Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di marzo 2021

Le più interessanti pronunce emesse dalla Corte di Strasburgo a marzo 2021
 
 

Tra le sentenze di marzo più rilevanti della Corte Europea dei diritti dell’uomo, merita di essere segnalata la presa di posizione in ordine ai rapporti tra Convenzione e diritto dell’Unione europea: la Corte ribadisce la presunzione di protezione equivalente ma mostra chiaramente come confutarla. Nella causa Bivolaru e Moldovan c. Francia, il rischio di trattamenti inumani e degradanti può rappresentare in concreto un limite invalicabile al meccanismo di riconoscimento reciproco imposto dal MAE, istituto non applicabile in modo automatico a scapito dei diritti fondamentali. A seguire, le cause Zinin c. Russia e Mehmood c. Grecia confermano la crescente attenzione per la ricerca e l’utilizzo mezzi di prova: vengono, rispettivamente, in rilievo le operazioni sotto copertura, la cui ammissibilità postula limiti e procedure garantite, nonché il rigore della prova scientifica in caso di negligenza sanitaria. Infine, con un immancabile intervento a favore della libertà di espressione, nella causa Benitez Moriana e Iñigo Fernandez c. Spagna, la Corte tutela il diritto di critica avverso le istituzioni; così facendo, conferma altresì lo sfavore per la pena detentiva in materia di diffamazione, legittima solo in ipotesi di eccezionale gravità. In tempi recentissimi, la Corte costituzionale ha d’altronde recepito siffatta tendenza, dichiarando l’illegittimità dell’art. 13 della legge sulla stampa (n. 47/1948) nella parte in cui fa scattare obbligatoriamente, in caso di diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato, la reclusione da uno a sei anni insieme al pagamento di una multa.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione) 25 marzo 2021 ric. n. 40324/16 e 12623/17, Bivolaru e Moldovan c. Francia

Oggetto: articolo 3 della Convenzione (divieto di tortura), componente materiale, mandati d’arresto europeo emessi dalle autorità rumene, consegna del primo ricorrente nonostante il rischio reale di condizioni di detenzione degradanti, consegna del secondo ricorrente nonostante lo status di rifugiato e il rischio di persecuzione o di condizioni di detenzioni degradanti.

La Corte di Strasburgo ha statuito la violazione dell’art. 3 della Convenzione in relazione alla decisione delle autorità francesi di eseguire due mandati d’arresto europei (MAE) nonostante l’esposizione dei ricorrenti al rischio di trattamenti inumani e degradanti.

Il primo ricorrente (Moldovan) veniva condannato dal tribunale di Mures (Romania) a sette anni e sei mesi di reclusione per tratta di esseri umani, fatti commessi in Romania e in Francia. 

Le autorità rumene emettevano un mandato di arresto europeo al fine di eseguire la pena detentiva inflitta. Nel giudizio sulla consegna, le autorità francesi, in base alle direttive ricavabili dalla giurisprudenza di Lussemburgo, chiedevano alla Romania prove oggettive, affidabili e aggiornate sulle condizioni di detenzione effettive, per valutare l’esistenza di un rischio reale di sottoposizione del ricorrente a trattamenti inumani e degradanti. Sulla scorta della documentazione trasmessa dalle autorità rumene, i giudici disponevano la consegna del ricorrente, purché le condizioni di detenzione della persona interessata fossero almeno conformi a quelle ivi descritte e garantite. A fronte del rigetto del ricorso avverso siffatta decisione, il ricorrente veniva consegnato in esecuzione del MAE.

Il secondo ricorrente (Bivolaru), leader di un movimento di yoga spirituale, veniva accusato di rapporti sessuali con minore, perversione sessuale e corruzione di minore, traffico di persone e attraversamento illegale della frontiera. Dopo un breve periodo di detenzione cautelare in Romania, veniva rilasciato e si recava in Svezia, dove presentava domanda di asilo politico. 

Le autorità rumene, presso cui il processo si svolgeva in contumacia, presentavano due richieste di estradizione che, tuttavia, i giudici svedesi respingevano alla luce del rischio di persecuzione per opinioni religiose. Il ricorrente, inoltre, riceveva un permesso di soggiorno permanente come rifugiato. In seguito, le autorità rumene emettevano una condanna a sei anni di reclusione in ordine all’accusa di rapporti sessuali con minore e, conseguentemente, un MAE per l’esecuzione della sentenza. Il ricorrente veniva fermato a Parigi con documenti bulgari falsi. 

Prima di decidere sulla consegna, le autorità francesi chiedevano alla Svezia se lo status di rifugiato fosse stato riconosciuto prima dell’adesione della Romania all’Unione europea, se le circostanze fondanti il riconoscimento in parola fossero venute meno, se la circolazione con documenti d’identità falsi fosse incompatibile con tale status, se fossero pendenti ulteriori richieste di consegna da altri paesi europei. La Procura internazionale di Stoccolma, chiarite le coordinate temporali, rispondeva negativamente alle diverse richieste. 

I giudici francesi, richiamando i principi elaborati in ordine alla decisione quadro sul MAE dalla CGUE (ex multis, Melloni, 26 febbraio 2013), ritenevano che lo status di rifugiato concesso dal Regno di Svezia, poiché precedente all’ammissione della Romania all’Unione europea, non imponesse, secondo le disposizioni della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, di rifiutare la consegna dell’interessato alle autorità rumene. Un rifiuto così motivato avrebbe viceversa determinato un contrasto coi motivi di non esecuzione (sia obbligatoria che facoltativa) della decisione quadro, compromettendone l’efficacia e minacciando l’uniformità del livello di protezione dei diritti fondamentali nello spazio giudiziario dell’Unione. L’opposizione relativa al rischio di discriminazione per opinioni religiose veniva rigettata poiché queste ultime non erano state poste a fondamento della condanna rumena.

La Cassazione confermava la decisione di consegna, ritenendo altresì di non accogliere il motivo sulla pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia dell’unione europea.

In fase di ammissibilità dei ricorsi, la Corte di Strasburgo esclude l’esame della violazione dell’art. 2, censurata solo dal secondo ricorrente, non avendo questi argomentato come l’esecuzione del MAE lo avrebbe esposto a un rischio per la vita.

L’incipit della valutazione di merito riguarda la presunzione di protezione equivalente nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea. Nell’applicare il diritto dell’Unione europea, gli Stati contraenti rimangono soggetti agli obblighi che hanno liberamente assunto al momento dell’adesione alla Convenzione. Qualora una misura sia adottata in virtù di obblighi giuridici internazionali, essa si considera giustificata se l’organizzazione in questione offre ai diritti fondamentali una protezione almeno equivalente (non identica, ma comparabile) a quella della Convenzione. In altre parole, se la protezione dell’organizzazione è equivalente, si presume che gli Stati, quando eseguono gli obblighi da essa derivanti, rispettino contestualmente i requisiti della Convenzione. Perché la presunzione operi, è necessario risultino soddisfatte due condizioni: in primis, nell’attuazione dell’obbligo giuridico internazionale, lo Stato convenuto non deve poter vantare margini di manovra né discrezionalità; in secondo luogo, l’organizzazione internazionale di riferimento deve aver attivato, in relazione al rispetto del predetto obbligo, i controlli all’uopo previsti. La seconda eccezione deve essere applicata senza eccessivo formalismo sicché non occorre subordinare la presunzione al puntuale rinvio pregiudiziale del giudice nazionale alla CGUE quando l’interpretazione sulla protezione dei diritti fondamentali non presenti difficoltà. Una volta accertata l’operatività della presunzione, questa può comunque essere confutata, in virtù di un reclamo serio e circostanziato sulla manifesta inadeguatezza della protezione dei diritti.

Così, con riguardo al MAE, il meccanismo di riconoscimento reciproco non dovrebbe essere applicato in modo automatico e meccanico, a scapito dei diritti fondamentali, ben potendo il rischio di trattamenti inumani e degradanti costituire motivo legittimo per rifiutarne l’esecuzione, purché del rischio sussista una base fattuale sufficiente.

Nei confronti del primo ricorrente, la Corte ritiene, innanzitutto, che la presunzione di protezione equivalente sia applicabile. Da una parte, si rileva come l’obbligo giuridico di esecuzione del MAE deriva dalle disposizioni pertinenti della decisione quadro come interpretate dalla CGUE e che l’autorità giudiziaria di esecuzione è autorizzata a derogare, in circostanze eccezionali, ai principi di fiducia e di riconoscimento reciproco tra Stati membri, in forza di carenze sistemiche dello Stato membro ovvero di precisi rischi individuali. Poiché il potere di valutazione è esercitato in un quadro rigorosamente definito dalla giurisprudenza di Lussemburgo, la prima condizione della presunzione risulta soddisfatta. Dall’altra, si rileva come non sussista alcuna grave difficoltà di interpretazione della decisione quadro, tale da giustificare la necessità di un rinvio pregiudiziale alla CGUE, sicché ricorre anche la seconda condizione.

Tuttavia, la Convenzione risulta violata nell’ambito del terzo step del sindacato sulla presunzione di protezione per equivalente, quello relativo all’esistenza di un’inadeguatezza manifesta capace di confutare la presunzione.

Il giudice nazionale, nonostante la diligente richiesta di informazioni supplementari alle autorità rumene, aveva a disposizione una base fattuale sufficiente per riconoscere il rischio di violazione dell’art. 3 della Convenzione: il carcere rumeno indicato era endemicamente sovraffollato; al ricorrente sarebbe stato riservato uno spazio tra 2 e 3 m2, servizi igienici inclusi, benché lo spazio minimo per detenuto, in cella collettiva, sia pari (per giurisprudenza consolidata della Corte) a 3 m2; gli impegni riguardanti aspetti come la libertà di movimento e le attività di movimento sono stati formulati in modo stereotipato.

Nei confronti del secondo ricorrente, la Corte esclude l’applicazione della presunzione in ragione della seconda condizione. La domanda del ricorrente di adire la CGUE, in merito alle conseguenze della concessione dello status di rifugiato da parte di uno Stato membro a un cittadino di uno Stato terzo divenuto solo successivamente membro, era questione reale e seria, sicché il rigetto della Corte di cassazione francese ha impedito l’attivazione del meccanismo internazionale di controllo sul rispetto dei diritti fondamentali. Spetta, pertanto alla Corte pronunciarsi sulle conseguenze dello status di rifugiato del ricorrente e sulla legittimità della consegna in esecuzione del MAE, tenuto conto del rischio di persecuzione a causa delle convinzioni politiche e religiose (persecuzione che equivale a trattamento inumano e degradante).

La Corte antepone tre premesse: non è suo compito pronunciarsi sulla relazione tra protezione dei rifugiati prevista dalla Convenzione di Ginevra e diritto dell’Unione europea; il diritto convenzionale non tutela il diritto di asilo in quanto tale; la decisione quadro sul MAE non prevede un motivo di non esecuzione basato sullo status di rifugiato. Tuttavia, al fine di stabilire il rischio di un trattamento contrario all’art. 3 della Convenzione, è sicuramente rilevante la concessione svedese dello status di rifugiato perché fondata proprio su prove del rischio di persecuzione del ricorrente nel paese d’origine.

Nello specifico, il rischio di persecuzione non dispone di una base fattuale sufficientemente solida: benché le autorità francesi avessero chiesto chiarimenti, quelle svedesi non hanno dato conto dell’eventuali conseguenze tratte dall’adesione della Romani all’UE, un anno dopo la concessione dello status né della persistenza del rischio a dieci anni di distanza. Inoltre, la richiesta di esecuzione del MAE non era stata presentata per scopi discriminatori né politici.

Infine, la Corte esclude la violazione dell’art. 3 della Convenzione anche in relazione al rischio di condizioni di detenzioni degradanti, non sufficientemente provato dal ricorrente.

 

Sentenza della Corte Edu (Terza Sezione) 9 marzo 2021 ric. n. 54339/09, Zinin c. Russia

Oggetto: articolo 6 della Convenzione (processo equo – penale), induzione al reato da parte degli agenti di polizia, test sostanziale e procedurale sulla legittimità dell’operazione sotto copertura, mancata partecipazione del ricorrente all’udienza di cassazione.

La Corte di Strasburgo ha statuito la violazione dell’art. 6 §§ 1 e 3 della Convenzione per iniquità del processo sotto due profili: condanna per fatti commessi su induzione della polizia e mancata partecipazione all’udienza di cassazione.

All’epoca dei fatti, il ricorrente, cittadino russo, prestava servizi informatici e, a tal fine, pubblicizzava il proprio numero telefonico in apposita sezione di giornale. Veniva dunque contattato da un agente di polizia sotto copertura perché gli installasse un programma informatico. Il ricorrente, dopo averne scaricato copia contraffatta su disco rigido magnetico portatile, incontrava l’agente per l’installazione; lo stesso giorno veniva arrestato e accusato di violazione del copyright e di distribuzione su larga scala di software contraffatto.

Nel corso del procedimento penale, emergeva che il medesimo agente aveva contattato il ricorrente due volte, in quanto, in occasione della prima chiamata, quest’ultimo gli aveva offerto una versione del software diversa da quella richiesta.

Mediante la c.d. eccezione di induzione al reato (plea of police entrapment), la difesa contestava alla procura di non aver dimostrato quali pregresse informazioni incriminanti giustificassero l’operazione segreta nei confronti del ricorrente e, conseguentemente, di aver determinato un intento criminoso prima inesistente. Il giudice di pace, senza dar conto dell’eccezione, pronunciava sentenza di condanna, poi confermata nel giudizio di cassazione, nonostante la difesa non fosse comparsa.

In punto di esaurimento dei rimedi interni, la Corte europea dichiara il ricorso ammissibile poiché, quando l’interessato esaurisce un rimedio apparentemente efficace e sufficiente, non è tenuto a esperirne altri, ancorché disponibili, qualora non aumentino le probabilità di successo.

Nel merito, vengono ribaditi i principi che informano l’uso di agenti sotto copertura. Si tratta di tecnica investigativa necessaria per contrastare gravi reati ma i relativi risultati probatori sono utilizzabili solo se condotta entri limiti chiari, nel rispetto di opportune garanzie. 

La Corte si avvale di un test duplice per saggiarne la legittimità. 

In base al test sostanziale, le autorità procedenti devono dimostrare di aver avuto buone ragioni per l’operazione, di essere in possesso di elementi concreti, oggettivi e verificabili, significativi di attività criminale già in corso al momento dell’intervento della polizia. Viceversa, sono indici che denotano istigazione a un reato che altrimenti non sarebbe stato commesso l’iniziativa della polizia nel contattare il ricorrente, la ripetizione dell’offerta dopo un rifiuto iniziale, l’insistenza, la promessa di guadagno o l’appello al senso di compassione. 

Poiché l’onere della prova spetta all’autorità procedente, è necessario che i singoli Stati prevedano procedure di autorizzazione chiare e prevedibili sia per autorizzare le misure investigative sia per garantirne la supervisione, almeno da parte del pubblico ministero, qualora non sia possibile da parte del giudice.

In ordine al test procedurale, la Corte valuta il trattamento riservato dall’autorità giudiziaria all’eccezione di induzione al reato. Tale aspetto è decisivo quando le informazioni sulle operazioni non sono completamente accessibili o gli eventi incerti. L’onere di dimostrare l’assenza di istigazione spetta all’accusa; il giudice deve esaminare l’eccezione in contraddittorio e controllare le ragioni dell’operazione segreta, la portata del coinvolgimento della polizia nel reato, la natura della pressione cui il ricorrente è stato sottoposto.

Applicando il test sostanziale al caso di specie, sebbene il ricorrente abbia dimostrato di avere esperienza nel disabilitare illegalmente le protezioni del software, si dubita che, senza l’intervento dell’autorità, il reato sarebbe stato commesso. Da un lato, mancano sia una procedura chiara e prevedibile sull’autorizzazione dell’operazione, sia un controllo indipendente sulla medesima. Dall’altro, non risultano dimostrate le informazioni a carico del ricorrente in ordine a precedenti attività criminose.

Quanto al test procedurale, né la procura ha assolto l’onere di cui sopra né l’autorità giudiziaria ha vagliato l’eccezione di induzione al reato. L’eventuale difficoltà di accesso alle informazioni in possesso degli organi inquirenti, pur sorretta da motivi economia ed efficienza procedurale, non consente di abbassare lo standard di adeguatezza del controllo giurisdizionale, non consente deroghe all’equità del processo.

Sussiste inoltre la violazione dell’art. 6 della Convenzione anche con riguardo al mancato controllo circa le ragioni dell’assenza della difesa in sede di udienza di cassazione.

Nell’affinare il sindacato sull’attività d’indagine degli Stati contraenti, la Corte sembra affermare qualcosa in più rispetto all’approccio inaugurato nel leading case Teixeira de Castro c. Portogallo (9 giugno 1998), nella parte in cui applica il test procedurale nonostante già il test sostanziale avesse avuto esito “positivo”, in termini di violazione, come segnalato nell’opinione concorrente del giudice Pavli, cui si è unito il giudice Ravarani. Non potendosi certo desumere la possibilità di “sanare” in via procedurale il deficit sostanziale, si ritiene che la Corte abbia semplicemente colto l’occasione per denunciare entrambe le carenze.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione) 25 marzo 2021 ric. n. 77238/16, Mehmood c. Grecia

Oggetto: articolo 2 della Convenzione (diritto alla vita), morte di una donna nel reparto di maternità di un ospedale pubblico e accuse di negligenza medica, esistenza di un quadro normativo che imponga agli ospedali di adottare misure adeguate alla protezione della vita dei pazienti (componente materiale degli obblighi derivanti dal diritto alla vita), mancanza di un’indagine penale efficace per determinare cause e responsabili della morte (componente procedurale); articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita familiare), assenza di un nesso causale immediato tra la morte della moglie del ricorrente e l’impossibilità per quest’ultimo di prendersi cura personalmente dei figli.

La moglie del ricorrente, residente col marito in Grecia, veniva ricoverata e partoriva in un ospedale pubblico. Il bambino, poche ore dopo il parto, veniva trasferito in un reparto speciale per talune complicanze: il bambino aveva un odore sgradevole, sintomo di una possibile infezione da tracheite della madre, e quest’ultima aveva subito due emorragie.

Dopo quattro giorni, il ricorrente veniva contattato per assistere alle dimissioni della moglie, nonostante ella avesse manifestato difficoltà respiratorie e altri dolori. Arrivato in ospedale, la trovava in una stanza, sola e in condizioni che l’avrebbero condotta alla morte nell’arco di un’ora: decedeva in sala parto, in stato di midriasi e senza polso cardiaco. 

Il ricorrente denunciava l’accaduto, così determinando l’avvio di un procedimento penale. Decorsi un paio di anni, il giudice istruttore convocava il ginecologo che aveva seguito la moglie in ospedale, il quale dichiarava l’assenza negligenze od omissioni, ricollegando causalmente la morte a uno shock settico improvviso. 

Intanto, il ricorrente presentava un’ulteriore denuncia nei confronti, direttamente, del ginecologo e di ogni altro sanitario coinvolto. La Procura ordinava dunque una perizia, rivelatasi del tutto aderente alla ricostruzione causale offerta dal ginecologo, senza però adeguato supporto scientifico. Il pubblico ministero, in seguito ad ulteriori indagini, rigettava la denuncia, decisione impugnata dal ricorrente. Il procuratore della Corte d’appello disponeva un’ulteriore perizia, all’esito della quale respingeva l’impugnazione. 

L’indagine amministrativa interna all’ospedale si concludeva in senso analogo.

Il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2 della Convenzione in relazione alla perdita della moglie a causa di varie negligenze mediche, nonché alla mancanza di un’indagine penale rapida ed efficace sulla morte; lamenta la violazione dell’art. 8 della Convenzione in relazione al suo diritto al rispetto della vita familiare poiché, in seguito alla morte della moglie, non potendosi prendere cura dei figli, aveva dovuto lasciarli coi genitori in Pakistan e vivere da solo in Grecia.

La Corte ribadisce, in primo luogo, che il contenuto dell’obbligo positivo degli Stati di garantire il diritto alla vita, in ipotesi di negligenza medica, risulta soddisfatto quando il quadro normativo nazionale obblighi, a sua volta, le strutture ospedaliere, pubbliche o private, ad adottare misure appropriate per proteggere la vita dei pazienti. 

Gli Stati contraenti rispondono, ai sensi della componente materiale dell’art. 2 cit., solo in circostanze eccezionali, per azioni od omissioni dei sanitari: quando l’accesso a un trattamento d’emergenza salvavita venga negato dal sanitario per rifiuto consapevole (ipotesi in cui non rientra il trattamento difettoso, errato, non tempestivo) ovvero a causa di un malfunzionamento sistemico o strutturale nei servizi ospedalieri, di cui le autorità erano o avrebbero dovuto essere a conoscenza. Perché un caso rientri nelle due summenzionate ipotesi eccezionali, operano quattro criteri cumulativi: la condotta, senza esaurirsi in errore medico, deve consistere in una violazione di obblighi professionali che determini la negazione di un trattamento medico nonostante la consapevolezza dei rischi per la vita del paziente; il malfunzionamento deve essere oggettivo, riconoscibile come sistematico o strutturale; vi deve essere un legame tra il malfunzionamento e il danno; il malfunzionamento deve essere determinato dalla carenza del quadro normativo.

Nel caso di specie, non ricorre una violazione dell’art. 2 della Convenzione nel suo aspetto sostanziale, poiché l’errore di diagnosi o l’intervento tardivo non sono equiparabili ai casi di rifiuto delle cure, poiché non sono stati prodotti elementi sufficienti per constatare un malfunzionamento sistemico o strutturale dell’ospedale. Se negligenza medica c’è stata, essa è consistita nell’incapacità dei medici di diagnosticare la tracheite e prevederne un’evoluzione fulminante verso lo shock settico, indipendentemente dall’adeguatezza del quadro normativo nazionale.

In ordine alla componente procedurale dell’art. 2 della Convenzione, la Corte ritiene che l’obbligo di istituire un sistema giudiziario in grado di accertare cause e responsabili, qualora ricorra un’ipotesi di negligenza medica, sia soddisfatto in presenza di un rimedio civile alle vittime, da solo o in combinazione con un rimedio penale, purché, nella pratica, funzioni efficacemente, secondo garanzie di indipendenza degli organi competenti per l’accertamento.

Nel caso di specie, ricorre una violazione in relazione all’efficacia delle indagini, durate ben cinque anni, senza accesso del ricorrente al fascicolo (almeno per i primi tre anni). Il profilo di maggiore frizione rispetto agli standard convenzionali risiede nell’inadeguatezza delle perizie, rivelatesi parziali, superficiali e deboli dal punto di vista scientifico. Il giudice istruttore ha chiamato a testimoniare solo il ginecologo, non gli altri sanitari coinvolti; il procuratore non ha indicato al primo esperto le questioni da approfondire; la prima perizia è stata fatta da un chirurgo, piuttosto che da un ginecologo, il quale si è appiattito alle valutazioni del precedente ginecologo, tralasciando elementi di fatto rilevanti (quali il cattivo odore del neonato, la tracheite della madre, i sintomi manifestati dal parto al giorno delle dimissioni, l’assenza di medici in momenti critici); il secondo perito ha risposto ai quesiti quasi informalmente, riferendosi ad opinioni piuttosto che a specifico materiale scientifico.

Infine, quanto al rispetto dell’art. 8 della Convenzione, sebbene lo “stare insieme”, tra genitore e figlio, sia un elemento fondamentale della vita familiare, la Corte esclude l’esistenza di un nesso causale diretto tra la morte della moglie del ricorrente e la scelta di quest’ultimo di continuare a vivere in Grecia senza i suoi figli.

 

Sentenza della Corte Edu (Terza Sezione) 9 marzo 2021, ric. nn. 36537/15 e 36539/15, Benitez Moriana e Iñigo Fernandez c. Spagna

Oggetto: Articolo 10 della Convenzione (libertà di espressione), condanna penale ingiustificata di membri di un'associazione senza scopo di lucro per le critiche nei confronti di un giudice, prevedibilità e inidoneità delle critiche a minare il corretto svolgimento del procedimento giudiziario.

I ricorrenti sono cittadini spagnoli, membri di una associazione di tutela dell'ambiente, che lamentano la violazione del diritto alla libertà di espressione a causa della condanna penale per aver pubblicato una lettera aperta in un giornale locale, con la quale criticavano il comportamento di un giudice in un procedimento in materia ambientale.

La vicenda prende le mosse dal ricorso al giudice amministrativo presentato da un’impresa mineraria per dichiarare nullo il provvedimento comunale che negava il rilascio di una licenza ambientale per attività classificate. La sentenza del tribunale amministrativo accoglieva la domanda dell’impresa interessata alla licenza. Il giudizio veniva confermato anche in appello, per le medesime ragioni di merito.

A seguito della sentenza di accoglimento, i ricorrenti pubblicavano una lettera aperta in un giornale locale rivolgendosi direttamente alla persona del giudice di primo grado, accusandolo di non essere stato imparziale e competente nella decisione. Un procedimento penale veniva avviato d'ufficio dal pubblico ministero contro i ricorrenti e si concludeva con una sentenza di condanna per ingiurie aggravate commesse pubblicamente.

I ricorrenti presentavano appello, che si concludeva con la conferma della sentenza di primo grado. I ricorrenti presentavano così un ricorso di amparo di fronte alla Corte costituzionale spagnola, denunciando una violazione del loro diritto alla libertà di espressione. La Corte costituzionale respingeva il ricorso, valutando che nel caso di specie le espressioni di critica utilizzate dai ricorrenti superavano i limiti della libertà di espressione garantiti a livello costituzionale. In particolare, si è ritenuto che la libertà di espressione non debba ledere l'onore e la dignità individuale della persona oggetto di critica.

La Corte di Strasburgo ritiene violata la libertà di espressione dei ricorrenti protetta dall’articolo 10 della Convenzione. In particolare, secondo la Corte, le accuse mosse dai ricorrenti non superavano i limiti del legittimo diritto di critica, trattandosi di critiche rivolte a un giudice nell'esercizio di attività istituzionale.

Innanzitutto, le opinioni pubblicate nel quotidiano rientrano nel contesto di un dibattito su una questione di interesse pubblico quale il funzionamento del sistema giudiziario. I ricorrenti, quindi, in quanto membri di una ONG, hanno esercitato un ruolo di controllo pubblico di importanza simile a quello della stampa.

Inoltre, pur condividendo la motivazione del giudice penale interno, secondo cui le dichiarazioni dei ricorrenti consistevano più in giudizi di valore che in mere affermazioni di fatto, in considerazione del tono generale delle osservazioni e del contesto in cui erano formulate, la Corte rileva che un giudice ordinario, nell'esercizio delle sue funzioni, dovrebbe aspettarsi di ricevere critiche di questo tenore. Le opinioni espresse dai ricorrenti non possono quindi essere considerate come un attacco personale gratuito ma anzi un giusto commento su una questione di importanza pubblica.

Infine, la Corte valuta sproporzionata la sanzione a carico dei ricorrenti. Se infatti è vero che questi sono stati condannati al pagamento di una multa, questa sanzione ha comunque natura penale e quindi, da un lato, è idonea a convertirsi in pena detentiva in caso di mancato pagamento e, dall’altro, porta con sé gli effetti a lungo termine di un qualsiasi precedente penale.

Per tali ragioni la Corte ha ritenuto violato l’articolo 10 della Convenzione in quanto la sanzione penale non è «necessaria in una società democratica». La decisione ha avuto cinque voti favorevoli e due voti contrari, questi ultimi motivati da una diversa valutazione dei due diritti in conflitto e da un opposto giudizio circa la gravità delle critiche mosse dai ricorrenti, che rendono la sanzione penale proporzionata al fine legittimo di tutelare l’onore del giudice nazionale.

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
 
Emilio Bufano, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa

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