Le sentenze di luglio e agosto più rilevanti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo riguardano da vicino il nostro Paese, perché emesse in casi contro di esso ovvero su problematiche di recente composizione dinanzi alle Corti supreme nazionali.
Nella causa Maestri c. Italia, la Corte di Strasburgo aggiunge un nuovo tassello alla composita garanzia procedurale della rinnovazione della prova orale da parte del giudice di appello che intenda ribaltare l’assoluzione di primo grado. Le ripercussioni della sentenza Dan c. Moldavia sembrano essere sempre più pervasive: qualora il giudice dell’impugnazione sia competente a pronunciarsi per la prima volta in termini di colpevolezza, la valutazione diretta delle prove implica la rinnovazione non solo della testimonianza decisiva ma dell’esame dell’imputato, ancorché assente. Sul punto, il giudice di appello è tenuto ad adottare “misure positive”, con apposita citazione per il nuovo esame, sicché non risultano sufficienti né la citazione in appello (poiché la rinuncia a comparire nel procedimento non equivale alla rinuncia al diritto di essere ascoltato) né la facoltà di rendere dichiarazioni spontanee o il diritto di prender la parola per ultimo.
Nella causa Todorov e altri c. Bulgaria, la Corte affronta il tema della confisca dei proventi di reato, passando in ricognizione numerosi precedenti convenzionali, tra cui non manca la sentenza G.I.E.M. e altri c. Italia, sulla confisca urbanistica. Entrambe le tipologie di confisca sono state oggetto di importanti prese di posizione nel maggio u.s., ad opera, rispettivamente, delle Sezioni Unite della Corte di cassazione e della Corte costituzionale.
Sul finire di agosto, nella causa Associazione politica nazionale lista Marco Pannella e radicali italiani c. Italia, la Corte si occupa della libertà d’espressione nell’ambito del settore audiovisivo, in particolare del pluralismo che presiede la diffusione di posizioni e idee politiche nelle trasmissioni televisive. L’impostazione italiana, favorevole alla progressiva “liberalizzazione” del settore a vantaggio delle scelte editoriali del singolo canale (comunque sotto la vigilanza di autorità amministrative indipendenti) risulta conforme alla Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 8 luglio 2021, ric. n. 20903/15 e altri 3, Maestri e altri c. Italia
Oggetto: Articolo 6 della Convenzione (equo processo), ambito penale, assoluzione di primo grado e ribaltamento in appello, obbligo per il giudice di appello di disporre l’audizione dell’imputato, nuova audizione non equiparabile né alla facoltà dell’imputato di rendere dichiarazioni spontanee né al suo diritto di parlare per ultimo, rinuncia a comparire non equiparabile alla rinuncia al diritto di essere ascoltato.
I ricorrenti, cittadini italiani, erano accusati di truffa e associazione a delinquere volta all’elusione del regime delle quote latte introdotto dal regolamento europeo n. 856/84.
Nel procedimento di primo grado, il tribunale, dopo aver interrogato diversi testimoni, i periti e ciascun ricorrente, assolveva tutti e sei i ricorrenti in relazione al reato di associazione a delinquere; viceversa, in relazione alla truffa aggravata, assolveva solo una ricorrente, ossia la contabile della società di gestione delle quote, condannando gli altri.
La Corte d’Appello ribaltava parzialmente tale sentenza con riguardo sia all’associazione a delinquere, ritenendone sussistenti gli elementi costitutivi, mediante diversa interpretazione giuridica del dolo, che alla truffa aggravata, affermando la penale responsabilità della ricorrente-contabile, mediante rivalutazione delle dichiarazioni testimoniali. La condanna veniva confermata nel procedimento di cassazione.
I ricorrenti, dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, lamentano la violazione del diritto a un equo processo, nella parte in cui i giudici di appello avevano ribaltato l’assoluzione senza rinnovare né il loro esame né l’escussione dei testimoni a carico.
La Corte, in primo luogo, sottolinea l’importanza della valutazione diretta delle prove, in particolare delle testimonianze decisive, quando il giudice dell’impugnazione sia chiamato a pronunciarsi nuovamente sulla questione di innocenza o colpevolezza. Inoltre, benché l’articolo 6 della Convenzione non implichi sempre il diritto a un’udienza pubblica né il diritto a comparire di persona, il tribunale deve sentire personalmente l’imputato quando si esprima per la prima volta in termini di colpevolezza.
Di conseguenza, quando è necessaria la valutazione diretta delle dichiarazioni dell’imputato, da una parte, il giudice di appello è obbligato ad adottare “misure positive” in tal senso, ancorché il primo sia assente; dall’altra, non sussiste iniquità del processo qualora l’imputato abbia espressamente e inequivocabilmente rinunciato al suo diritto di essere ascoltato.
Occorre però distinguere l’ipotesi in cui l’assoluzione venga rovesciata in base a una rivalutazione dei fatti, per via delle prove, da quella in cui il rovesciamento si fondi su una diversa interpretazione o applicazione del diritto, sui fatti già stabiliti. La rinnovazione della prova orale risulta necessaria solo nella prima eventualità.
Nel caso di specie, la Corte osserva che il ribaltamento dell’assoluzione relativa all’associazione a delinquere è dipeso da una diversa interpretazione dell’elemento soggettivo, ben potendo consistere nell’intenzione di commettere una pluralità di reati dello stesso tipo, non solo di tipo diverso. Di conseguenza, non essendovi stata né una nuova ricostruzione dei fatti né una diversa valutazione delle prove, la Corte esclude che la mancata rinnovazione delle testimonianze a carico integri una violazione della Convenzione.
Tuttavia, la Corte ritiene che la diversa interpretazione dell’elemento soggettivo abbia determinato l’insorgenza di una nuova questione in ordine alle intenzioni degli imputati, dunque l’obbligo per i giudici di appello di ascoltarli nuovamente, adottando “misure positive” in tal senso.
Sembra quindi necessaria apposita citazione per rinnovare l’esame, senza alcuna efficacia suppletiva della citazione in appello, posto che la rinuncia a comparire non equivale alla rinuncia al diritto di essere ascoltato. Non sono suscettibili di integrare l’obbligo in parola previsioni quali la facoltà dell’imputato di rendere dichiarazioni spontanee né il diritto di parlare per ultimo.
Con riguardo alla posizione della ricorrente-contabile, la Corte evidenzia come i giudici di appello, ai fini del ribaltamento dell’assoluzione, abbiano proceduto alla rilettura delle dichiarazioni testimoniali, sicché la violazione convenzionale risiede, oltre che nella mancata rinnovazione dell’esame dell’imputata, nella mancata rinnovazione delle testimonianze a carico.
Sentenza della Corte Edu (Quarta Sezione), 13 luglio 2021, ric. n. 50705/11 e altri 6, Todorov e altri c. Bulgaria
Oggetto: Articolo 1 Prot. 1 della Convenzione (diritto di proprietà), godimento pacifico dei beni, confisca dei proventi di reato, legislazione carente, rilevanza della motivazione dei giudici ai fini della proporzionalità dell’interferenza, accertamento del nesso causale tra i beni confiscati e l’ attività criminosa.
I ricorrenti, cittadini bulgari, venivano condannati per reati rientranti nell’ambito di applicazione del Forfeiture of Proceeds of Crime Act (Legge sulla confisca dei proventi di reato) del 2005. In particolare, nel ricorso Todorov, il ricorrente veniva condannato per privazione illegale della libertà personale nonché tentata estorsione; nel ricorso Gaich, per frode aggravata, appropriazione indebita ed evasione fiscale; nel ricorso Barov, per possesso illegale di armi e rapina; nel ricorso Zhekovi, per falsificazione aggravata di documenti; nel ricorso Rusev, per disboscamento illegale; nel ricorso Katsarov, per possesso illegale di stupefacenti anche a scopo di vendita; nel ricorso Dimitrov, per evasione fiscale.
L’autorità incaricata di avviare e condurre i procedimenti di confisca era la Commissione per la scoperta dei proventi del crimine, articolata in uffici regionali cui i tribunali notificavano accuse e condanne per i reati-presupposto. La Commissione aveva il compito di accertare l’acquisto di “beni di valore considerevole”, laddove potessero ragionevolmente considerarsi proventi di reato, ed eventualmente, all’esito di siffatta indagine, sottoporre domanda di confisca al tribunale civile territorialmente competente.
Così ciascuno degli attuali ricorrenti subiva, direttamente, in qualità di condannato, ovvero indirettamente, in quanto parente del condannato, un provvedimento di confisca. Rispetto a ciascuno, il procedimento di confisca si svolgeva in un intervallo temporale caratterizzato dal contrasto giurisprudenziale in ordine al requisito del nesso causale tra il reato accertato o l’attività criminale dell’imputato e i beni da confiscare. In alcuni casi, i tribunali avevano ritenuto che non fosse necessario dimostrare alcun nesso causale, poiché l’articolo 4, paragrafo 1, della legge del 2005 stabiliva la seguente presunzione: tutti i beni di cui non era stata dimostrata l’esistenza di una fonte legale rappresentavano proventi di reato. In altri casi, i tribunali avevano ritenuto di dover accertare il nesso di causalità, ancorché rimanesse indimostrata l’esistenza di una fonte di reddito lecita. Solo nel 2014 la Corte Suprema aderiva al secondo orientamento, in spregio a qualsiasi automatismo.
I ricorrenti denunciano dinanzi alla Corte di Strasburgo la violazione del diritto di godere pacificamente dei propri beni, ai sensi dell’articolo 1 Protocollo 1, in virtù dell’illegittimità dell’interferenza subita, nonché l’iniquità del procedimento applicativo della confisca e l’assenza di ulteriori rimedi interni, ai sensi degli articoli 6 § 1 e 13 della Convenzione.
Innanzitutto, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo chiarisce che, ai fini dell’ammissibilità dei ricorsi, non è necessario l’espresso riferimento, in sede di impugnazione nazionale, all’inviolabilità costituzionale della proprietà privata.
Quanto al merito dell’interferenza, la Corte riconosce sia l’esistenza di una base legale, nella suddetta legge del 2005, sia la legittimità dello scopo perseguito, ossia contrastare il crimine, in particolare il riciclaggio di denaro, sicché si concentra sul terzo e ultimo requisito, ossia la proporzionalità dell’interferenza rispetto al suddetto scopo.
Di grande utilità è la ricognizione, mediante dettagliato richiamo ai pertinenti precedenti giurisprudenziali, dei requisiti procedurali capaci di soddisfare il test di proporzionalità: esemplificativamente, nella sentenza G.I.E.M. e altri c. Italia, la Corte valorizza la possibilità di misure alternative meno restrittive, il carattere limitato della confisca rispetto ad alcune aree e non altre (per edificazione e titolarità), il grado di colpevolezza o negligenza dei ricorrenti. Altresì, la Corte valuta positivamente la scelta dei giudici nazionali, in un gruppo di casi contro il Regno Unito, di astenersi dagli automatismi propri delle presunzioni di diritto; contro l’Estonia, di respingere con sufficiente motivazione tutti gli argomenti reddituali opposti dai ricorrenti; contro San Marino, di dare ragionevole opportunità ai ricorrenti di far valere le loro ragioni. Viceversa, la confisca risulta sproporzionata qualora non sussista alcuna valutazione individuale dei beni, della loro natura o provenienza, ovvero quando non è possibile stabilire alcun legame tra questi e l’attività criminale dell’imputato.
Nel caso di specie, la Corte evidenzia l’eccessiva ampiezza dell’ambito di applicazione della legge del 2005 sotto due profili. Il primo profilo consiste nella numerosità dell’elenco dei reati presupposto, essendovi ricompresi anche reati non particolarmente gravi ovvero inidonei a generare reddito; il secondo, nella illimitata retroattività della legge. In particolare, la Corte associa all’ampiezza dell’intervallo temporale di applicazione la difficoltà di provare la liceità del reddito ovvero della provenienza dei beni. Questi due fattori, unitamente all’onere di provare la provenienza legittima dei beni a carico dei ricorrenti, contribuiscono a far pendere la bilancia del procedimento di confisca a favore dello Stato. Ciononostante, la Corte ritiene che il loro effetto cumulativo non sia determinante ai fini dell’illegittimità dell’interferenza, rimettendosi alla ragionevolezza della valutazione dei tribunali.
Nello specifico, risulta decisivo, ai fini della violazione della Convenzione (rilevata solo con riguardo a taluni dei ricorsi), l’accertamento del nesso di causalità tra l’attività criminale dell’imputato e i beni oggetto di confisca, nonché l’attenzione per gli argomenti reddituali forniti dai ricorrenti.
Infine, la Corte esclude la violazione della presunzione di innocenza nel corso del procedimento di confisca sulla scorta di due considerazioni. Da una parte, posto che il procedimento di confisca segue la condanna penale, la presunzione di innocenza risulta superata dall’accertamento di colpevolezza. Dall’altra, Nel procedimento di confisca non ricorre il requisito della “accusa penale”, determinante, ratione materiae, l’operatività dell’articolo 6 § 2 della Convenzione. Invero, poiché manca l’accusa penale, non potendosi considerare la confisca dei proventi di reato quale misura punitiva, la Corte ritiene non violato neanche il principio di legalità, in punto di retroattività contra reum, di cui all’articolo 4 Protocollo 7.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 31 agosto 2021, ric. n. 20002/13, Associazione politica nazionale lista Marco Pannella e radicali italiani c. Italia
Oggetto: Articolo 10 della Convenzione (libertà d’espressione), diritto di un’associazione politica di diffondere le proprie opinioni, possibilità di partecipare a programmi televisivi volti alla diffusione di messaggi politici, ripercussioni; articolo 13 (rimedi interni effettivi).
Le ricorrenti sono due associazioni italiane.
Nel sistema radiotelevisivo italiano, la diffusione di opinioni e messaggi di natura politica avviene attraverso due tipologie di trasmissioni: quelle di “comunicazione politica”, aventi per oggetto le idee delle forze politiche che partecipano alla vita parlamentare del paese; quelle di “informazione”, aventi per oggetto temi di attualità, società e politica. Per quest’ultime, negli ultimi decenni notevolmente sviluppatesi sotto forma di approfondimenti tematici, la direzione del canale gode di una certa libertà editoriale quanto alla scelta di tematiche, ospiti e tempo di parola.
Il legislatore affida a due istituzioni il rispetto dei principi costituzionali e delle disposizioni sulla diffusione televisiva di temi politici: la Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei Servizi radiotelevisivi (c.d. Commissione di vigilanza) e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM). La Commissione di vigilanza formula orientamenti generali e indica alla RAI i criteri per l’organizzazione di “tribune politiche”. L’AGCOM, autorità amministrativa indipendente con funzioni di regolamentazione e sorveglianza nei settori delle telecomunicazioni e dell’audiovisivo, garantisce il rispetto del pluralismo e la parità di accesso di tutti gli argomenti politici alle trasmissioni di informazione, di comunicazione elettorale e politica, nonché l'imparzialità delle medesime; vigila inoltre sul rispetto degli orientamenti della Commissione.
Nel 2007, la Commissione di vigilanza comunicava alla RAI le istruzioni relative al ciclo di tribune politiche per la programmazione delle emittenti pubbliche fino al 2008. Dopo le elezioni legislative del 2008, col rinnovo della composizione della Commissione, questa non predisponeva più le istruzioni necessarie per un nuovo ciclo di tribune politiche, le quali non venivano più riprogrammate.
La prima ricorrente poneva diverse interrogazioni parlamentari circa la scomparsa delle tribune politiche. A riguardo, la RAI era disposta ad organizzarle, purché la Commissione di vigilanza l’autorizzasse a considerare la prima ricorrente come un gruppo parlamentare autonomo. Anche il presidente dell’AGCOM segnalava alla commissione di vigilanza l’urgenza di una decisione per permettere alla RAI di organizzare cicli di tribune politiche. Nel 2009, la seconda ricorrente si lamentava presso la Commissione di vigilanza della soppressione di tali cicli, soppressione che determinava un tempo di trasmissione sproporzionato a programmi dal taglio decisamente mediatico. Ciononostante, le tribune politiche non venivano ripristinate.
Nel presentare ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, le ricorrenti riconducono alla soppressione delle tribune politiche una violazione della libertà di espressione tutelata dall’articolo 10 della Convenzione.
La Corte è chiamata innanzitutto a valutare, sotto il profilo dell’ammissibilità del ricorso, la sussistenza dello status di vittima. Secondo il Governo, quest’ultimo è connesso alla qualità di soggetto politico, poiché il diritto interno garantisce l’accesso alle trasmissioni di comunicazione politica solo a soggetti politici e a gruppi rappresentati nel Parlamento. Sarebbe dunque inammissibile il ricorso della seconda associazione, in quanto priva di membri eletti e, in ogni caso, legittimata a partecipare ad altri spazi di parola e di comunicazione aperti dalla RAI. La circostanza che quest’ultima avesse partecipato in passato a diversi referendum, in qualità di soggetto politico, si giustifica alla luce di una disciplina che concerne unicamente campagne referendarie in corso.
La Corte accoglie l’eccezione governativa solo sotto questo profilo, dichiarando inammissibile il ricorso della seconda ricorrente; viceversa, rigetta l’obiezione relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, ritendo che i reclami presentati dal ricorrente fossero sufficienti e, al contempo, che rimanesse indimostrata l’effettività del percorso rimediale suggerito dal Governo (i.e. rivolgersi all’AGCOM ed eventualmente ai giudici amministrativi).
Quanto al merito dell’interferenza asserita dalla prima ricorrente, questa non riguarda un divieto di accesso alle trasmissioni televisive, piuttosto l’inerzia della Commissione di vigilanza nel ripristinare un servizio pubblico di radiotelevisione. Si tratterebbe di un’interferenza prevista dalla legge (poiché le disposizioni interne subordinano l’organizzazione dei forum politici alla decisione discrezionale della Commissione di vigilanza) avente scopo legittimo (poiché questa devoluzione mira a proteggere il pluralismo e l’imparzialità nell’informazione). L’analisi volge quindi al requisito della proporzionalità dell’ingerenza rispetto allo scopo. A riguardo, la Corte ricorda l’importanza del ruolo dei media audiovisivi entro una società democratica e la necessità di presidiare un equilibrato pluralismo nel loro ambito.
Nel caso di specie, il punto è stabilire se e in che modo la soppressione delle tribune politiche abbia minacciato tali valori. Ne discende la necessità di valutare l’inerzia della Commissione di vigilanza nel contesto di un sistema audiovisivo pubblico che offre altre possibilità concrete di diffusione delle sue idee e opinioni. In particolare, le tribune politiche risultano adeguatamente sostituite con programmi di approfondimento politico della RAI, caratterizzate da maggiore flessibilità e quindi da più ampia libertà editoriale. Siffatta evoluzione si allinea, d’altronde, alle direttive contenute nella risoluzione 1 sul futuro del servizio pubblico di radiodiffusione (1994), tra cui il «garantire l’indipendenza delle emittenti pubbliche da interferenze politiche ed economiche».
Alla luce di queste considerazioni, la Corte esclude la violazione poiché la soppressione delle tribune politiche non ha privato la prima ricorrente della possibilità di diffondere le sue opinioni.
Infine, in un rapido rinvio al paragrafo sull’ammissibilità del ricorso in punto di esaurimento delle vie di ricorso interne, i giudici affermano violato l’articolo 13 della Convenzione.
Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
Emilio Bufano, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa