La Corte Edu condanna l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione, per la condotta nei confronti della sig.ra Pennino.
Oggetto: Libertà personale – Art. 3 Cedu – Reati commessi dalle forze dell’ordine – Divieto di tortura
Il 2 aprile 2013, verso le ore 13.00, la sig.ra Tiziana Pennino mentre era alla guida della propria autovettura fu fermata da due agenti della polizia municipale di Benevento, secondo i quali la sig.ra Pennino guidava in modo bizzarro (frenando improvvisamente e cambiando bruscamente corsia). Durante i controlli di routine la ricorrente e gli agenti ebbero una discussione. La ricorrente afferma che il proprio atteggiamento nervoso e ostile condusse gli agenti a sospettare che fosse in stato di ebbrezza, circostanza che ella ha sempre negato. La ricorrente afferma inoltre di non essere stata in grado di sottoporsi all’accertamento con l’etilometro a causa dello stato di ansia in cui si trovava e di essere, quindi, stata condotta al Comando di Polizia municipale per la redazione del verbale di contestazione per guida sotto l’influenza dell’alcool. Nonostante la richiesta avanzata più volte di poter utilizzare il telefono per comunicare ai familiari e al difensore il luogo in cui si trovava, non solo alcuna chiamata le venne concessa, ma quando la ricorrente cercò di sollevare il telefono un agente la picchiò per farla sedere. Sempre secondo la ricostruzione della sig.ra Pennino, lo stesso agente le torse le braccia dietro la schiena e la ammanettò, ferendole i polsi, le compresse successivamente i glutei e le chiese se le manette fossero abbastanza strette. A fronte delle urla della ricorrente, l’agente le tolse violentemente le manette. Così facendo tuttavia le fratturò il pollice destro, causandole ulteriori lesioni ai polsi. La frattura del pollice e la presenza di ecchimosi alla coscia sinistra e al dorso sono state confermate da diversi referti medici prodotti dalla ricorrente.
In data 4 aprile 2013 la ricorrente ha sporto denuncia nei confronti degli agenti di polizia che l’avevano fermata per strada e di quelli presenti presso il Comando di Polizia municipale, affermando di essere stata aggredita e picchiata, di aver subito lesioni personali, abuso d’ufficio e minacce. Fu avviata un’indagine di cui il pubblico ministero chiese l’archiviazione del procedimento. La ricorrente si oppose, ma l’archiviazione venne confermata dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Benevento.
La ricorrente si duole dinanzi alla Corte Edu della violazione dell’art. 3 della Convenzione affermando di essere stata maltrattata dalla polizia e che l’indagine relativa alle sue accuse non era stata né esauriente né efficace.
La Corte osserva innanzitutto che le parti convengono che la polizia abbia usato la forza nei confronti della ricorrente e che in conseguenza di ciò la stessa abbia riportato alcune lesioni corroborata da prove mediche. Ciò su cui la parti non convengono sono le esatte circostanze in cui la ricorrente ha subito le lesioni e la questione di sapere se il ricorso alla forza fisica fosse stato rigorosamente necessario. La Corte afferma che per il tempo trascorso dalla ricorrente presso il Comando di polizia, la stessa era da considerarsi sotto il controllo delle autorità, e, richiamando propri precedenti orientamenti, ricorda che in casi siffatti grava sul Governo l’onere di fornire una spiegazione soddisfacente e convincente circa le circostanze in cui sono state subite le lesioni ed in merito alla questione se la forza fosse stata imposta rigorosamente dal comportamento della ricorrente stessa.
Il Governo tuttavia non ha fornito specifici particolari sulle modalità di svolgimento dei fatti all’interno del Comando di Polizia municipale, ma ha rinviato in termini generali a quanto esposto dagli agenti di polizia, che ha accettato come plausibile e coerente. Non è stato fatto alcun concreto tentativo per spiegare, e tanto meno per provare, da che cosa sia stata provocata la frattura del dito della ricorrente, nonostante il fatto che il Governo abbia riconosciuto che la lesione era avvenuta in conseguenza dell’uso della forza nei confronti della ricorrente da parte degli agenti. Secondo i giudici di Strasburgo, l’indagine condotta dalle autorità italiane non soddisfa quindi il requisito di esaustività imposto dall’art. 3 della Convenzione.Gli unici documenti relativi agli eventi avvenuti all’interno del Comando di Polizia municipale sono i verbali redatti dagli agenti della polizia municipale. Tutti gli altri documenti acquisiti all’indagine riguardano gli eventi avvenuti in strada, successivamente al fermo della ricorrente perché sospettata di guida sotto l’influenza dell’alcool.Soggiunge la Corte che né gli agenti di polizia né la ricorrente erano stati interrogati. Osta, inoltre, all’esaustività delle indagini «la motivazione estremamente succinta della richiesta di archiviazione del procedimento formulata dal pubblico ministero e della decisione del giudice per le indagini preliminari», redatte in modo standardizzato e laconico, in modo tale da non permettere di ricavare informazioni riguardanti la ricostruzione dei fatti, le possibili cause delle lesioni della ricorrente, il carattere della forza utilizzata o gli elementi su cui hanno fatto affidamento il pubblico ministero e il giudice per le indagini preliminari per chiedere e disporre l’archiviazione del procedimento. Ne consegue la violazione dell’art. 3 della Convenzione sotto il profilo procedurale, atteso che, non avendo le autorità inquirenti prestato la dovuta attenzione alle accuse della ricorrente, non è stata fatta luce sulle circostanze relative all’uso della forza da parte della polizia nei confronti della sig.ra Pennino e, conseguentemente, sulla necessità dell’uso di tale forza.
La Corte accerta la violazione dell’art. 3 della Convenzione anche sotto il profilo sostanziale, non avendo il Governo fornito una spiegazione soddisfacente e convincente del modo in cui avrebbero potuto essere state cagionate le lesioni riportate dalla ricorrente. Non può infatti ritenersi che il Governo abbia assolto al proprio onere della prova, dimostrando che l’uso della forza era rigorosamente necessario.
I giudici di Strasburgo riconoscono alla sig.ra Pennino un risarcimento, determinato in via equitativa, pari a 12.000 euro per il danno non patrimoniale.
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A Bolzaneto fu tortura, due nuove sentenze contro l’Italia per trattamenti contrari all’art. 3 Cedu.
Oggetto: Articolo 3 − Divieto di tortura – Reati commessi dalle forze dell’ordine – Fatti afferenti al G8 di Genova
Con due sentenze gemelle pubblicate in data 26 ottobre 2017, la Corte di Strasburgo ha nuovamente condannato l’Italia per la violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui all’art. 3 Cedu, questa volta in relazione alle violenze perpetrate dalle forze di polizia all’interno della caserma di Bolzaneto.
La vicenda oggetto delle sentenze in commento si inscrive nel contesto dei disordini e violenze che hanno accompagnato il vertice del G8 tenutosi a Genova nel luglio 2001. In particolare, i giudici di Strasburgo sono chiamati a pronunciarsi in merito a quanto accaduto all’interno della caserma di Bolzaneto. In tale luogo, si sono perpetrate le violenze, i maltrattamenti e le umiliazioni di cui i 59 ricorrenti di diverse nazionalità si dolgono dinanzi alla Corte Edu, affermando di essere stati sottoposti a vera e propria tortura da parte degli agenti di polizia e del personale sanitario (tramite atti di percosse, minacce, sputi, risate di scherno, urla canzonatorie, insulti di ogni genere) e opponendo la non efficacia delle indagini dei tribunali nazionali che hanno visto maturare la prescrizione per quasi tutti i reati commessi e in molti casi anche la riduzione della pena.
Dapprima la Corte Edu dà atto della cancellazione dal ruolo di alcune posizioni rispetto alle quali era nel frattempo intervenuta la composizione amichevole tra le parti, sulla base dell’impegno assunto dall’Italia di versare ai ricorrenti la somma di 45.000 euro ciascuno.
Successivamente la Corte si sofferma sulle eccezionipreliminari sollevate dal Governo, che puntualmente rigetta. Secondo il Governo italiano doveva ritenersi che il ricorrente avessero perso il loro stato di “vittime”, in quanto a seguito del giudizio penale essi avevano già ottenuto almeno un parziale riconoscimento delle violazioni lamentate ed un risarcimento per i danni patiti. A giudizio della Corte, tuttavia, l’assenza di una risposta punitiva adeguata ha del tutto vanificato l’esplicito riconoscimento della violazione da parte delle autorità statali e la liquidazione di importi a titolo risarcitorio. Il Governo deduce, inoltre, che i ricorrenti non avevano rispettato il principio del previo esaurimento delle vie di ricorso interne, poiché i procedimenti penali interni erano ancora pendenti al momento della presentazione dei ricorsi e comunque residuava la possibilità di proporre un’azione civile. Sul punto la Corte rileva che i ricorrenti avevano presentato i loro ricorsi più di otto anni dopo i fatti e che non potessero essere criticati per non aver atteso il giudizio della Corte di cassazione, soprattutto in vista dell’oramai certa prescrizione e dell’operare dell’indulto. La Corte ha inoltre soggiunto che l’azione civile non può definirsi una via di ricorso interna adeguata ed effettiva a fronte della violazione dell’art. 3 Cedu.
Nel merito la Corte ha accertato la violazione sostanziale dell’art. 3 della Cedu. Nel caso di specie, secondo la Corte, gli atti commessi dalle forze di polizia nella caserma di Bolzaneto devono essere considerati «espressione di una volontà punitiva e di rappresaglia contro i ricorrenti, privati dei loro diritti e del livello di protezione concesso a tutti dall’ordinamento giuridico italiano». I giudici di Strasburgo hanno ritenuto che i maltrattamenti lamentati dai ricorrenti fossero provati: «al di là di ogni ragionevole dubbio». Secondo la Corte, «i ricorrenti, trattati come oggetti nelle mani dell’autorità pubblica, hanno vissuto durante la loro detenzione in un luogo di “non-diritto” ove le più elementari garanzie sono state sospese». Pertanto, alla violazione materiale della loro integrità fisica e psicologica si sono aggiunte le sofferenze causate dallo stato di angoscia e di stress per gli episodi di violenza a cui tutti avevano assistito. Né si poteva trascurare il fatto che i ricorrenti non fossero stati solo vittime dirette degli abusi, ma anche testimoni impotenti dell’uso incontrollato di violenza contro gli altri arrestati. Alla luce di siffatte considerazioni, i ripetuti atti di violenza, espressione di volontà punitiva e ritorsione, vengono qualificati dalla Corte come veri e propri atti di tortura, contrari all’art. 3 Cedu.
Sotto il profilo della violazione procedurale dell’art. 3 precitato, la Corte ha evidenziato che, nonostante gli sforzi compiuti dall’autorità giudiziaria italiana, la mancata cooperazione da parte delle forze dell’ordine nel corso delle indagini, associata al fatto che gli agenti di polizia non avevano segni distintivi sulla divisa, aveva reso difficile se non impossibile l’identificazione della maggior parte degli autori delle violenze. I giudici europei hanno inoltre osservato che, a causa della prescrizione, a fronte delle quarantacinque persone identificate e portate a giudizio, la Corte di cassazione ha confermato la condanna di solo otto esponenti tra i membri delle forze dell’ordine e che a tutti i condannati è stato applicato lo sconto di pena dell’indulto. Nel caso delle violenze di Bolzaneto, hanno rilevato i giudici, gli agenti di polizia in questione non sono stati sospesi durante il processo, né è stato chiarito dal Governo se gli stessi fossero stati destinatari di azioni disciplinari, in violazione dell’insegnamento della Corte, secondo cui: «ogniqualvolta agenti statali sono accusati di maltrattamenti, è essenziale che essi siano sospesi dal servizio in pendenza di indagine o processo e che siano licenziati in caso di condanna». Sulla scorta di questi elementi, i giudici hanno riconosciuto anche la violazione procedurale dell’art. 3 Cedu.
Quanto ai risarcimenti, l’Italia dovrà pagare un indennizzo, nel caso di Blair e altri, di 10.000 euro ciascuna a due persone e 70.000 euro ciascuno agli altri 22 ricorrenti, a titolo di danni non pecuniari. Nel caso Azzolina ed altri, la Corte ha stabilito che l’Italia deve versare 85.000 euro ad Azzolina e 80.000 euro a ciascuno degli altri 23 ricorrenti.
Le sentenze della Cedu confermano dunque i maltrattamenti sofferti dai ricorrenti, imputando alla prescrizione e alla mancanza del reato di tortura nel codice penale vigente all’epoca degli eventi il fatto che nessuna delle persone responsabili abbia ricevuto una punizione adeguata e che i ricorrenti non abbiano potuto beneficiare di un’indagine ufficiale efficace. Occorre evidenziare che la Corte europea benché abbia preso atto dell’entrata in vigore il 18 luglio 2017 della legge n. 110 che introduce il delitto di tortura nel codice penale italiano, nelle sentenze in esame non si sia espressa sulla sua compatibilità con l’art. 3 Cedu, stante l’inapplicabilità ratione temporis alla vicenda in esame.
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Il Consiglio d’Europa comunica all’Azerbaigian l’intenzione di avviare una procedura speciale per l’esecuzione della sentenza resa nel caso Ilgar Mammadov.
Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha il compito di controllare l’esecuzione delle sentenze definitive della Corte Edu. L’art. 46, par. 2 della Cedu prevede infatti che: «La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne controlla l’esecuzione».
Nella riunione del 25 ottobre, con la risoluzione interinale CM/ResDH (2017) 379, il Comitato dei ministri ha constatato che l’Azerbaigian non ha eseguito la sentenza pronunciata nel 2014 relativa al caso Ilgar Mammadov (application n. 15172/13),con la quale la Corte di Strasburgo aveva condannato lo Stato per l’arresto e la detenzione prolungata del sig. Mammadov, membro dell’opposizione.
Nella sentenza richiamata la Corte Edu aveva stabilito che l’arresto e la detenzione prolungata di Mammadov integravano una violazione non solo dell’art. 5 par. 1 della Cedu, in quanto non erano stati prodotti fatti o informazioni in grado di far sorgere il sospetto che giustifica la presentazione di accuse contro il ricorrente o il suo arresto e la detenzione preventiva e dell’art. 6 (diritto a un processo equo), ma anche una violazione dell’art. 18, in combinato disposto con l’art. 5, in quanto il vero scopo dell’azione penale intrapresa contro di lui e della sua detenzione era quello di metterlo a tacere o punirlo per aver criticato il governo. La Corte aveva quindi condannato la Repubblica di Azerbaigian all’adozione di misure individuali per mettere fine alle violazioni constatate.
Ciononostante, a più di tre anni da quando la sentenza della Corte è diventata definitiva, il sig. Ilgar Mammadov non è stato rilasciato e rimane ingiustamente imprigionato, sulla base di procedimenti viziati.
Non garantendo il rilascio incondizionato del ricorrente, la Repubblica di Azerbaigian si rifiuta di ottemperare alla sentenza della Corte, la quale ha pertanto deciso di notificare ufficialmente alla Repubblica dell’Azerbaigian la sua intenzione, in occasione della 1302esima riunione (DH) del 5 dicembre 2017, di avviare per la prima volta una procedura introdotta nel 2010, secondo cui in base all’art. 46, par. 4 della Convenzione, un caso può essere rinviato dinanzi alla Corte Edu per accertare se la mancata esecuzione rappresenti un’ulteriore violazione della Convenzione. La Repubblica dell’Azerbaigian entro il 29 novembre 2017 potrà presentare le proprie osservazioni al riguardo.