La Corte Edu dichiara che il diniego opposto ad un’istanza di registrazione di un’associazione religiosa a causa dell’assenza di una precisa indicazione delle credenze e rituali professati integra una violazione degli artt. 9 e 11 della Cedu.
Oggetto: Violazione degli artt. 9 e 11 Cedu – Libertà di religione – Condizioni per ottenere il riconoscimento di una associazione religiosa – Analiticità nell’indicazione delle credenze e dei riti dell’associazione – Non richiesta in una società democratica
Nel febbraio 2007, alcuni seguaci della fede Ahmadi, movimento religioso musulmano, hanno deciso di creare una nuova confessione religiosa, denominata “Comunità Musulmana Ahmadiyya”. Sicché hanno presentato in tribunale una domanda di registrazione ai sensi della legge sui culti, indicando nel proprio statuto obiettivi e credenze della confessione. Tuttavia i giudici nazionali hanno rifiutato di registrare la confessione religiosa, nell’assunto dell’assenza di precisione nell’indicazione delle credenze e riti dell’associazione.
A giudizio della Corte, occorre interpretare l’art. 9 Cedu alla luce dell’art. 11 Cedu, in quanto in assenza di registrazione da parte del giudice, l’associazione religiosa non potrebbe acquisire personalità giuridica e non potrebbe agire per conto degli associati. In particolare, sarebbe precluso il diritto di possedere o affittare immobili, di aprire conti bancari o di intentare procedimenti legali, tutti diritti che la Corte ritiene essenziali per l’esercizio del diritto a manifestare la propria religione. Così il rifiuto di registrare un’associazione religiosa ai sensi della legge sui culti religiosi integra certamente un’interferenza con l’esercizio dei diritti garantiti ai ricorrenti ai sensi dell’art. 9 della Convenzione, interpretato alla luce dell’art. 11. Tale interferenza è stata prevista espressamente dalla legge ed è volta perseguire obiettivi legittimi per la tutela dell’ordine pubblico e dei diritti e delle libertà altrui.
Tuttavia, i giudici di Strasburgo rilevano che nel rifiutare la registrazione dell’associazione religiosa, i giudici nazionali hanno tenuto in unica considerazione la mancanza di un’indicazione sufficientemente precisa e completa delle credenze e dei riti del culto Ahmadi all’interno dello statuto dell’associazione. Essa ha concluso che lo statuto non soddisfaceva i requisiti della legge sui culti, volta a distinguere i diversi culti al fine di evitare scontri tra le comunità religiose.
La Corte rileva che le disposizioni di legge non contengono previsioni specifiche che indichino con quanta precisione deve essere fornita la descrizione richiesta né quali specifiche informazioni in merito alle credenze ed ai rituali di culto devono essere incluse all’interno dell’istanza di riconoscimento. Poiché non vi erano altre regole o linee guida a disposizione dei richiedenti per redigere l’istanza, non era facile per i ricorrenti predisporre lo statuto in conformità con i requisiti di precisione richiesti dalle Corti nazionali. La Corte aggiunge che, in ogni caso, ai ricorrenti non è stata neppure offerta la possibilità di porre rimedio alle carenze riscontrate, fornendo informazioni aggiuntive.
La Corte evidenzia che condizione per la registrazione dell’associazione religiosa è la dimostrazione che le credenze condivise dai suoi seguaci siano diverse da quelle degli altri culti già registrati e, in particolare nel caso di specie, dalla fede musulmana dominante. Tale approccio se, applicato rigorosamente, come nel caso di specie, porterebbe in pratica a denegare la registrazione di qualsivoglia nuova associazione religiosa che professi la medesima dottrina di un culto già esistente. Attesa l’impossibilità, in base al diritto bulgaro, per un’associazione religiosa di ottenere il riconoscimento della personalità giuridica in un altro modo, la posizione assunta dai giudici nazionali potrebbe avere come conseguenze di permettere l’esistenza di un’unica associazione per movimento religioso e di imporre ai fedeli di aderire ad essa.
Ciò appare tuttavia difficilmente conciliabile con la libertà di religione garantita dall’art. 9 della Convenzione, interpretato alla luce della libertà di associazione tutelata ai sensi dell’art. 11 Cedu. Il diritto alla libertà di religione, in linea di principio, esclude che uno Stato possa apprezzare la legittimità delle credenze religiose o le modalità di espressione, e ciò anche per il bene di preservare l’unità all’interno di una comunità religiosa. La presunta mancanza di precisione nella descrizione delle credenze e rituali dell’associazione religiosa all’interno dello statuto di quest’ultima non era tale da giustificare il rifiuto di registrazione, che, quindi, non è richiesto in una società democratica.
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Essere penalmente condannati per aver rifiutato di essere registrati nel sistema nazionale automatizzato delle impronte genetiche (FNAE, “Fichier national automatisé des empreintes génétiques”) contrasta con il diritto al rispetto della vita privata.
Sentenza della Corte Edu (Sezione Quinta) 22 giugno 2017, rich. n. 8806/12, Ayçaguer v. Francia
Oggetto: Violazione art. 8 Cedu – Diritto al rispetto della vita privata – Rifiuto di sottoporsi al prelievo di Dna imposto dalla legge – Illegittimità condanna penale
Il caso riguarda il rifiuto di prestarsi a un prelievo di campioni biologici da registrare all’interno del FNAE. In particolare, in data 24 dicembre 2008, il ricorrente, un cittadino francese di nome Ayçaguer che era stato accusato di violenza a margine di una manifestazione di agricoltori, a causa di una rissa scoppiata tra manifestanti e gendarmeria, è stato chiamato dal pubblico ministero per un prelievo di campioni biologici sulla sua persona, in base agli articoli 706-55 e 706-56 del codice di procedura penale francese. Il sig. Aycaguer rifiutava il prelievo e veniva condannato dal tribunale penale al pagamento di una multa, condanna poi confermata in appello. Il rifiuto di sottoporsi al predetto prelievo, ai sensi della legge francese, costituisce infatti reato.
Invocando l’art. 8 Cedu, il ricorrente lamenta una violazione del suo diritto al rispetto della vita privata. La Corte rileva che il sig. Aycaguer non è, ad oggi, registrato nel FNAEG in quanto ha rifiutato di sottoporsi al prelievo di Dna imposto dalla legge e che tale condotta gli è costata una condanna penale.
A tal proposito, la Corte rileva che il solo fatto di memorizzare dei dati relativi alla vita privata di un individuo costituisce un’ingerenza ai sensi dell’art. 8 Cedu, in quanto i profili di Dna contengono una quantità significativa di dati personali unici. Essa afferma di essere consapevole che, per garantire la protezione della popolazione, le autorità nazionali devono poter creare file in grado di garantire una più efficacie soppressione e prevenzione di alcuni gravi reati, motivo per cui, appunto, è stato creato il FNAEG. Occorre verificare se tale ingerenza nella vita privata degli individui sia prevista dalla legge francese e persegua uno scopo legittimo. Sul punto, i giudici di Strasburgo rilevano che, ai sensi dell’art R. 53-14 del codice di procedura penale, la durata della conservazione dei profili di Dna non possa superare i quaranta anni nel caso di persone condannate per reati che presentano un certo grado di serietà. La Corte osserva tuttavia che il periodo massimo dovrebbe essere fissato per decreto, ma che questo decreto allo stato non è mai stato emanato, pertanto il termine di quaranta anni integra più uno standard piuttosto che un effettivo limite massimo. La Corte Edu ha inoltre evidenziato come la Corte costituzionale francese nel 2010 avesse dichiarato le disposizioni sul FNAEG compatibili con la Carta costituzionale, a condizione che la conservazione dei dati fosse soggetta ad un termine ragionevole e fosse proporzionata alla gravità e alla natura delle violazioni commesse. I suddetti princìpi non hanno tuttavia trovato alcun seguito, in quanto attualmente nel sistema francese non è prevista alcuna distinzione in funzione della natura e della gravità dei reati commessi, e ciò nonostante la notevole disparità di situazioni che potrebbero verificarsi, come ad esempio è il caso del sig. Aycaguer. La Corte infatti non può esimersi dal rilevare che le azioni del sig. Aycaguer erano state commesse in un contesto politico/sindacale e consistevano in semplici colpi di ombrello a poliziotti.
I giudici evidenziano inoltre che nel sistema francese la possibilità di cancellare i dati inseriti nel FNAEG è riconosciuta unicamente ai soggetti indagati, mentre resta preclusa a coloro che invece sono stati penalmente condannati. Tuttavia, a giudizio della Corte, anche i condannati dovrebbero poter avere una concreta possibilità di ottenere la cancellazione dei dati memorizzati.
Alla luce di quanto rilevato, i giudici di Strasburgo affermano che l’attuale sistema di ritenzione dei profili di Dna nel FNAEG non offre, in ragione della durata della conservazione e dell’impossibilità di presentare istanza di cancellazione, una protezione sufficiente per la persona interessata e non riflette un giusto bilanciamento tra gli interessi, pubblici e privati, coinvolti. La Corte conclude dunque che la Francia ha superato il proprio potere discrezionale in materia, incorrendo nella violazione dell’art. 8 Cedu. La condanna penale del sig. Aycaguer, per essersi rifiutato di sottoporsi ad un prelievo biologico per la registrazione del suo profilo nella FNAEG, è una violazione sproporzionata del diritto al rispetto della vita privata e non può essere considerata come necessaria in una società democratica.
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Il rapporto di parentela tra giudice e praticante avvocato che svolge tirocinio nell’ufficio legale di una delle parti in causa è atto ad incidere sull’imparzialità del giudizio.
Sentenza della Corte Edu (Sezione Seconda), 27 giugno 2017, rich. n. 5856/13, Ramljak v. Croatia
Oggetto: Violazione art. 6 par. 1 della Cedu – Diritto ad un equo processo – Imparzialità dei giudici – Rapporti di parentela del giudicante con il praticante avvocato
La ricorrente ha presentato ricorso innanzi la Corte Edu, affermando di non aver avuto un’equa udienza dinanzi a un tribunale indipendente e imparziale, poiché uno dei giudici chiamato a pronunciarsi in merito al suo ricorso era il padre di un avvocato che stava svolgendo un tirocinio nell’ufficio dei due avvocati che rappresentavano e difendevano la parte avversaria. La ricorrente invocando l’art. 6 par. 1 della Cedu, lamenta la violazione del diritto ad un equo processo.
La Corte esamina il caso dal punto di vista dell’imparzialità oggettiva, chiedendosi se i dubbi della ricorrente possano essere considerati obiettivamente giustificati.
A giudizio della Corte Edu, nel caso di specie, non vi era alcun elemento atto a dimostrare che il giudice non fosse a conoscenza del fatto che suo figlio era impiegato nell’ufficio legale che rappresentava una delle parti nel procedimento in questione, né dal fascicolo di causa emergeva che il giudice in questione avesse dimostrato di aver informato il presidente della Corte di tali circostanze. Se il giudice avesse informato il presidente della Corte, le questioni relative alla sua partecipazione al processo sarebbero state affrontate prima che venisse esaminata la controversia. Il fatto che un parente stretto, come il figlio di un giudice chiamato ad esaminare una causa civile, avesse legami stretti con gli avvocati che rappresentano l’avversario della ricorrente nel medesimo giudizio civile, pur non avendo alcun coinvolgimento nel caso, secondo i giudici di Strasburgo ha compromesso l’imparzialità del tribunale.
Nel caso di specie non è stato possibile accertare l’esatta influenza del giudice sull’esito del giudizio, atteso che i giudici si erano pronunciati in Camera di consiglio. Ciononostante, la Corte Edu osserva che il giudice in questione aveva presieduto il collegio dei tre giudici chiamato a pronunciarsi sul ricorso e che, pertanto, la ricorrente aveva ragionevole motivo di credere che avesse svolto un ruolo decisivo nell’emettere la pronuncia a lei sfavorevole e che pertanto l’imparzialità del tribunale potesse essere ragionevolmente messa in discussione.
Alla luce di tali circostanze, la Corte accerta la violazione dell’art. 6 par. 1 Cedu.
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La Corte Edu torna a pronunciarsi sui limiti del diritto alla libertà di espressione e condanna la Romania per violazione dell’art. 10 Cedu. Le sanzioni pecuniarie eccessive a carico dei giornalisti sono contrarie alla Cedu e producono un effetto dissuasivo sulla libertà di stampa.
Oggetto: Violazione dell’art. 10 Cedu – Diritto alla libertà di espressione – Il requisito dell’ingerenza necessaria in una società democratica – Proporzionalità della sanzione
Una giornalista, nel corso di una trasmissione televisiva alla quale aveva partecipato come ospite insieme al sindaco di Costanza (Romania), aveva sostenuto, con riguardo ad alcuni incidenti dinanzi ad un hotel del quale il sindaco era azionista, che la città era divisa in bande e che il sindaco aveva rapporti con una delle fazioni.
Ha fatto seguito un’azione civile da parte del sindaco che ha portato alla condanna della giornalista, al pagamento di una somma particolarmente ingente, a presentare una lettera di scuse e a pubblicare la sentenza su un giornale nazionale e locale.
La giornalista si è dunque rivolta alla Corte Edu al fine di fare accertare la violazione dell’art. 10 Cedu che assicura il diritto alla libertà di espressione.
I giudici di Strasburgo rilevano che le affermazioni diffamatorie contestate sono state fatte nell’ambito di un dibattito relativo ad una questione di sicuro interesse pubblico, vale a dire il mantenimento dell’ordine pubblico nella città. La giornalista aveva riportato la propria opinione su questioni di interesse generale che riguardavano il sindaco che era senza dubbio inquadrato tra le figure pubbliche, anche se coinvolto nella vicenda in quanto imprenditore. Le affermazioni riguardavano pertanto un ambito in cui le restrizioni alla libertà di espressione devono essere interpretate rigorosamente.
La Corte rileva inoltre che il programma televisivo era stato concepito per favorire lo scambio di opinioni e che lo spettacolo è stato trasmesso in diretta televisiva, per cui la ricorrente aveva avuto una limitata possibilità di riformulare, raffinare o ritirare qualsiasi affermazione prima che queste fossero rese pubbliche. Tenuto conto delle circostanze in cui le affermazioni sono state rese, vale a dire nel caldo di un dibattito su una questione di interesse pubblico, nonché del tono delle osservazioni, la Corte ritiene che le dichiarazioni diffamatorie contestate debbano essere considerate piuttosto come le opinioni personali della giornalista, che rientrano nell’ambito dei giudizi di valore. Tale giudizio di valore, a detta della Corte, aveva una base fattuale sufficiente, atteso che le informazioni erano già state diffuse ed erano già conosciute dal grande pubblico. Con riferimento alla prova che la giornalista non avesse agito in buona fede nel perseguire un obiettivo legittimo, la Corte ribadisce la necessità che il relativo onere non gravi sulla giornalista e, sul punto, rileva che i giudici nazionali non avevano indicato prove per far ritenere che la finalità perseguita dalla giornalista fosse diversa da quella aprire una discussione su una questione di interesse pubblico.
La Corte afferma inoltre che la sanzione inflitta ad un giornalista per aver formulato le proprie opinioni ostacolerebbe seriamente il contributo della stampa alla discussione di questioni di interesse pubblico e non dovrebbe pertanto essere prevista, se non in presenza di ragioni particolarmente gravi. Infine, la Corte ribadisce che, ai sensi della Convenzione, la riparazione dei danni per diffamazione deve possedere un ragionevole rapporto di proporzionalità con il pregiudizio subito alla reputazione, mentre nel caso di specie, ciò non è avvenuto. In particolare, la Corte osserva che l’importo che era stato ordinato di pagare alla giornalista era estremamente elevato e pertanto tale era in grado di avere un effetto dissuasivo sulla libertà di espressione della ricorrente.
Alla luce dei fatti sopra esposti, la Corte ritiene che la sanzione inflitta alla ricorrente non fosse giustificata e che le norme applicate dai giudici nazionali non avessero assicurato un equo equilibrio tra i diritti e gli interessi in discussione. Conseguenza, l’interferenza contestata non era «necessaria in una società democratica» ai sensi dell’art. 10.