Le più rilevanti sentenze di agosto e settembre della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardano alcune disposizioni fondamentali della Convenzione: nella causa Tërshana c. Albania, la Corte ha individuato la violazione dell’elemento procedurale dell’art. 2, a causa dell’inefficacia delle indagini in un caso di aggressione con acido; nel caso B.G. e altri c. Francia, i giudici della Corte hanno statuito la non violazione dell’art. 3 in merito alle condizioni di vita e di accoglienza di alcune famiglie di richiedenti asilo. Una decisione importante ha poi coinvolto l’Italia, in tema di diritto all’istruzione e divieto di discriminazione. Infine, i giudici della seconda sezione hanno deciso un caso, che ha coinvolto la Lituania, relativo all’irregolarità di un immobile.
Sentenza della Corte Edu (Sezione II) 4 agosto 2020 rich. nn. 48756/14, Tërshana c. Albania
Oggetto: articolo 2 (diritto alla vita), aggressione con acido, violenza contro le donne, rischio reale e immediato, integrità fisica, efficacia del procedimento, dovuta diligenza
La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’elemento procedurale dell’art. 2 della Convenzione. Non vi è stata, secondo la Corte, violazione dell’art. 2 sul profilo sostanziale.
La ricorrente Dhurata Tërshana, cittadina albanese, accusa lo Stato di aver violato gli artt. 2, 8, 13 e 14 della Convenzione: lamenta infatti di non essere stata protetta dalle autorità contro l’aggressione con acido da parte di un uomo e di non aver beneficiato di un procedimento efficace.
Il 29 luglio 2009 la ricorrente, mentre camminava in una via di Tirana con alcuni colleghi, fu aggredita con dell’acido da un uomo non identificato. Fu portata d’urgenza in ospedale, in uno stato critico, poiché bruciata dall’acido sul 25% circa del corpo. Poco dopo l’aggressione, la sig.ra Tërshana si recò in Italia dove, tra il 2009 e il 2012, si sottopose a 14 operazioni. La ricorrente soffre tuttora di ansia, disturbi psicologici e ha dichiarato di avere paura di rientrare in Albania.
La procura avviò immediatamente un’inchiesta sull’aggressione e sentì la ricorrente: la sig.ra Tërshana disse alle autorità di non aver riconosciuto l’aggressore ma di avere il sospetto che si trattasse dell’ex marito, E.A., che si era rivelato più volte violento, arrivando a minacciarla di morte. Le autorità perquisirono l’abitazione di E.A., sequestrarono diversi oggetti e lo arrestarono per fabbricazione e detenzione abusiva di armi. Tuttavia, la procura dispose l’archiviazione del procedimento penale a carico di E.A., sostenendo la funzione decorativa dei coltelli rinvenuti e ritenendo che non era stata commessa alcuna infrazione penale. Furono ad ogni modo portate avanti diverse attività di indagine: ad esempio, vennero esaminate le immagini di videocamere di sorveglianza vicine al luogo dell’aggressione, furono sentite le famiglie della ricorrente e di E.A. e furono ordinate analisi da parte di periti. Il procedimento fu tuttavia sospeso nel febbraio del 2010 senza aver portato all’identificazione del responsabile né al riconoscimento della sostanza utilizzata. La ricorrente, nonostante le frequenti richieste, non fu più aggiornata in merito alla procedura.
Nel 2013, le autorità archiviarono un procedimento relativo alla richiesta di risarcimento a carico dello Stato, poiché né la ricorrente né l’avvocato si erano presentati all’udienza.
La Corte Edu anzitutto sottolinea che l’obbligo positivo dello Stato di adottare misure a tutela della vita dei cittadini sussiste qualora esista o sia prevedibile un rischio reale e immediato per la vita o l’integrità fisica, e non può imporre alle autorità un onere impossibile o sproporzionato (§ 148). Nel caso di specie, le autorità albanesi non possono essere ritenute responsabili di non aver impedito l’aggressione, poiché sono venute a conoscenza del rischio solo a seguito dell’aggressione stessa. I giudici di Strasburgo valutano poi il quadro giuridico in vigore all’epoca dei fatti e, esaminando il codice penale albanese, lo considerano efficace. Non vi è dunque stata violazione dell’art. 2 sul profilo sostanziale.
Sull’elemento procedurale, la Corte ricorda che, di fronte a un reato di una gravità tale, è forte l’esigenza di «una qualsiasi forma di indagine effettiva e ufficiale» (§ 153), al fine di stabilire la causa delle lesioni e sanzionare il responsabile. Poiché l’aggressione è avvenuta in un clima generale di clemenza verso le violenze contro le donne in Albania, aggiunge la Corte, è importante che le autorità interne agiscano con una particolare diligenza e dispongano indagini approfondite. Nonostante siano state adottate alcune misure, i giudici della seconda sezione non le ritengono sufficienti: ad esempio, non è stata individuata nemmeno la sostanza utilizzata dall’aggressore. Ancora, la ricorrente non è stata informata sullo stato del procedimento. Non avendo le autorità interne agito con la dovuta diligenza e non essendo state in grado di dare una risposta efficace all’aggressione, la Corte riconosce dunque che vi è stata violazione dell’elemento procedurale dell’art. 2 della Convenzione.
In merito all’art. 8 e 13, la Corte ha rigettato il ricorso perché manifestamente infondato e, relativamente all’art. 14, ha ritenuto di non doverlo esaminare separatamente.
Sentenza della Corte Edu (Sezione V) 10 settembre 2020 rich. nn. 63141/13, B.G. e altri c. Francia
Oggetto: articolo 3 (proibizione della tortura), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), sistema di accoglienza, condizioni di vita, diritto di asilo, standard minimi di accoglienza
La Corte ha statuito, all’unanimità, la non violazione dell’elemento materiale dell’art. 3 della Convenzione. Ha inoltre rigettato il ricorso sotto il profilo dell’art. 8 perché manifestamente infondato.
Nella causa B.G. e altri c. Francia, diciassette richiedenti asilo di nazionalità albanese, bosniaca e kosovara lamentano la violazione degli artt. 3 e 8 della Convenzione da parte delle autorità francesi, le quali non avrebbero inserito i ricorrenti nel sistema di accoglienza previsto dal diritto nazionale: i ricorrenti accusano la Francia di trattamenti inumani e degradanti, nel periodo compreso tra il 29 giugno e il 9 ottobre 2013, sottolineando che le condizioni di vita non erano adatte a bambini molto piccoli.
Nel mese di marzo 2013, un accampamento di 45 richiedenti asilo si formò attorno al centro di accoglienza della città di Metz. Per ordine del prefetto della Mosella (dipartimento francese nella regione Grand Est), il campo fu smantellato e il 19 giugno 2013 ne fu creato uno nuovo all’interno di un parcheggio della città, dove furono collocati i ricorrenti. Anch’esso fu smantellato il 15 novembre 2013.
I ricorrenti da 1 a 12 sono tre famiglie con figli, che all’epoca dei fatti avevano da un anno e mezzo a nove anni, arrivati in Francia per presentare richiesta d’asilo. Le tre famiglie fecero ricorso al tribunale amministrativo per le condizioni in cui erano costrette a vivere: ricorso che fu rigettato anche in appello.
I ricorrenti da 13 a 17 sono una coppia kosovara con tre figli che all’epoca dei fatti avevano 2, 9 e 11 anni. Presentate le richieste di asilo, fu fissato un appuntamento per l’esame delle domande e, in attesa di una soluzione stabile di accoglienza, furono collocati nell’accampamento all’interno del parcheggio. Presentarono anch’essi un ricorso al tribunale amministrativo, per le loro condizioni di vita e di accoglienza, ma fu rigettato per difetto di urgenza, essendo la loro situazione già al vaglio della prefettura. L’ordinanza di primo grado fu confermata dal Consiglio di Stato con una decisione motivata. I cinque ricorrenti vennero poi inseriti nel circuito di accoglienza. Le loro domande d’asilo furono rigettate ma ottennero un permesso di soggiorno per malattia e un’autorizzazione per motivi di lavoro, mentre i tre figli entrarono nel circuito scolastico.
La Corte Edu divide i ricorrenti in due gruppi: in merito ai primi dodici, ritiene che, non avendo mantenuto i contatti con il loro avvocato e non tenendolo informato del loro luogo di residenza, hanno dimostrato di avere perso l’interesse per la procedura. Dispone dunque la cancellazione del ricorso dal ruolo ex art. 37 della Convenzione.
Per quanto concerne la famiglia kosovara (nn. 13-17), i giudici della quinta sezione notano che esistono delle versioni divergenti dei fatti e ricordano, per l’apprezzamento degli elementi di prova, il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio (§ 83). La Corte rileva anzitutto che il Consiglio di Stato ha esaminato il ricorso nel merito. Osserva, da un lato, che i ricorrenti hanno indicato, in modo generico e poco dettagliato, di aver vissuto in una tenda senza fornire elementi precisi che permettano di valutare le reali condizioni di vita, relative ad esempio al cibo e all’igiene. Dall’altro lato, le autorità interne non sono rimaste indifferenti alla situazione dei ricorrenti, aiutandoli a soddisfare i bisogni fondamentali: hanno infatti offerto ticket alimentari e assistenza sanitaria e scolastica ai minori. Inoltre, è stato offerto loro un alloggio stabile dopo poco più di tre mesi, periodo ritenuto dai giudici «relativamente rapido» (§ 88). Tenuto conto di questi elementi, la Corte Edu ritiene che le condizioni di vita dei ricorrenti siano migliorate velocemente e la loro richiesta di asilo sia stata valutata con una procedura accelerata. Nonostante le criticità dell’accampamento di Metz nel periodo da giugno a ottobre 2013 siano indubbie, la Corte non può affermare che il trattamento riservato ai ricorrenti abbia raggiunto la gravità richiesta per l’applicazione della fattispecie ex art. 3 della Convenzione. Non vi è dunque stata violazione.
Sul profilo dell’art. 8, la Corte Edu rigetta la richiesta perché manifestamente infondata.
Sentenza della Corte Edu (Sezione II) 4 agosto 2020 rich. nn. 44817/18, Kaminskas c. Lituania
Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), immobile abusivo, ordine di demolizione, protezione dell’ambiente, aree boschive, bilanciamento degli interessi
La Corte ha statuito, all’unanimità, la non violazione dell’art. 8 della Convenzione.
La causa nasce dal ricorso del sig. Kaminskas, cittadino lituano che lamenta la violazione dell’art. 8 della Convenzione da parte delle autorità interne, le quali hanno ordinato di demolire la sua abitazione costruita illegalmente in una zona boschiva.
Nel giugno del 2012, l’ispettorato nazionale per la pianificazione territoriale e l’edilizia del Ministero dell’Ambiente esaminò il terreno e, rilevando l’illegalità della costruzione, ne dispose la demolizione. Nel settembre del 2013, l’ispettorato agì contro il ricorrente per non aver proceduto alla demolizione, differendo più volte il termine per dare la possibilità al sig. Kaminskas di ottenere la regolarizzazione della costruzione ex post. Il ricorrente allegò i seguenti elementi: si trattava della sua unica abitazione in cui viveva con la moglie; la sua situazione economica non gli permetteva di acquistare un altro immobile; e lo status del terreno era cambiato, non era da considerarsi area boschiva poiché non vi erano alberi nell’area interessata. Le autorità interne rifiutarono la richiesta di regolarizzazione del terreno, poiché rispettava i criteri individuati per le aree boschive. Nell’ottobre del 2017, una decisione del tribunale distrettuale, confermata in appello, ordinò al ricorrente la demolizione. A seguito del ricorso per cassazione, la Corte Suprema dichiarò irricevibile la domanda. A febbraio 2020 la casa non era ancora stata demolita.
La Corte Edu riconosce l’applicabilità dell’art. 8 nel caso di specie: se si tratta o meno di «casa» dipende da circostanze fattuali, come ad esempio l’esistenza di un legame sufficiente e continuo con un luogo specifico (§ 42). Considerando indubbio che vi sia stata un’interferenza da parte dello Stato nel diritto garantito dall’art. 8, la Corte di Strasburgo afferma che tale interferenza è stata giustificata dalla legge. Il governo lituano giustifica la sua azione allegando l’interesse pubblico di proteggere l’ambiente e impedire la costruzione nelle zone boschive, interessi garantiti anche dalla Costituzione. I giudici della seconda sezione rilevano che lo status del terreno in questione non è mai cambiato ed era classificato come area boschiva anche prima dell’acquisizione da parte del ricorrente. L’ordine di demolizione aveva dunque l’obiettivo legittimo di preservare la zona, proteggendo così i diritti e le libertà di altri (§ 52). In merito al terzo elemento necessario a giustificare l’ingerenza, ex art. 8 § 2, ossia la «necessità in una società democratica», la Corte constata che l’illegittimità della costruzione non è stata contestata nemmeno dal ricorrente, il quale non aveva in alcun modo tentato di cambiare lo status prima di costruire l’immobile. I giudici rilevano inoltre che le corti interne hanno adottato varie misure per agevolare il ricorrente, quali il differimento del termine di demolizione e il rinvio del procedimento per la richiesta di regolarizzazione ex post. Le autorità interne hanno dunque operato un giusto bilanciamento tra l’interesse generale alla preservazione delle foreste e dell’ambiente e l’interesse del ricorrente, tenendo conto della consapevolezza dell’illegalità della costruzione.
La Corte Edu considera dunque che lo Stato lituano ha agito all’interno del margine di apprezzamento riconosciuto dall’art. 8 § 2 e non ha perciò rilevato alcuna violazione dell’articolo della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 10 settembre 2020 rich. nn. 59751/15, G.L. c. Italia
Oggetto: articolo 14 (divieto di discriminazione), 2 del Protocollo addizionale (diritto all’istruzione), sostegno scolastico, pari opportunità, disabilità, educazione inclusiva, bisogni educativi
La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 14 della Convenzione, in combinato disposto con l’art. 2 del Protocollo addizionale.
Marika Ikonomu, Università Statale di Milano, già tirocinante presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa
Agnese Galatà, Università degli Studi di Milano, tirocinante ex. art.73 del dl 69/2013, presso il Tribunale per i Minorenni di Milano