Le più rilevanti sentenze di novembre della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardano principalmente il rispetto dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo in diversi Stati membri: la Finlandia, l’Ungheria e la Russia. La Corte Edu ha riconosciuto la violazione di disposizioni centrali della Convenzione, quali il diritto alla vita, la proibizione della tortura e il diritto alla libertà personale. La prima sezione della Corte infine ha statuito la violazione dell’art. 6 § 1, per il pregiudizio subito da parte di una cittadina greca, a causa dell’eccessiva durata della fase delle indagini preliminari nel procedimento che la vedeva indagata.
Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 14 novembre 2019 rich. nn. 25244/18, N.A. c. Finlandia
Oggetto: articolo 2 (diritto alla vita), articolo 3 (proibizione della tortura), protezione internazionale, espulsione, giustificato timore di persecuzione del singolo, concreto pericolo.
La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione degli artt. 2 e 3 della Convenzione.
La ricorrente, una cittadina irachena nata nel 1996 e residente in Finlandia, lamenta la violazione degli artt. 2 e 3 della Convenzione, poiché il rientro del padre nel Paese d’origine, a seguito di un ordine di espulsione da parte dello Stato membro, ha condotto alla sua uccisione.
Il padre infatti, un arabo sunnita di Baghdad, lavorò prima, durante il regime di Saddam Hussein, come comandante dell’esercito, poi, con la caduta del regime, in un’impresa americana di logistica. Tra il 2007 e il 2015, divenne funzionario in seno al Bureau dell’ispettorato generale iracheno, e in seguito responsabile delle questioni relative alla violazione dei diritti umani e alla corruzione. Durante tale mandato condusse indagini su agenti dei servizi segreti e componenti delle milizie, mandato la cui pericolosità aumentò via via che le milizie sciite acquisivano rilevanza.
Durante la conduzione di un’inchiesta, nel 2015, ebbe un diverbio con un collega, membro della milizia sciita principale del Paese, l’Organizzazione Badr, che portò a un’aggressione nei confronti del padre della ricorrente, a un tentativo di attentato, all’esplosione dell’automobile di famiglia nell’aprile 2015, nonché a un tentativo di sequestro della figlia ricorrente. Nonostante la denuncia della prima aggressione, il padre non ottenne giustizia in Iraq e diede le dimissioni nel marzo 2015.
Nel mese di settembre, la famiglia giunse in Finlandia e il padre fece domanda di protezione internazionale, il cui esito negativo, nel dicembre 2016, venne motivato dal fatto che gli arabi sunniti non erano considerati a rischio di persecuzione nello Stato iracheno. Tale decisione di rigetto fu confermata in secondo grado – fase in cui il Tribunale amministrativo di Helsinki non riconobbe alcun rischio reale di persecuzione – mentre la Suprema Corte amministrativa impedì al richiedente di ricorrere in ultimo grado.
All’interno di un programma di rimpatrio volontario assistito, il cittadino iracheno rientrò nel Paese d’origine nel novembre 2017 e, il mese successivo, l’appartamento che la famiglia aveva utilizzato per nascondersi fu bersaglio di un attentato e il padre venne ucciso da cecchini non identificati in una via di Baghdad.
I giudici della prima sezione rifiutano, anzitutto, le motivazioni con cui il Governo ha sostenuto che il padre della ricorrente fosse rientrato volontariamente in Iraq, affermando che quest’ultimo non avrebbe fatto rientro se non in ottemperanza a una decisione di espulsione esecutiva. Le autorità interne, a fondamento delle loro decisioni, hanno preso in considerazione la situazione generale del Paese sui profili della sicurezza e della violenza – tramite informazioni che dimostravano la reale esistenza di tensioni tra sciiti e sunniti, nonché l’uccisione di alcuni dipendenti di imprese americane – tuttavia, secondo la Corte, non hanno valutato cumulativamente tutti gli elementi: non hanno apprezzato in modo proporzionato i tentativi di attentato perpetrati nei confronti del padre della ricorrente, non esaminando così in modo approfondito il reale pericolo per il singolo.
La Corte Edu, dunque, ritiene che la autorità finlandesi non abbiano apprezzato debitamente il pericolo concreto a cui il padre della ricorrente era esposto nell’ipotesi di un ritorno sul territorio iracheno, violando in tal modo le garanzie degli artt. 2 e 3 della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Grande Camera) 21 novembre 2019 rich. nn. 47287/15, Ilias e Ahmed c. Ungheria
Oggetto: articolo 3 (proibizione della tortura), 5 §§ 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza) e 4 (diritto a che si decida entro breve termine sulla legittimità della detenzione), richiesta d’asilo, garanzie procedurali, espulsioni, condizioni di vita, principio di non refoulement, respingimenti a catena, limitazione della libertà personale, Convenzione di Ginevra.
La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 3 per quanto concerne l’espulsione dei ricorrenti verso la Serbia e la non violazione della medesima disposizione relativamente alle condizioni di vita nella zona di transito, nonché, a maggioranza, l’irricevibilità della domanda sul profilo dell’art. 5 §§ 1 e 4 della Convenzione.
La causa Ilias e Ahmed c. Ungheria nasce dal ricorso del Governo ungherese contro la sentenza della Sezione IV della Corte, datata 14.03.2017, che aveva statuito la violazione dell’art. 3 relativamente all’espulsione e la non violazione della medesima disposizione sul profilo delle condizioni di vita nella zona di transito, nonché la violazione delle disposizioni di cui all’art. 5 §§ 1 e 4 della Convenzione.
I ricorrenti, due cittadini del Bangladesh, giunsero in Ungheria il 15 settembre 2015, transitando per diversi Stati, tra cui la Serbia, e presentarono immediatamente una domanda d’asilo. In attesa della decisione, trascorsero ventitré giorni nella zona di transito di Röszke, situata al confine con la Serbia. Poiché la zona era sorvegliata e confinata, i ricorrenti non potevano uscire per raggiungere il resto del territorio ungherese.
Le domande d’asilo vennero rigettate e nell’ottobre 2015 venne ordinata la loro espulsione, sulla base di un decreto del Governo che ricomprendeva la Serbia tra i «Paesi terzi sicuri». Le autorità interne motivarono il rigetto sostenendo la mancanza di circostanze individuali eccezionali che escludessero la Serbia dai Paesi sicuri nel caso di specie. Il giudice interno confermò la decisione in data 8 ottobre 2015 e i ricorrenti vennero condotti, senza l’uso della forza, alla frontiera serba.
I ricorrenti lamentano la mancanza di una valutazione appropriata e approfondita delle loro istanze, sostenendo che l’espulsione verso la Serbia li avrebbe esposti al grave rischio di subire trattamenti degradanti, allegando dunque la violazione dell’art. 3 relativamente a due differenti profili – l’espulsione verso la Serbia e le condizioni di vita nella zona di transito di Röszke – dell’art. 13, in combinato disposto con l’art. 3, nonché dell’art. 5 §§ 1 e 4 della Convenzione.
La Grande Camera considera preliminarmente irricevibile la domanda relativa all’art. 13, perché introdotta oltre il termine dei sei mesi. Nel merito delle questioni il giudice di secondo grado della Corte Edu giunge alla medesima decisione per quanto riguarda la disposizione di cui all’art. 3 della Convenzione, mentre elabora una decisione opposta sul versante dell’art. 5.
Premettendo che la Corte di Strasburgo non può intervenire nel merito delle domande di asilo e delle decisioni relative, essa deve dunque valutare se le autorità ungheresi abbiano o meno ottemperato alla loro obbligazione procedurale, ossia di esaminare a fondo le condizioni di accoglienza e la concreta possibilità di accesso alle procedure di protezione internazionale in Serbia, nonché l’intensità del rischio di respingimenti a catena verso la Grecia, dove le condizioni di vita dei campi profughi sono state giudicate contrarie all’art. 3 della Convenzione. Nel caso di specie la Corte afferma che le autorità interne non hanno attribuito giusto valore alle preoccupazioni dei ricorrenti, vale a dire di non aver accesso alle procedure d’asilo, una volta ricondotti in Serbia, e di essere respinti in Grecia. Poiché non hanno debitamente valutato il rischio, per i ricorrenti, di essere sottoposti a trattamenti contrari all’art. 3, la Corte statuisce la violazione di tale disposizione da parte delle autorità ungheresi, le quali non hanno ottemperato al loro obbligo procedurale.
Al contrario, tenuto conto delle condizioni materiali della zona di transito, della durata della loro permanenza – ossia di ventitré giorni – e la concreta possibilità di avere contatti con altri richiedenti asilo, ONG, nonché con un avvocato, la situazione denunciata nella zona di Röszke, secondo la Corte, non deve essere considerata contraria agli standard minimi richiesti: non vi è dunque stata violazione dell’art. 3.
In ultimo, la Grande Camera esamina la sussistenza o meno di una privazione della libertà di fatto, sotto differenti profili. Anzitutto, la Corte rileva che i ricorrenti hanno fatto ingresso nella zona di transito spontaneamente e che il tempo di permanenza, in attesa dell’esito della domanda, non sia stato eccessivo: tale situazione dunque non è stata il prodotto dell’inerzia delle autorità. La Corte aggiunge che le restrizioni di movimento non sono risultate eccessive e che i ricorrenti, così come le numerose persone che si trovavano nelle stesse condizioni, avevano la reale e concreta possibilità di lasciare la zona di transito e fare ritorno sul territorio serbo di propria iniziativa, considerando inoltre che la Serbia è tra i Paesi sottoscrittori della Convenzione di Ginevra. La Grande Camera conclude dunque che i fattori sin qui delineati non hanno prodotto una situazione di privazione di libertà, non considerando perciò applicabile l’art. 5 nella situazione di specie e dichiarando così la domanda irricevibile sotto il profilo di tale disposizione.
Ilias e Ahmed c. Ungheria, Sentenza della Corte Edu, Grande Camera
Ilias e Ahmed c. Ungheria, Sentenza della Corte Edu, Sezione IV
Sentenza della Corte Edu (Grande Camera) 21 novembre 2019 rich. nn. 61411/15 e altre, Z.A. e altri c. Russia
Oggetto: articolo 3 (proibizione della tortura), 5 §§ 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza), sistema di accoglienza, limitazione della libertà personale, garanzie procedurali, rispetto della dignità umana, condizioni di vita, standard minimi.
La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, la violazione degli artt. 3 e 5§ 1 della Convenzione.
La causa Z.A. e altri c. Russia di fronte alla Grande Camera nasce dal ricorso formulato dal Governo russo contro la sentenza emessa il 28 marzo 2017 della III Sezione.
Quattro ricorrenti – un cittadino iracheno, un cittadino somalo, uno siriano e un titolare di un passaporto emesso dall’Autorità palestinese – dopo aver vissuto esperienze di migrazione differenti, arrivarono all’aeroporto di Mosca-Sheremetyevo, dove la polizia di frontiera negò loro l’ingresso sul territorio russo e li costrinse alla permanenza per un lungo periodo nella zona di transito dell’aeroporto. Venne negato loro inoltre lo status di rifugiato. Tre di loro, tra l’anno 2015 e 2016, trascorsero tra i cinque e sette mesi circa in tale zona di transito, mentre la permanenza del quarto durò quasi due anni.
Due dei ricorrenti, grazie all’intervento dell’UNHCR, vennero ricollocati rispettivamente in Danimarca e Svezia, uno si recò in Egitto nel febbraio 2016, mentre il cittadino somalo fece ritorno a Mogadiscio nel marzo 2017.
I ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 5 § 1, sostenendo che il confino nella zona di transito può essere considerato una privazione illegale della libertà, e 3 della Convenzione, considerate le condizioni di vita nell’aeroporto. La Corte Edu, nella decisione di primo grado, ha statuito la violazione di entrambe le disposizioni.
La Grande Camera, giudice di secondo grado, ha anzitutto esaminato l’applicabilità dell’art. 5 § 1, valutando la situazione personale e le scelte dei ricorrenti, il regime giuridico applicabile, la durata del mantenimento del regime restrittivo, nonché il grado e la durata delle restrizioni effettivamente imposte ai ricorrenti. Considerato che la presenza di questi ultimi nella zona di transito è stata imposta e che lo Stato membro ha il diritto di collocare i richiedenti protezione internazionale in zone di transito in attesa di una decisione, la Corte rileva che il Governo russo non ha dato prova di alcuna garanzia legale: i ricorrenti non hanno ricevuto nessun documento che attestasse l’avvio della fase istruttoria, relativa alla loro domanda, da parte delle autorità competenti, né è stato assicurato loro un termine per la permanenza nella zona di transito. La Corte nota inoltre che la sorveglianza in detta zona di transito – da parte della polizia di frontiera, una sezione del Servizio federale di sicurezza russo – è paragonabile a un regime di detenzione. Al contrario di quanto affermato dal Governo, i ricorrenti dunque non erano liberi di lasciare il territorio russo. È perciò ricevibile la domanda sotto il profilo dell’art. 5 § 1.
Poiché non vi è alcuna disposizione interna che giustifichi la privazione della libertà subita dai ricorrenti, non è stata fornita alcuna informazione né garanzia sulle procedure di richiesta d’asilo, l’accesso all’assistenza giuridica si è rivelato molto limitato e le decisioni sono state comunicate con un notevole ritardo, la Corte ritiene che vi è stata violazione dell’art. 5 § 1, considerando inoltre l’eccessiva durata della permanenza dei ricorrenti nella zona di transito.
Sul profilo dell’art. 3, pur tenendo conto delle difficoltà che l’accoglienza dei migranti e l’aumento dei flussi comportano agli Stati membri, la proibizione di trattamenti inumani e degradanti è un valore fondamentale alla base di una società democratica, valore profondamente legato al rispetto della dignità umana. Di conseguenza, considerando le condizioni in cui i ricorrenti dormivano – per terra, in una zona aeroportuale, rumorosa e costantemente illuminata – senza aver accesso alle docce, senza alcuna possibilità di recarsi all’aria aperta, senza alcun accesso all’assistenza medica e sociale, non sono stati rispettati gli standard minimi a garanzia del rispetto della dignità umana. Valutate dunque nel loro complesso le condizioni delineate, la Corte vi riconosce una violazione dell’art. 3.
La Grande Camera ha dunque statuito la violazione degli artt. 5 § 1 e 3 della Convenzione, nei confronti di ciascuno dei ricorrenti.
Z.A. e altri c. Russia, Sentenza della Corte Edu, Grande Camera
Z.A. e altri c. Russia, Sentenza della Corte Edu, Sezione III
Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 21 novembre 2019 rich. nn. 55846/15, Papargyriou c. Grecia
Oggetto: articolo 6 § 1 (diritto a un processo equo), termine ragionevole, eccessiva durata delle indagini preliminari, principio del giusto processo, ricorso indennitario.
La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione.
La sig.ra Papargyriou lamenta la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione, a causa della durata eccessiva del procedimento penale, in particolare della fase delle indagini preliminari.
Nel 2004, la ricorrente fu indagata per falso e distrazione di fondi, reati commessi nell’esercizio delle sue funzioni. Aperta un’inchiesta giudiziaria, il 12 novembre 2004 la ricorrente si presentò alle autorità di polizia. Nel 2012, la procura del Tribunale di Corinto prorogò con ordinanza il termine delle indagini.
Il 18 gennaio 2013, fu avviata un’altra inchiesta giudiziaria per altri capi di imputazione, tra cui frode commessa in concorso e con il vincolo della continuazione nell’esercizio delle sue funzioni, causando un pregiudizio di una somma superiore a 15.000 euro, e appropriazione indebita di documenti.
Il 5 agosto 2015, la Procura presso la Corte d’Appello di Nafplio archiviò alcuni capi di imputazione e decise di non procedere per gli altri.
La Corte Edu dichiara anzitutto ricevibile la domanda della ricorrente, nonostante non siano stati esperiti tutti i gradi di giudizio interni. Il Governo greco sostiene che la ricorrente avrebbe dovuto adire le corti interne sulla base della legge n. 4239/2014, che prevede la possibilità di un ricorso indennitario nel caso in cui l’eccessiva durata ingiustificata del procedimento penale abbia causato un pregiudizio morale. Tuttavia, la Corte di Strasburgo, stando all’interpretazione letterale della norma, afferma che il ricorso indennitario è esperibile solamente in seguito alla pubblicazione di una decisione definitiva. Neppure la giurisprudenza interna, all’epoca dei fatti, interpretava la norma allargando il campo di applicazione all’eccessiva durata del procedimento nella fase delle indagini preliminari.
Risolto il profilo procedurale, la Corte esamina la questione nel merito, evidenziando due dati: la ricorrente si è presentata per la prima volta davanti alle autorità il 12 novembre 2004 e la procura ha emesso l’ordinanza conclusiva delle indagini in data 5 agosto 2015. La fase delle indagini ha dunque avuto una durata di 10 anni e 9 mesi, durata considerata dalla Corte Edu eccessiva e incompatibile con l’esigenza di un «termine ragionevole», così come richiesto dall’art. 6 § 1 della Convenzione. Vi è dunque stata violazione di tale disposizione.
photo credits: European Court of Human Rights
Marika Ikonomu, Università Statale di Milano, già tirocinante presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa
Maria Giuliana Civinini, presidente del Tribunale di Pisa