La Corte Edu accoglie il ricorso presentato da una detenuta rumena per violazione dell’art. 8, in combinato disposto con l’art. 14 Cedu, nell’ambito di un giudizio volto ad ottenere il riconoscimento del diritto a visite coniugali in carcere anche per i detenuti in stato di custodia cautelare.
Sentenza della Corte Edu (Sezione Quarta) 17 gennaio 2017, rich. n. 41773/09, Crăiţă c. Roumanie
Oggetto: Violazione dell’art. 8 in combinato disposto con l’art. 14 Cedu – Diritto al rispetto della vita privata e familiare – Principio di non discriminazione – Diritto alle visite coniugali per i detenuti in custodia cautelare
In data 6 settembre 2007, la ricorrente, accusata di frode, è stata detenuta in custodia cautelare nel carcere di Galaţi. Il suo compagno, anche lui accusato, è stato detenuto in custodia cautelare nella stessa prigione. La coppia aveva il diritto di incontrarsi in cabine dotate di dispositivo di separazione in vetro. In data 5 agosto 2008, la ricorrente ha richiesto di poter ricevere visite coniugali mensili, ma tale richiesta è stata respinta da parte del direttore del carcere. La ricorrente ha impugnato tale decisione e ne è seguita una vicenda processuale conclusasi nel 2011, con la conferma della decisione impugnata, in quanto, in forza della normativa interna applicabile, solo i detenuti condannati – e non quelli in custodia cautelare – avevano diritto a visite coniugali. Nel frattempo, in data 18 giugno 2010, la ricorrente era stata condannata a tredici anni di prigione per frode. Tuttavia, invocando l’art. 8 della Convenzione, la ricorrente ritiene che la privazione delle visite coniugali mensili, subita per la sola ragione di essere in custodia cautelare, abbia costituito una violazione del suo diritto al rispetto della propria vita privata e familiare.
La Corte ritiene di esaminare l’asserita violazione dell’art. 8 della Cedu in combinato disposto con l’art. 14, ravvisando nel ricorso presentato dalla ricorrente la denuncia di un trattamento discriminatorio tra detenuti condannati e detenuti in custodia cautelare.
La Corte evidenzia che, nel caso di specie, il periodo compreso tra la prima richiesta di visita coniugale e la data della condanna è stato di più di un anno e dieci mesi, termine questo identico a quello ravvisato dalla Corte nell’analogo caso Costel Gaciu c. Romania (n. 39633/10, par. 24-26, 23 giugno 2015). Nella pronuncia da ultimo citata, la Corte ha riconosciuto la violazione della Convenzione, laddove le autorità nazionali – che avevano respinto la domanda senza esaminare la specifica situazione della ricorrente, sul principale motivo che il diritto nazionale escludeva le persone in custodia dall’esercizio del diritto di visite coniugali – non avevano fornito una giustificazione obiettiva e ragionevole per un trattamento diverso in relazione a persone condannate, agendo così in modo discriminatorio.
È vero che, nel caso Craita c. Romania, il governo ha addotto altri fatti che potrebbero giustificare il rifiuto di visite coniugali, tra cui, la non trascurabile circostanza che il marito della ricorrente era un co-imputato nello stesso processo e che, pertanto, l'autorizzazione a visite coniugali avrebbe potuto costituire una minaccia per il regolare svolgimento delle indagini.
Tuttavia, la Corte rileva che questi argomenti non sono stati sollevati dal direttore del carcere per giustificare il rifiuto alle visite coniugali, in quanto l’unico motivo addotto è stato il divieto ex lege. Conseguentemente, la Corte non può tener conto dei fatti e argomenti diversi da quelli discussi dalle parti dinanzi ai giudici nazionali e su cui questi ultimi hanno basato le loro decisioni.
Rilevando, quindi, che, come nel caso Costel Gaciu, la ricorrente è stata privata per un lungo periodo della possibilità di godere delle visite coniugali mensili e che il diniego è stato giustificato unicamente in base al divieto legislativo previsto per le persone in custodia cautelare, la Corte conclude che, anche in questo caso, vi è stata una violazione dell’art. 8 in combinato disposto con l’art. 14 della Cedu.
La Corte Edu torna a pronunciarsi sui limiti del diritto alla libertà di espressione e condanna la Grecia per violazione dell’art. 10 Cedu
Oggetto: Violazione dell’art. 10 Cedu – Diritto alla libertà di espressione – Il requisito dell’ingerenza necessaria in una società democratica – Proporzionalità della sanzione
I ricorrenti, giornalista ed ex direttore del quotidiano greco Ta Nea e giornalista ed editorialista dello stesso giornale, erano stati condannati in maniera definitiva a pagare in solido la somma di 30.000 euro per i danni morali sofferti da un’attrice – che da poco aveva assunto una carica politica – definita «totalmente sconosciuta» in un articolo. I ricorrenti lamentano una violazione del loro diritto alla libertà di espressione, invocando l’art. 10 della Convenzione.
A parere della Corte, non è in discussione che la condanna dei ricorrenti abbia costituito un’ingerenza nell’esercizio della libertà di espressione garantito dall’art. 10 par. 1 della Convenzione, ma occorre valutare la legittimità di tale ingerenza, ai sensi dei requisiti previsti dal successivo par. 2. Nel caso di specie, è pacifico che l’ingerenza fosse prevista dalla legge e che perseguisse uno scopo legittimo, cioè la protezione della reputazione e dei diritti altrui. Compito della Corte è, quindi, verificare se l’ingerenza fosse anche «necessaria in una società democratica». Sul punto, la Corte preliminarmente sottolinea l’importante ruolo ricoperto dalla stampa in una società democratica («cane da guardia»), che legittima il ricorso anche ad un grado di esagerazione (si v. Gawęda c. Polonia, n. 26229/95, par. 34, Cedu 2002-II). La Corte ricorda, poi, che i limiti della critica verso una figura politica sono più ampi rispetto a quelli concessi alla critica di un privato cittadino. Infatti, a differenza di quest’ultimo, il primo si espone inevitabilmente e coscientemente ad un controllo attivo, tanto da parte della stampa che da parte della collettività nel suo complesso. Tale circostanza richiede una maggior tolleranza nella valutazione del presupposto della necessità. La Corte, calati i predetti principi nel caso di specie, ritiene che la frase «totalmente sconosciuto», letta nel suo contesto, rappresenti un giudizio di valore, non suscettibile di essere provato, benché non priva di un fondamento fattuale, in quanto era ben vero che l’attrice non aveva ricoperto alcuna carica pubblica in passato. Secondo i giudici di Strasburgo l’articolo in questione non si proponeva di veicolare informazioni veritiere sull’attrice, ma faceva parte di una rubrica concernente i retroscena della vita politica, che, come spesso accade, si caratterizzava per un tono satirico. La Corte rileva, quindi, che i tribunali nazionali hanno valutato la frase asseritamente offensiva al di fuori del contesto in cui era stata scritta. In particolare, i giudici nazionali non hanno valutato i successivi commenti piuttosto favorevoli espressi dal giornalista riguardo la nomina dell’attrice. Nella sentenza in commento la Corte afferma che non compete ai giudici nazionali indicare ad un giornalista lo stile da utilizzare nell’esercizio del diritto di critica. Questi ultimi sono, infatti, chiamati unicamente a verificare se l’interesse del pubblico e i propositi dell’autore della frase contestata giustificavano il ricorso a un tono provocatorio. A tal proposito, viene evidenziato che l’attrice era stata chiamata ad espletare funzioni pubbliche e, pertanto, non poteva considerarsi immune dalle critiche della stampa. In una società democratica, è ben prevedibile che la vita privata dei politici possa diventare oggetto di un dibattito d’interesse generale.
Infine, la Corte censura il comportamento dei giudici nazionali che, nel quantificare la sanzione, hanno considerato solo elementi generali, senza condurre un’analisi della specifica situazione finanziaria dei ricorrenti. Le sanzioni, infatti, quand’anche legittime, se non sono proporzionate, possono finire per dissuadere la stampa e i giornalisti dallo svolgere il compito di informazione e di controllo che gli appartiene (v. Letria Conceição c. Portogallo, n. 4049/08, par. 43; SA e altri c. Portogallo, n. 39324/07, par. 55; Monnat c. Svizzera, n. 73604/01, par. 70). Alla luce delle esposte considerazioni, la Corte Edu ha ritenuto illegittimo il provvedimento emesso nei confronti dei ricorrenti, accertando nel caso di specie la violazione dell’art. 10 della Cedu.