Le pronunce di ottobre della Corte Edu qui selezionate riguardano due temi: l’aspetto reputazionale della presunzione d’innocenza e il perimetro temporale entro cui individuare la legge mitior tra quelle regolanti la pena nei riti premiali.
Con le pronunce Machalický c. la Repubblica Ceca e Cosovan c. Moldavia, la Corte di Strasburgo ha modo di precisare i principi tratteggiati dalla Grande Camera in Nealon e Hallam c. il Regno Unito, sul rispetto della reputazione del soggetto prosciolto nell’ambito di un procedimento diverso e successivo a quello penale: mentre il caso inglese riguardava l’assoluzione seguita da procedura di riparazione per ingiusta detenzione, il caso ceco concerne il proscioglimento per prescrizione seguito da richiesta di risarcimento delle spese legali; il caso moldavo, il proscioglimento per prescrizione seguito da provvedimento di confisca. In entrambi i casi, la Corte sonda il linguaggio utilizzato dai giudici nazionali, i temi di prova affrontati, alla luce dei limiti ricavabili sia dalla legge domestica che dai parametri internazionali, agganciando la «sostanziale attribuzione di responsabilità penale», dunque la violazione, a motivazioni su aspetti tipicamente penali, il cui accertamento non risultava necessario ai fini della procedura esaminata.
In Cesarano c. Italia, la Corte Edu precisa l’operatività del principio di retroattività della legge penale più mite per l’ipotesi in cui la pena da applicare risenta di sconti derivanti da riti alternativi. In Scoppola c. Italia, la Grande Camera aveva ritenuto che tale principio si concretizzasse nella regola secondo cui, in caso di differenze tra la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali successive emanate prima della sentenza definitiva, i tribunali devono applicare la legge le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato. Nella pronuncia in esame, i giudici europei ritengono di dover circoscrivere l’arco temporale entro cui individuare la legge penale più mite, con decorrenza dall’accesso al rito premiale, tenuto conto della forte interconnessione tra aspetti procedurali e sostanziali nel trattamento sanzionatorio derivante dallo svolgimento di un rito alternativo, della mancanza di indicazioni procedurali nell’ambito dell’art. 7 e della necessità di valorizzare le condizioni contestuali alle scelte difensive dell’imputato.
Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 10 Ottobre 2024, ric. n. 42760/16, Machalický c. la Repubblica Ceca
Oggetto: articolo 6 § 2 della Convenzione (equo processo) – presunzione d’innocenza – procedimento penale chiuso per prescrizione del reato – istanza di risarcimento delle spese legali sostenute nel procedimento penale – rigetto dell’istanza da parte dei giudici civili – motivazione contenente una sostanziale imputazione di responsabilità penale.
Il ricorrente veniva accusato di frode per una serie di condotte commesse in qualità di direttore di banca. Il Tribunale di Praga, in mancanza di prove circa l’intento fraudolento, riqualificava i fatti in termini di «cattiva gestione di beni altrui». Benché le prove consentissero di ritenere accertata la commissione del reato, il tribunale ne dichiarava la prescrizione. L’impugnazione del pubblico ministero, nella parte relativa alla riqualificazione e, conseguentemente, all’applicazione di un termine prescrizionale minore, veniva rigettata.
Il ricorrente presentava, dinanzi al Ministero della giustizia, istanza di risarcimento per le spese legali sostenute nel procedimento penale. L’istanza veniva rigettata mancando, nel caso di specie, il requisito dell’azione o decisione penale illegittima ovvero dell’assoluzione perché il fatto non sussiste, non è stato commesso o non costituisce reato. Per ottenere una «decisione illegittima» sarebbe stato necessario rinunciare alla prescrizione e far proseguire il procedimento penale.
Anche il Tribunale civile rigettava analoga istanza, rilevando che il procedimento penale a carico del ricorrente era stato chiuso per prescrizione e che i giudici penali avevano accertato la commissione del reato. La decisione civile veniva confermata in sede di impugnazione. Anche la Corte costituzionale rilevava che i giudici civili sono vincolati solo dal dispositivo penale e non dalla motivazione e che, ai fini della richiesta di risarcimento, ben potevano vagliare i fatti oggetto del procedimento penale.
Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il ricorrente lamentava la violazione della presunzione di innocenza.
Sotto il profilo dell’ammissibilità, in particolare della compatibilità ratione materiae, la Corte ribadisce gli aspetti generali della tutela offerta dall’art. 6 § 2 e le condizioni per la sua applicabilità anche al di fuori del procedimento penale.
La protezione offerta dall’art. 6 § 2 presenta due “aspetti”. Il primo aspetto c.d. procedurale tutela il diritto di ogni persona di essere “presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata”, dunque opera entro il processo penale, perché non venga inflitta una condanna ingiusta. Il secondo aspetto c.d. reputazionale tutela il diritto di ogni persona prosciolta di essere trattata come non colpevole da autorità o pubblici ufficiali, quando il procedimento penale a suo carico si sia concluso senza una condanna; si tratta di una tutela in parte sovrapponibile a quella derivante dall’art. 8. Mentre il primo aspetto è applicabile nei procedimenti riguardanti una “accusa penale”, nel significato autonomo della Convenzione, il secondo è applicabile in procedimenti successivi e diversi da quello penale purché a quest’ultimo legati: ad esempio, quando il procedimento successivo postuli l’esame della sentenza penale, la valutazione delle prove contenute nel fascicolo penale o la partecipazione del ricorrente ad alcuni o a tutti gli eventi che hanno portato all’imputazione penale, a commentare indizi di colpevolezza (cf. Allen c. Regno Unito [GC], n. 25424/09, 2013; G.I.E.M. S.R.L. e altri c. Italia [GC], nn. 1828/06 e altri 2, 2018; Pasquini c. San Marino (n. 2), n. 23349/17, 2020; da ultimo Nealon e Hallam c. Regno Unito [GC], nn. 32483/19 e 35049/19, 2024).
Nel caso di specie, vi era un legame diretto tra procedimento penale e civile, poiché la decisione sul risarcimento si basava sulle constatazioni fatte dai giudici penali.
Passando al merito del ricorso, la Corte richiama i principi consacrati dalla Grande Camera nel luglio 2024. A prescindere dalla natura dei procedimenti connessi, a prescindere dal fatto che il procedimento penale si sia concluso con un’assoluzione, un’archiviazione o altra causa di interruzione, decisioni e ragionamenti di giudici o altre autorità possono violare l’aspetto reputazionale dell’art. 6 § 2 sol considerati nel loro insieme, nei limiti della funzione da esercitare, se equivalgono imputazioni di responsabilità penale. «Imputare la responsabilità penale» significa riflettere un’opinione di colpevolezza secondo lo standard penale, suggerire che il procedimento penale avrebbe dovuto essere definito in modo diverso (Nealon e Hallam, cit., § 168).
L’art. 6 § 2 non deve, infatti, essere interpretato in modo da precludere ai giudici nazionali, chiamati a esercitare una funzione diversa da quella penale, di occuparsi degli stessi fatti decisi nel precedente penale, purché nel farlo non imputino la responsabilità penale alla persona interessata.
Occorre poi considerare, da una parte, che tale norma non garantisce alla persona accusata il diritto a un risarcimento per la legittima custodia cautelare o per le spese nel caso in cui il procedimento sia interrotto o si concluda con un’assoluzione; dall’altra, l’importanza «cruciale» del linguaggio utilizzato dai tribunali (§ 52 «In assessing the compatibility of those decisions and their reasoning with Article 6 § 2 of the Convention, the Court will thus focus on the language used by the courts, which is of critical importance in this regard»).
Nel caso di specie, la Corte riconosce che, nonostante il procedimento dovesse essere interrotto, una corretta qualificazione giuridica degli atti asseritamente commessi dal ricorrente era necessaria proprio per determinare il relativo periodo di prescrizione legale (cf. Peltereau-Villeneuve c. Svizzera, n. 60101/09, 2014).
Ad ogni modo, i tribunali civili si sono spinti troppo in là, oltre i termini del diritto civile, senza alcuna riserva o considerazione della presunta innocenza del ricorrente, utilizzando un linguaggio infelice che, di fatto imputava al ricorrente una responsabilità penale, quando invece la legge interna consente di fondare il rigetto sulla base della considerazione che l’interruzione del procedimento penale non rendeva illegittima l’azione penale (motivazione che non avrebbe di per sé violato la presunzione di innocenza).
In particolare, i giudici domestici avevano rigettato la richiesta di risarcimento sostenendo che dalla motivazione penale risultava chiaramente la commissione del reato e la Corte di Cassazione aveva confermato che la condotta del ricorrente soddisfaceva gli elementi costitutivi del reato.
Vi è stata pertanto una violazione dell'articolo 6 § 2 della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Seconda Sezione), 8 Ottobre 2024, ric. n. 36013/13, Cosovan c. Moldavia
Oggetto: articolo 6 § 2 della Convenzione (equo processo) – presunzione d’innocenza – secondo aspetto c.d. reputazionale – procedimento penale chiuso per prescrizione del reato – ordine di confisca dei proventi illeciti – motivazione da cui non è ragionevole ritenere l’imputazione di responsabilità penale, alla luce dei limiti e delle condizioni di applicabilità della confisca.
Il ricorrente veniva indagato per «esercizio di attività commerciale illegale», in concreto per aver gestito, sul terreno della società da lui amministrata, un parcheggio senza autorizzazione statale, senza sistema di registrazione degli incassi e senza pagare le tasse, ricavandone un profitto di circa 7.080 euro.
Al termine delle indagini, la procura, su istanza del ricorrente, dichiarava la prescrizione del reato ma, ritenendo sufficientemente provata la commissione del medesimo, ordinava la confisca speciale di una somma equivalente ai proventi illeciti, ossia una precautionary measure prevista dal codice di rito penale.
Una procura gerarchicamente superiore, adita su impugnazione del ricorrente, confermava la decisione di confisca rilevando come la prescrizione determinasse la rinuncia al diritto di far provare la colpevolezza.
Anche il giudice istruttore, su reclamo del ricorrente, riconosceva la legittimità della misura ablativa.
Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il ricorrente lamenta la violazione della presunzione d’innocenza nel suo c.d. secondo aspetto.
In punto di ammissibilità, la Corte ricorda che l’art. 6 § 2 è applicabile sol provata l’esistenza di un nesso tra il procedimento penale chiuso senza condanna e il procedimento successivo suscettibile di compromettere la reputazione.
Nel caso di specie, il nesso risiede nella circostanza che il provvedimento di confisca è stato emesso nell’ambito della decisione del pubblico ministero d’interrompere le indagini, in base alle prove ivi raccolte.
Nel merito, per valutare la natura e lo scopo della confisca speciale moldava, la Corte rileva quanto segue: trattasi di misura cautelare, irrogabile anche senza previa accusa e condanna, formalmente non rientrante nell’elenco delle sanzioni penali, benché dipendente dall’esistenza di un atto illecito. Ne consegue che nulla, nella legislazione domestica, consentirebbe una qualifica in termini di pena (contrasto G.I.E.M. S.r.l. e altri c. Italia [GC], 2018).
Sul piano del diritto comparato, occorre evidenziare, da una parte, la previsione in diversi Stati contraenti di regole di confisca simili, aventi ad oggetto attività illecite, per cui rimangono irrilevanti l’accertamento della responsabilità penale e la prescrizione del reato (Silickienė v. Lithuania, 2012); dall’altra, la necessità di attuare le raccomandazioni del GAFI sulla confisca senza condanna nella lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo.
Sebbene non sia necessaria una valutazione del grado di colpevolezza, l’applicazione della confisca speciale può dipendere dalla valutazione di un legame tra determinati atti illeciti e beni da confiscare; tale circostanza è suscettibile di interferire con la presunzione d’innocenza.
L’interferenza, tuttavia, non sussiste, tenuto conto sia del contesto di adozione della confisca sia dell’attento esercizio della funzione giurisdizionale, in particolare nell’assolvimento dell’obbligo di motivazione.
La confisca speciale riguarda beni «derivanti da un atto vietato dal codice penale», e non beni derivanti dalla «commissione di reati»; la misura è limitata all’arricchimento illecito (in senso conforme Ulemek c. Serbia, 2021; in contrasto, Welch c. il Regno Unito, 1985); la sua esecuzione soggiace a norme civili che, tra le altre cose, non consentono la conversione in detenzione in caso di mancato pagamento. In altre parole, la confisca speciale è una misura diretta contro un bene, piuttosto che contro una persona, paragonabile all’istituto della confisca civile in rem, non influenzata dalla scadenza della prescrizione (conf. Balsamo c. San Marino, 2019). Non vi è alcuna equivalenza con la nozione di pena (contrasto, El Kaada c. Germania, 2015) o con l’accertamento di colpevolezza secondo lo standard penale (cf. Nealon e Hallam c. il Regno Unito, 2024).
Guardando alla motivazione fornita dalle autorità nazionali, da considerare nel suo insieme e nel contesto dell’esercizio delle funzioni di legge (cfr. Nealon e Hallam), il ricorrente non si è lamentato di alcuna dichiarazione e il pubblico ministero ha utilizzato espressioni quali «la conferma dei sospetti» o «la riconducibilità del reddito a un reato». Secondo la Corte, tali dichiarazioni non riguardano la responsabilità penale ma la commissione del reato e l’origine illecita del denaro, nei limiti e nel rispetto delle condizioni previste dal codice penale. Non è quindi irragionevole che le autorità nazionali abbiano fornito dettagli sulla condotta che avrebbe portato all’acquisizione del denaro illecito e abbiano fatto riferimento a un collegamento tra tale condotta e i beni; anzi, erano tenute a tale accertamento alla luce della giurisprudenza della Corte in materia di confisca dei proventi di reato (Yordanov e altri c. Bulgaria, 2023, e Todorov e altri c. Bulgaria, 2021).
In conclusione, il provvedimento di confisca speciale, nel far riferimento all’origine illecita dei beni, non poteva ragionevolmente intendersi come affermazione di colpevolezza secondo lo standard penale.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 17 Ottobre 2024, ric. n. 71250/16, Cesarano c. Italia
Oggetto: articolo 7 della Convenzione (nulla poena sine lege) – principi di irretroattività in peius e retroattività in mitius – commissione di reati punibili con ergastolo e isolamento diurno e successione di leggi sul giudizio abbreviato – verifica della legge penale più mite applicabile a decorrere, non dalla commissione del reato, ma dall’accesso al rito alternativo. Articolo 6 § 1 della Convenzione (equo processo) – affidamento circa l’applicazione della legge più mite e prevedibilità del trattamento sanzionatorio.
Il ricorrente veniva indagato per reati di strage e omicidio commessi nel 1983 e rinviato a giudizio nel 1995, in un’epoca in cui tali reati erano cumulativamente punibili con la pena dell’ergastolo con isolamento diurno, ma il giudizio abbreviato non era più ammissibile in relazione a reati punibili con l’ergastolo (ammissibilità esclusa dalla Corte costituzionale n. 176/1991, stante l’illegittimità dell’art. 442, co. 2, c.p.p. per eccesso di delega).
Nel corso del procedimento, l’art. 30 della l. n. 479/1999 (in vigore dal 2 gennaio 2000) reintroduceva la facoltà di chiedere il giudizio abbreviato in relazione ai reati punibili con l’ergastolo, prevedendo quale sconto per il rito la sostituzione dell’ergastolo con la reclusione di anni trenta. Immediatamente dopo, l’art. 4-ter del d.l. n. 82/2000 (conv. in l. n. 144/2000) concedeva la remissione in termini per formulare richiesta di abbreviato nei giudizi in corso al momento dell’entrata in vigore della l. 479/99, purché, in primo grado, non si fosse conclusa l’istruttoria o, in appello, fosse stata rinnovata.
Non risulta che il ricorrente depositò la pertinente istanza.
Intanto, il legislatore, con l’art. 7 del d.l. n. 341/2000, forniva l’interpretazione autentica della norma sullo sconto per il rito abbreviato, chiarendo che la sostituzione con la reclusione di anni trenta si riferiva all’ergastolo “semplice”, mentre in ipotesi di ergastolo con isolamento diurno la diminuente per l’abbreviato avrebbe determinato la sostituzione con l’ergastolo semplice.
Nel 2007, il ricorrente veniva condannato, con rito ordinario, dalla Corte di Assise di Napoli; tuttavia, a febbraio 2010, la Corte di Assise di Appello annullava la condanna rinviando il caso alla procura di Roma. Il ricorrente veniva nuovamente rinviato a giudizio nel 2012, con i medesimi capi d’imputazione del 1995. Questa volta, il ricorrente chiedeva di essere processato col rito abbreviato sicché il GUP di Roma, con sentenza di settembre 2013, lo condannava all’ergastolo senza isolamento diurno, condanna confermata dalla Corte di Assise di Appello il 4 novembre 2014 e dalla Corte di cassazione il 7 gennaio 2016.
Dinanzi alla Corte di Strasburgo, il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 7 della Convenzione, sostenendo che, tenuto conto di tutte le leggi penali succedutesi tra l’epoca di commissione del fatto e la condanna, in tema di diminuente per il rito abbreviato, egli avrebbe avuto diritto all’applicazione di quella più mite di cui all’art. 30 della l. n. 479/99, dunque avrebbe dovuto esser condannato a trent’anni di reclusione. La mancata concessione della pena più mite, secondo il ricorrente, aveva altresì determinato l’iniquità della procedura interna e, dunque, la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione.
Occorre dare conto di diverse pronunce, domestiche e sovranazionali, che hanno influenzato lo svolgimento del procedimento interno e che sono state sottoposte dalle parti ai giudici sovranazionali:
- in Scoppola c. Italia, il 17 settembre 2009, la Corte di Strasburgo chiariva che l’art. 7 della Convenzione sancisce, oltre al principio di irretroattività delle leggi penali più severe, anche il principio di retroattività della legge penale più mite, che si traduce «nella norma secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato»; in concreto, ne accertava la violazione considerato che il ricorrente aveva chiesto di essere giudicato con rito abbreviato quando, ai sensi dell’art. 30 della l. n. 479/1999, l’art. 442, co. 2, c.p.p. prevedeva la sostituzione dell’ergastolo, con o senza isolamento diurno, con la reclusione temporanea di anni trenta, tuttavia, era stato condannato all’ergastolo semplice poiché, in fase decisoria, il giudice aveva ritenuto di applicare retroattivamente il sopravvenuto art. 7 del d.l. 341/00;
- le Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 34233/2012, Giannone, affermavano che l’applicazione dei principi di diritto intertemporale in materia penale «con specifico riferimento alla disciplina del giudizio abbreviato prescelto dal ricorrente, non può essere ancorata, per individuare la disposizione che prevede la pena più mite, al mero dato formale delle diverse leggi succedutesi tra la data di commissione dei reati e la pronuncia della sentenza definitiva, ma presuppone la coordinazione di tale dato, di per sé neutro, con le modalità e con i tempi di accesso al rito speciale, da cui direttamente deriva, in base alla legge vigente, il trattamento sanzionatorio da applicare (…)»;
- la Corte costituzionale, con sentenza n. 210 del 3 luglio 2013, dichiarava illegittimo l’art. 7 del d.l. n. 341/2000 nella misura in cui l’interpretazione autentica produceva effetti retroattivi in malam partem nei confronti dell’imputato punibile con l’ergastolo con isolamento diurno che avesse già avuto accesso al rito abbreviato con l’aspettativa di non poter esser condannato a più di trent’anni di reclusione;
- alla luce della pronuncia Giannone, in attuazione dell’intervento costituzionale, le Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 18821/2014, Ercolano, chiarivano che i giudici dell’esecuzione, aditi da soggetti condannati all’ergastolo, avrebbero dovuto sostituire tale pena con la reclusione di anni trenta solo nei confronti di chi avesse optato per il rito abbreviato tra il 2 gennaio e il 24 novembre 2000, indipendentemente dalla presentazione di un’apposita istanza alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
La Corte di Strasburgo ribadisce la centralità dell’art. 7 nel sistema di principi che qualificano lo Stato di diritto e, dunque, nel sistema di protezione della Convenzione. Poiché è essenziale che condanna e punizione non siano arbitrarie, tale norma non risulta derogabile, ai sensi dell’art. 15, neanche in tempo di guerra o di emergenza pubblica.
Oltre a sancire il principio di irretroattività della legge penale più severa, l’art. 7 § 1 garantisce anche, “implicitamente”, il principio di retroattività della legge penale più clemente; come chiarito in Scoppola c. Italia (§ 109) tale principio si concretizza nella regola secondo cui, in caso di differenze tra la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali successive emanate prima della pronuncia di una sentenza definitiva, i tribunali devono applicare la legge le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato.
Rispetto al precedente Scoppola, la Corte ritiene necessario approfondire la questione dell’operatività della lex mitior quando si ha a che fare con riti alternativi. In particolare, la Corte si chiede se il lasso di tempo entro cui individuare la legge più clemente si estenda dalla commissione del reato fino alla condanna definitiva (come affermato in Scoppola, ove pure il ricorrente era stato giudicato con rito abbreviato) o se, quando si tratta di procedure semplificate che dipendono da una richiesta dell’imputato, il lasso di tempo decorre dal momento in cui tale richiesta viene formulata.
I giudici europei ritengono necessario vagliare l’operatività dell’art. 7 alla luce della forte interconnessione, soprattutto nei riti alternativi, degli aspetti sostanziali e processuali (§ 77). Sul punto, occorre evidenziare che l’art. 7, pur garantendo che reati e pene siano chiaramente definiti dal diritto interno, non stabilisce requisiti procedurali. Qualora il sistema interno subordini uno sconto di pena a una determinata scelta procedurale, l’entità di tale sconto non può che essere individuato dalla legge vigente al momento della scelta e solo rispetto a tale legge è ammesso un confronto con eventuali sopravvenute leggi sanzionatorie (§§ 78-80).
Nel caso di specie, il ricorrente non si è avvalso della possibilità di chiedere il rito abbreviato alla prima udienza successiva all’entrata in vigore della l. n. 479 del 1999, come avrebbe potuto fare in base alle relative disposizioni transitorie; ha deliberatamente scelto di presentare tale richiesta diversi anni dopo, nel 2012, quando la pena di trent’anni di reclusione non era più una condanna possibile per i reati di cui era accusato nel processo in corso. Per questa ragione, né l’art. 7 né l’art. 6 § 1 della Convenzione possono dirsi violati.
Alla decisione della maggioranza segue però l’opinione parzialmente dissenziente del giudice Felici secondo cui i principi enunciati depotenzierebbero la forza precettiva dell’art. 7, contraddicendo inoltre il ragionamento sviluppato dalla Grande Camera in Scoppola c. Italia.
Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa