Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di luglio-agosto 2024

Chiara Buffon , Alessandro Dinisi , Giulia Battaglia **
esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa

Le più interessanti pronunce emesse dalla Corte di Strasburgo nei mesi di luglio e agosto 2024

Nel corpo dell'articolo si trovano evidenziate le parti in cui la Corte introduce dei test o un'elencazione di criteri funzionali ad essere applicati successivamente in casi analoghi. Abbiamo pensato che questo piccolo accorgimento possa dare opportuno risalto al contenuto nomofilattico delle  pronunce più significative.

 

Le pronunce di luglio e agosto della Corte Edu qui selezionate riguardano la gestione del rischio di suicidio in carcere, la prevedibilità della legge penale e la criminalizzazione dei clienti di sex workers.

In Z.A. c. Italia, la Corte vaglia, nei confronti di un detenuto affetto da grave depressione e disturbo psichiatrico, l’efficacia di misure quali il collocamento nelle “ATSM” (Articolazioni per la tutela della salute mentale) ovvero l’adozione, pur sempre in celle ordinarie del carcere, di regimi quali quello di “alta sorveglianza” o di “sostegno intensivo integrato”. La pronuncia rileva sia sotto il profilo dell’ammissibilità del ricorso, prospettando termini di durata massima del procedimento interno tramite cui lamentare l’incompatibilità della detenzione con le condizioni di salute, sia sotto il profilo del riparto dell’onere della prova nel giudizio convenzionale di adeguatezza delle cure.

In Delga c. Francia, la Corte si pronuncia sulla prevedibilità dell’indirizzo giurisprudenziale che aveva determinato la condanna della ricorrente. Alla luce del quadro normativo interno, la Corte ritiene che quest’ultima non avesse potuto prevedere le conseguenze della sua condotta sul piano della responsabilità penale e, pertanto, conclude che vi è stata una violazione dell’art. 7 CEDU.

In M.A. e Altri c. Francia, la Corte esclude che la Francia, la quale aveva adottato una disciplina di criminalizzazione dei clienti di sex workers, avesse violato l’art. 8 CEDU. Ciò, in ragione del margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato nel delicato frangente della prostituzione e delle possibili strategie per la sua regolamentazione, non essendoci, sul punto, un consenso sufficiente nell’ambito del Consiglio d’Europa. 

 

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 4 luglio 2024, ric. n. 29926/20, Z.A. c. Italia

Oggetto: articolo 3 Cedu (divieto di tortura) – plurimi tentativi di suicidio, diagnosi di grave depressione e disturbo psichiatrico – trattamento della patologia mentale mediante misure quali il collocamento in “ATSM” (Articolazioni per la tutela della salute mentale), il regime di “alta sicurezza” o di “sostegno intensivo integrato” – riparto dell’onere di provare l’adeguatezza o meno delle cure ai fini della decisione della Corte Edu – rilevanza dei tempi di valutazione delle istanze da parte dei giudici nazionali.

Il procedimento sovranazionale concerne il mantenimento in carcere del ricorrente nonostante la diagnosi di disturbo psichiatrico e i ripetuti tentativi di suicidio. 

Dopo il primo tentativo, avvenuto tra maggio e giugno 2019, e il ricovero in ospedale, gli veniva diagnosticata una grave depressione con disturbo della personalità.

Il 4 luglio, il ricorrente veniva trasferito nel carcere di Bari, sotto regime di alta sorveglianza, sino al 18 giugno 2020 e nuovamente dal 29 luglio 2020 al 3 settembre. Durante tale periodo di detenzione, il diario clinico riportava diverse valutazioni psichiatriche: in particolare, due referti del 6 maggio e del 22 agosto 2020 attestavano, nonostante l’umore stabile, l’inefficacia del trattamento, alla luce di sette visite psichiatriche e 8 psicologiche. 

Il 2 luglio 2019, gli avvocati del ricorrente chiedevano al Tribunale di Bari il differimento della pena o, in subordine, la sostituzione con la detenzione domiciliare, allegando una consulenza di parte.

Il 18 settembre, il giudice disponeva un periodo di osservazione psichiatrica.

Tale provvedimento rimaneva ineseguito fino al 18 giugno 2020, prima per indisponibilità di posti nelle Articolazioni per la tutela della salute mentale - “ATSM”, poi per parere negativo degli psichiatri dell’ATSM del carcere di Spoleto, ove il ricorrente veniva infine trasferito. La relazione finale dell’osservazione, conclusasi il 16 luglio, confermava la precedente diagnosi ed evidenziava l’elevato rischio di suicidio, la limitata efficacia del trattamento farmacologico, l’assenza di un effettivo trattamento psicoterapeutico e psichiatrico, la “scarsa compatibilità” col regime carcerario. Tuttavia, terminata l’osservazione, il 29 luglio, il ricorrente rientrava nel carcere di Bari sotto alta sorveglianza.

Ad agosto 2020, il Tribunale rigettava un’ulteriore richiesta di scarcerazione rilevando la mancanza di informazioni sulle strutture terapeutiche disponibili; al contempo, ordinava il trasferimento in carcere specificamente attrezzato per il trattamento dei disturbi psichiatrici.

Il 3 settembre 2020, il ricorrente veniva trasferito presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere, collocato, in mancanza di posti nell’ATSM, in cella ordinaria con regime di “sostegno integrato intensivo”, comprensivo di misure quali il controllo regolare da parte di un’équipe multidisciplinare di psichiatri e psicologi, il trattamento farmacologico, l’assegnazione di un assistente all’interno della cella e la rimozione di tutti gli oggetti potenzialmente pericolosi.

Il 26 settembre, il ricorrente tentava nuovamente il suicidio sicché l’amministrazione penitenziaria ordinava, nei momenti di assenza dell’assistente, la presenza in cella di un altro detenuto. 

Per il periodo successivo, il diario clinico riportava trattamento farmacologico, visite regolari da parte di psichiatri e psicologi, l’assenza di acuzie psicopatologiche, incontri regolari con la famiglia.

Nel frattempo, il ricorrente adiva la Corte di Strasburgo lamentando la violazione dei diritti di cui agli artt. 2, 3, 5 § 1 e 34 della Convenzione e chiedendo, in due occasioni, misure provvisorie.

Sotto il profilo dell’ammissibilità, il Governo sollevava un’eccezione di mancato esaurimento dei rimedi interni, non avendo il ricorrente impugnato la decisione del Tribunale di Bari del 12 novembre 2020 dinanzi alla Corte di cassazione. 

La Corte Edu, alla luce di quella giurisprudenza secondo cui non è necessario esaurire un rimedio quando la durata del pertinente procedimento sia eccessiva (esemplificativamente, compresa tra i quattro mesi e mezzo e i due anni cf. Fenech c. Malta, n. 19090/20, § 42, 1° marzo 2022), dichiara il ricorso ammissibile: la decisione del Tribunale di Bari era stata emessa oltre sedici mesi dopo l’istanza del ricorrente sicché, a prescindere dall’eventuale celerità della Corte di cassazione, la durata del rimedio sarebbe stata comunque troppo lunga.

Quanto al merito del ricorso, i principi generali pertinenti sono riassunti in Rooman c. Belgio ([GC], n. 18052/11, §§ 141-48, 31 gennaio 2019).

Nel caso di specie, poiché a partire dal luglio 2019 una relazione del carcere di Spoleto attestava la “scarsa compatibilità” tra condizioni del ricorrente e carcere, sollevando dubbi circa il rispetto del requisito di adeguatezza delle cure, spettava al Governo dimostrare il contrario.

In relazione al primo periodo di detenzione, dal 4 luglio 2019 fino al 3 settembre 2020, la Corte ritiene l’onere di prova non assolto e dunque l’art. 3 violato: 

- il diario medico non è stato fornito e le relazioni disponibili appaiono generiche e sporadiche;

- i ripetuti tentativi di suicidio fanno desumere un peggioramento dello stato di salute;

- l’esame da parte delle autorità nazionali appare caratterizzato da notevoli ritardi (sono stati necessari nove mesi per iniziare le osservazioni psichiatriche e sedici mesi per ottenere una decisione sulla sua richiesta di rilascio).

Per quanto riguarda il secondo periodo, presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere, la Corte ritiene che il Governo abbia fornito prove sufficienti sull’adeguatezza del trattamento:

- il ricorrente è stato sottoposto a un regime che prevedeva un controllo di routine da parte di un’équipe multidisciplinare;

- diversi rapporti medici e il diario clinico attestano la regolarità degli incontri con psichiatri e psicologi;

- da settembre 2020, in assenza di episodi psichiatrici acuti, la salute del ricorrente sembra essere migliorata.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 9 luglio 2024, ric. n. 38998/20, Delga c. Francia

Oggetto: articolo 7 Cedu (principio di legalità dei delitti e delle pene) – prevedibilità dell’interpretazione giudiziaria.

Con sentenza del 26 aprile 2019, la ricorrente, Presidente della Regione Occitania, veniva condannata dalla Corte d’appello di Nîmes alla multa di 1.000 euro e al risarcimento del Comune di Beaucaire per la somma di 7.000 euro, per il reato di cui all’art. 432-7-1 c.p. La riferita disposizione punisce chi, agendo in qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, discrimina, nell’esercizio delle sue funzioni o della sua missione, una persona fisica o giuridica, rifiutando il godimento di un diritto riconosciuto dalla legge.

Alla Presidente era stato contestato, in particolare, di aver indebitamente rifiutato di firmare un “contrat de ville” (contratto urbano) con il suddetto comune, guidato dal Front national (oggi Rassemblement national), schieramento politico opposto a quello di sua appartenenza. La ricorrente aveva motivato la decisione di non sottoscrivere il “contrat de ville”, che consiste in uno strumento di pianificazione delle politiche urbanistiche in ambito comunale partecipato dai diversi attori pubblici interessati, e volto a definire le priorità di intervento e i contenuti dei progetti da finanziare, perché esso poneva come obiettivo la costruzione di un liceo a Beaucaire, intervento che era invece stato pianificato, in accordo con l’autorità scolastica, in una zona connotata da maggiore pressione demografica.

La ricorrente presentava ricorso per Cassazione, sostenendo che la Corte d’appello avesse erroneamente dedotto il movente discriminatorio richiesto dalla disposizione e, a seguito del rigetto da parte del giudice di legittimità, si rivolgeva alla Corte di Strasburgo lamentando la violazione dell’art. 7 CEDU.

In punto di ammissibilità, la Corte Edu respinge anzitutto l’eccezione formulata dal Governo, sottolineando che le doglianze presentate dalla ricorrente dinanzi ai giudici nazionali, pur non facendo riferimento espresso all’art. 7 CEDU, riguardavano un motivo sostanzialmente corrispondente alla denuncia di violazione del parametro invocato in sede sovranazionale; di talché, le autorità nazionali avevano avuto la possibilità di porvi rimedio.

Nel merito, la Corte ripercorre i punti fondamentali della propria elaborazione giurisprudenziale sul principio di legalità in materia penale, con specifico riguardo alla funzione interpretativa dei giudici. In quest’ottica, se è vero che l’articolo 7 CEDU non può essere interpretato nel senso di vietare un chiarimento graduale delle norme relative alla responsabilità penale mediante l’interpretazione giudiziaria, il risultato di tale operazione deve essere coerente con la ratio della fattispecie criminosa e, pertanto, ragionevolmente prevedibile dai consociati.

A tale proposito, occorre considerare se l’interpretazione seguita dai giudici si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale pregresso di cui il ricorrente avrebbe potuto avvedersi oppure se la lettura estensiva del dato normativo è comunque coerente con la ratio del reato. In quest’ottica, occorre altresì valutare se i giudici hanno specificato in modo esauriente gli elementi costitutivi della fattispecie.

Nel quadro dei principi delineati, la Corte osserva che, a fronte della chiarezza della formulazione dell’art. 432-7-1 c.p., il punto contestato è l’interpretazione ampia che i giudici nazionali hanno fornito della stessa, con particolare riguardo all’asserito «rifiuto opposto dall’autorità al godimento di un diritto previsto dalla legge».

Al fine di valutare la prevedibilità o meno dell’interpretazione inaugurata dalla Corte d’appello (invero, non si registravano precedenti in tal senso) e non contestata dalla Corte di cassazione, la Corte Edu rileva, in primo luogo, che secondo, un certo indirizzo della giurisprudenza di legittimità, la condotta criminosa di cui all’articolo 432-7-1 è incompatibile con l’esercizio di un potere discrezionale da parte del titolare della competenza pubblica. 

In questa prospettiva, prosegue notando che dall’esame dei lavori preparatori alla legge del 2014 che ha disciplinato lo strumento del “contrat de ville” si ricava che il legislatore aveva inteso attuare il principio di libera amministrazione degli enti territoriali e, in base a esso, non era stata accolta la proposta di obbligare la Regione a firmare tali i contratti. Del resto, l’insussistenza di una qualsiasi competenza vincolata in capo alla regione risulta ulteriormente confermata, ad avviso della Corte, dalle prescrizioni contenute nella regolamentazione esecutiva della disciplina e dai dati statistici comunicati dal Governo sul tasso di sottoscrizione di siffatti documenti.

Infine, la Corte evidenzia che la ricorrente aveva prodotto nel processo penale la decisione con cui il giudice amministrativo aveva respinto la domanda del Comune di Beaucaire di annullamento del rifiuto di sottoscrizione, facendo leva, in linea con altre pronunce, sulla natura del “contratto di città”, che «non comporta di per sé alcuna conseguenza diretta sull’effettiva realizzazione delle azioni o delle operazioni che prevede e non crea alcun impegno finanziario tra le parti coinvolte».

Tanto chiarito, i giudici di Strasburgo concludono che dall’esame del quadro giuridico chiaramente definito nel diritto interno la ricorrente, nella sua veste di attore istituzionale chiave nella contrattualizzazione urbana, non avrebbe potuto prevedere che dalla decisione di rifiutare la stipula del contratto in parola potesse derivare una sua responsabilità penale.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 25 luglio 2024, ric. nn. 63664/19, 64450/19, 24387/20, 24391/20, 24393/20, M.A. e Altri c. Francia

Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) – criminalizzazione generale dell’acquisto di atti sessuali – legislazione di lotta contro la prostituzione e la tratta di esseri umani – interferenza con il diritto al rispetto della vita privata – assenza di consenso europeo e internazionale sul modo migliore di affrontare la prostituzione e sull’utilizzo del diritto penale come strumento di lotta contro la tratta di esseri umani – ampio margine di discrezionalità – autorità nazionali tenute a riesaminare costantemente l’approccio adottato alla luce dell’evoluzione del settore e delle conseguenze dell’applicazione della legge.

I ricorrenti sono 261 uomini e donne di varie nazionalità che hanno dichiarato di «esercitare abitualmente la prostituzione, in modo lecito come previsto dalla legge francese» e hanno lamentato la criminalizzazione dell'acquisto di rapporti sessuali, anche tra adulti consenzienti, introdotta dalla legge n. 2016-444 del 13 aprile 2016 «per rafforzare la lotta contro il sistema della prostituzione e fornire sostegno alle persone prostituite», e codificata negli articoli 611-1 e 225-12-1 del codice penale. In particolare, i ricorrenti affermavano come la loro situazione fosse peggiorata da quando l'acquisto di servizi di prostituzione è stato criminalizzato. 

Il Syndicat du travail sexuel (sindacato dei lavoratori del sesso) e le ONG Médecins du monde, Parapluie rouge, Les amis du bus des femmes, Cabiria, Griselidis, Paloma, AIDES e Acceptess-T, nonché cinque persone fisiche, tra cui quattro dei ricorrenti nel presente caso, hanno presentato un'istanza al Primo Ministro, chiedendo che il decreto n. 2016-1709 del 12 dicembre 2016 fosse abrogato. 

In assenza di una risposta, si sono rivolti al Consiglio di Stato, chiedendo l'annullamento del rifiuto implicito del Primo Ministro per abuso di potere. Hanno chiesto al Consiglio di Stato di sottoporre al Consiglio costituzionale una questione preliminare di costituzionalità (QPC) sulla compatibilità delle disposizioni del codice penale modificate dalla legge del 13 aprile 2016, con i diritti e le libertà garantiti dalla Costituzione. 

Il 1° febbraio 2019 il Consiglio costituzionale ha emesso la sua decisione (n. 2018-761 QPC), concludendo che «... il primo comma dell'articolo 225-12-1 e l'articolo 611-1 del Codice penale, che non violano il diritto al rispetto della vita privata, né qualsiasi altro diritto o libertà garantiti dalla Costituzione, devono essere dichiarati compatibili con la Costituzione...». Facendo riferimento a questa decisione del Consiglio costituzionale, il Consiglio di Stato ha respinto la domanda con una decisione del 7 giugno 2019.

Di fronte alla Corte EDU i ricorrenti hanno invocato gli articoli 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) e 8 (diritto al rispetto della vita privata) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, sostenendo che la legislazione francese che criminalizzava l'acquisto di rapporti sessuali, anche tra adulti consenzienti in un luogo privato, metteva seriamente a repentaglio l'integrità fisica e mentale e la salute delle persone che, come loro, esercitavano la prostituzione, e che violava radicalmente il diritto al rispetto della vita privata, nella misura in cui questo includeva il diritto all'autonomia personale e alla libertà sessuale.

Tenuto conto della formulazione delle doglianze dei ricorrenti e della natura della misura in questione, di cui contestavano le conseguenze, la Corte ha ritenuto più appropriato esaminare tali doglianze ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione. 

La Corte ha osservato che non era contestato tra le parti che l'ingerenza avesse una base giuridica, nello specifico gli articoli 611-1 e 225-12-1 del Codice penale, introdotti dalla legge n. 2016-444 «per rafforzare la lotta contro il sistema della prostituzione e fornire sostegno alle persone che si prostituiscono». 

Sulla questione delle finalità legittime, il Governo ha fatto valere, in particolare, che la misura contestata mirava a combattere le associazioni di prostituzione e le reti di traffico di esseri umani e ha sottolineato che la sua adozione era raccomandata, per questo motivo, da diversi organismi internazionali ed era richiesta dagli impegni internazionali assunti a livello statale.

La Corte ha osservato che la Francia ha adottato un approccio cosiddetto "abolizionista" in termini di quadro giuridico che disciplina la prostituzione e che è tra i 25 Stati membri che hanno ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite per la repressione della tratta di persone e dello sfruttamento della prostituzione altrui del 2 dicembre 1949, il cui preambolo afferma che la prostituzione è «incompatibile con la dignità e il valore della persona umana». La legge n. 2016-444, che criminalizza l'acquisto di atti sessuali è in linea con tale approccio e si ispira al "modello nordico", il cui obiettivo primario è combattere la prostituzione arginando la domanda che alimenta i giri di prostituzione e le reti di traffico di esseri umani. 

Rispetto alla sua giurisprudenza, la Corte ha già affermato di considerare la prostituzione incompatibile con i diritti e la dignità della persona umana quando questa attività è forzata. La Corte ha inoltre ripetutamente sottolineato l'importanza di combattere la prostituzione e le reti di trafficanti di esseri umani e l'obbligo per gli Stati firmatari della Convenzione di proteggere le vittime. La Corte ha riconosciuto che gli obiettivi perseguiti dalla misura in questione, così come presentati dal Governo, ossia garantire la sicurezza pubblica, prevenire la criminalità e proteggere la salute, i diritti e le libertà altrui, costituivano scopi legittimi ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione.

I problemi legati alla prostituzione sollevano questioni morali ed etiche molto delicate, dando origine a opinioni diverse, spesso contrastanti, in particolare se la prostituzione in quanto tale potesse mai essere consensuale o se, al contrario, fosse sempre una forma coercitiva di sfruttamento. Su questo tema, la Corte ha ammesso che non vi è ancora un consenso generale né tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa sul modo migliore di affrontare tale fenomeno. Anche la questione dell’adeguatezza del ricorso alla criminalizzazione generale e assoluta dell'acquisto di atti sessuali come mezzo per combattere la tratta di esseri umani è attualmente oggetto di un acceso dibattito, che dà luogo ad ampie divergenze di opinione sia a livello europeo che internazionale, senza che da tali discussioni emerga una posizione chiara. 

In ragione di questi contrasti, la Corte ha ritenuto che allo Stato convenuto dovesse essere concesso un ampio margine di apprezzamento in questa materia. Inoltre, il testo della legge n. 2016-444 è stato emanato al termine di un lungo e complesso iter legislativo, avviato a seguito di precedenti dibattiti parlamentari sul tema e che rientrava in un dibattito più generale sui diversi metodi da utilizzare per combattere la violenza contro le donne. Anche questo aspetto ha portato la Corte a valutare con molta cautela il contenuto di questa legislazione, laddove un simile controllo aveva ad oggetto un bilanciamento di interessi che era stato raggiunto attraverso un processo democratico. Infine, trattandosi di una questione di politica generale il ruolo del decisore nazionale assume un peso particolare, a maggior ragione se, come nel caso in questione, è in gioco una questione sociale. 

La Corte ha anche sottolineato che il suo compito non era quello di sostituirsi alle autorità nazionali competenti nel determinare la politica più appropriata per regolamentare la prostituzione ma semmai di valutare la correttezza del processo decisionale e l’effettiva ponderazione degli interessi in gioco. A tal proposito, la Corte ha osservato che le preoccupazioni sollevate dai ricorrenti nel caso di specie, in particolare per quanto riguarda i rischi per la salute e la sicurezza, erano state ampiamente prese in considerazione durante i dibattiti parlamentari e avevano portato a diversi miglioramenti del testo inizialmente proposto. 

La Corte ha poi considerato nella sua globalità l’approccio del legislatore nazionale all’interno del quale la misura contestata si inseriva. Esso si articolava su quattro assi principali: l'abrogazione di qualsiasi disposizione giuridica che potesse incoraggiare la prostituzione, senza però vietarla realmente; l'introduzione di misure di protezione delle persone che si prostituiscono, in particolare punendo la soppressione dello sfruttamento sessuale altrui; l’introduzione di misure volte a prevenire che le persone diventino prostitute; il sostegno alla riabilitazione delle persone che si prostituiscono che desiderano cessare questa attività.

Ebbene, nonostante le ampie divergenze di opinione, le parti e i terzi sono stati unanimi nel riconoscere l'effetto positivo dell'abrogazione del reato di adescamento, punito dall'ex articolo 225-10-1 del Codice penale, e la conseguente depenalizzazione delle persone che si prostituiscono. D’altra parte, la Corte non ha ignorato gli argomenti mossi dei ricorrenti in merito alla mancanza di risorse assegnate alle varie autorità amministrative pubbliche incaricate di applicare le misure politiche previste dalla legge no. 2016-444 e l'asserita mancanza di coerenza nell'attuazione di tali misure su tutto il territorio nazionale. Tuttavia, ha ritenuto che tali considerazioni, la cui importanza e il cui peso non sono stati minimizzati nell'ambito del suo esame della proporzionalità della misura, non fossero sufficienti a rimettere in discussione la scelta del legislatore al termine di un processo democratico e tenuto conto degli obiettivi legittimi perseguiti, in particolare quando tale scelta era destinata ad apportare cambiamenti sociali di vasta portata, i cui effetti si sarebbero rivelati pienamente solo nel corso del tempo.

Alla luce di tutte queste considerazioni, la Corte ha ritenuto che le autorità francesi avessero raggiunto un giusto equilibrio tra gli interessi in gioco e che lo Stato convenuto non avesse oltrepassato il proprio potere discrezionale. Tuttavia, le autorità nazionali hanno il dovere di tenere costantemente sotto controllo l'approccio adottato – soprattutto se basato su un divieto generale e assoluto di acquisto di atti sessuali – per poterlo modificare in base all'evoluzione delle società europee e degli standard internazionali in materia e per adattarsi agli effetti tangibili dell'attuazione di questa legislazione.

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
 
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

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