n. 4907/18, 7 maggio 2021; Broda and Bojara v. Poland, rich. nn. 26691/18 e 27367/18, 29 June 2021; Corte EDU, Reczkowicz c. Polonia, rich. n. 43447/19, 22 luglio 2021.
[2] Corte di Giustizia UE, sentenza 27 febbraio 2018, causa C-64/16, Associação Sindical dos Juízes Portugueses v Tribunal de Contas; Corte di Giustizia UE, sentenza 19 novembre 2019, causa C‑585/18, C‑624/18 e C‑625/18, A.K. and Others (Independence of the Disciplinary Chamber of the Supreme Court); Corte di Giustizia UE, sentenza 2 marzo 2021, causa C‑824/18, A.B. and Others (Appointment of judges to the Supreme Court – Actions); Corte di Giustizia UE, sentenza 20 aprile 2021, causa C-896/19, Repubblika v. Il-Prim Ministru; Corte di Giustizia UE, sentenza 15 luglio 2021, causa C-791/19, Commission v. Poland (Disciplinary regime for judges).
[3] Corte EDU, Vilho Eskelinen e altri c. Finlandia [GC], rich. n. 63235/00, 19 aprile 2007, in CEDU 2007-II.
[4] Seguendo questo criterio, non sarà per esempio possibile giustificare l’esclusione dalle garanzie dell’articolo 6 delle controversie di lavoro ordinarie, come quelle relative a stipendi, indennità o diritti simili, sulla base della speciale natura del rapporto tra il dipendente pubblico in questione e lo Stato.
[5] Corte EDU, Osman c. Regno Unito, rich. n. 23452/94, 28 ottobre 1998, §§ 115-16.
[6] Corte EDU, Kurt c. Austria [GC], rich. n. 62903/15, 15 giugno 2021, §§ 157-89.
Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa