Le più rilevanti sentenze di dicembre della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardano diverse disposizioni della Convenzione. I giudici della terza sezione hanno condannato la Russia in tema di estradizione, non avendo lo Stato membro valutato in modo approfondito e rigoroso l’entità del rischio corso dal cittadino kazako. Nel caso Makeyan e altri c. Armenia, invece, la Corte ha ritenuto che detto Stato membro abbia garantito l’equità del processo, rispettando dunque gli standard minimi richiesti dall’art. 6. Ancora, due giudizi allo stato pendenti davanti alla Grande Camera: da un lato, i giudici della terza sezione hanno statuito la violazione dell’art. 5 § 1 da parte della Svizzera, vista la mancanza di una base giuridica che legittimasse la privazione della libertà personale nel caso di specie. Dall’altro, la seconda sezione ha condannato la Turchia per un’ingerenza dello Stato non giustificata, in tema di segreto professionale posto a protezione del rapporto cliente-avvocato.
Sentenza della Corte Edu (Sezione III) 3 dicembre 2019 rich. nn. 29343/18, N.M. c. Russia
Oggetto: articolo 3 (proibizione della tortura), motivi di rifiuto dell’estradizione, trattamenti inumani e degradanti, gruppo vulnerabile.
La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 3 della Convenzione.
Il ricorrente, un cittadino kazako attualmente in Russia, lamenta la violazione dell’art. 3 della Convenzione, vista la decisione favorevole all’estradizione verso l’Uzbekistan, luogo in cui verrebbe esposto al pericolo di ricevere trattamenti inumani e degradanti.
N.M. fu accusato dalle autorità uzbeke di reati di estremismo religioso nel maggio 2015: venne disposta la custodia cautelare in carcere in absentia, emesso un mandato di cattura internazionale e fu dunque arrestato dalle autorità russe in data 1° agosto 2016. Le autorità interne emisero, nei tre gradi di giudizio, decisione favorevole all’estradizione, nonostante i numerosi reclami del ricorrente, con cui evidenziava il pericolo di essere sottoposto a trattamenti contrari all’art. 3 nel caso di estradizione in Uzbekistan.
Il comitato di tre giudici della Corte Edu - chiamato a decidere sul presente ricorso - cita anzitutto una precedente sentenza, Mamazhonov c. Russia, in cui la Corte ravvisava un reale pericolo di trattamenti degradanti per coloro nei confronti dei quali le autorità uzbeke richiedevano l’estradizione per reati politicamente o religiosamente motivati, considerando tali soggetti «gruppo vulnerabile» (§ 141). Le autorità dell’Uzbekistan infatti hanno identificato il ricorrente perché appartenente a un gruppo i cui membri hanno corso il pericolo di essere soggetti ai detti trattamenti.
La Corte, riconoscendo in capo alle autorità russe il dovere di una valutazione rigorosa e adeguata delle argomentazioni del ricorrente, rileva tuttavia un comportamento insoddisfacente e un approccio semplicistico. Le autorità russe hanno dunque fallito nel loro compito di esaminare in modo approfondito e puntuale le doglianze del ricorrente.
I giudici di Strasburgo forniscono inoltre una valutazione in merito all’entità del rischio in caso di estradizione verso l’Uzbekistan. Considerati i numerosi report internazionali e alcune sentenze della stessa Corte Edu – documenti che evidenziano un reale pericolo di ricevere tali trattamenti nel caso in cui si venga accusati di reati religiosamente orientati – i giudici della terza sezione concludono che il trasferimento di N.M. in Uzbekistan lo esporrebbe al rischio di subire trattamenti contrari all’art. 3 della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Sezione III) 3 dicembre 2019 rich. nn. 72939/16, I.L. c. Svizzera
Oggetto: articolo 5 § 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza), legittimità della privazione della libertà personale, misure di sicurezza, fondamento giuridico, lacuna legislativa, giurisprudenza consolidata.
La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 5 § 1 della Convenzione.
La causa nasce dal ricorso di un cittadino svizzero, I.L., che lamenta la violazione dell’art. 5 § 1 della Convenzione, sostenendo l’illegittimità della privazione della propria libertà, avvenuta dal 13 giugno al 23 settembre 2016.
Il 24 giugno 2011, la Corte Suprema del Canton Berna confermò la decisione del tribunale regionale, il quale condannava il ricorrente alla pena della reclusione di 14 mesi e disponeva inoltre una misura di sicurezza: l’esecuzione della pena detentiva venne dunque sospesa affinché venisse eseguita la seconda misura. Poiché l’art. 59 del codice penale svizzero prevede che la misura di sicurezza non può avere una durata superiore ai cinque anni, e qualora non vi siano le condizioni per una liberazione condizionale il giudice dell’esecuzione può chiedere il prolungamento di tale misura per un ulteriore periodo di cinque anni, il 24 maggio 2016 venne presentata tale richiesta al tribunale regionale. Nell’attesa della decisione, il tribunale ordinò la detenzione del soggetto per ragioni di sicurezza. Il ricorso di I.L. contro tale decisione, con cui sosteneva la mancanza di un fondamento giuridico, fu rigettato. Così, anche il Tribunale federale sostenne che, in linea con una giurisprudenza consolidata, le disposizioni del codice penale fossero applicabili per analogia al caso in questione. In data 20 giugno 2019, fu disposta la liberazione condizionale del ricorrente.
La Corte Edu rileva anzitutto che se la decisione fosse stata adottata in modo tempestivo non sarebbe stato necessario disporre la misura privativa della libertà personale. È tuttavia possibile che una tale decisione necessiti più tempo, come ad esempio accade qualora sia necessario effettuare una perizia psichiatrica, e che, in attesa che le autorità si pronuncino e qualora vi sia il pericolo di recidiva, si applichi il regime detentivo.
Ciò premesso, i giudici di Strasburgo rilevano l’assenza di una tale previsione nella legislazione svizzera e - all’argomentazione presentata dal Governo, con cui quest’ultimo sostiene che vi sia una giurisprudenza consolidata che pone rimedio alla mancanza di disposizioni legislative specifiche - la Corte puntualizza che vi è un solo precedente applicabile al caso di specie: un solo precedente, secondo i giudici della terza sezione, «non può costituire una base giuridica sufficientemente precisa ed è dunque incompatibile con il principio della certezza del diritto» (§ 52). Si evidenzia inoltre l’esigenza, più volte emersa dalle sentenze del Tribunale federale, che il legislatore intervenga introducendo leggi chiare e precise in materia.
La Corte Edu, vista la gravità dell’ingerenza dello Stato nel diritto del singolo e la necessità di un’interpretazione restrittiva circa gli elementi su cui si basa la detenzione, ritiene, da un lato, che non può essere tollerata un’applicazione analogica, dall’altro, che la legislazione svizzera non soddisfa la condizione richiesta dall’art. 5 § 1. Vi è dunque stata violazione.
Si rileva tuttavia che il legislatore ha avviato dei lavori al fine di colmare tale lacuna.
Lo Stato membro in questione ha presentato ricorso alla Grande Camera, giudice di secondo grado della Corte.
Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 5 dicembre 2019 rich. nn. 46435/09, Makeyan e altri c. Armenia
Oggetto: articolo 6 § 1 (diritto a un equo processo), principio del giusto processo, arbitrarietà e irragionevolezza, apprezzamento degli elementi di prova, attendibilità del testimone, fonti di prova.
La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, la non violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione.
La causa Makeyan e altri c. Armenia nasce dal ricorso di tre cittadini armeni, i quali denunciano la mancanza di equità del processo penale che li ha visti coinvolti.
Durante le elezioni presidenziali del 2008, i ricorrenti parteciparono alla campagna elettorale del principale candidato di opposizione, Levon Ter-Petrosyan. Il 19 febbraio, giorno successivo alle elezioni, fu avviato un procedimento penale a carico dei ricorrenti, indagati per aver avuto un diverbio con i membri della commissione elettorale del seggio di Gyumri e aver interrotto per mezz’ora i lavori. Furono arrestati e fu disposta nei loro confronti la custodia cautelare. I ricorrenti negarono le accuse, affermando di essersi resi presso il seggio separatamente per sorvegliare su eventuali brogli elettorali e l’utilizzo di passaporti falsi. Al contrario, gli undici testimoni sentiti confermarono l’atteggiamento di disturbo dei tre, che arrivarono a minacciare i componenti della commissione. Chiamati nuovamente a testimoniare in dibattimento, sette tra questi ritrattarono affermando di aver ricevuto pressioni da chi svolgeva le indagini; un altro testimone, invece, confermò ciò che aveva dichiarato in sede di indagini.
I ricorrenti furono condannati nel giugno 2008, principalmente sulla base delle testimonianze rese in fase istruttoria, poiché secondo i giudici interni i testimoni avrebbero ritrattato per paura di ritorsioni da parte dell’entourage dei ricorrenti. A sostegno di ciò anche le richieste di alcuni testimoni di non partecipare al processo.
I ricorsi presentati dai tre cittadini armeni, con cui asserivano l’inutilizzabilità delle prove poste a sostegno della loro condanna, furono rigettati. I due ricorrenti condannati alla pena della reclusione tornarono in libertà nel giugno 2009, beneficiando dell’amnistia.
La prima sezione della Corte ricorda anzitutto che l’apprezzamento degli elementi di prova rimane competenza delle giurisdizioni nazionali, a meno che le decisioni non siano arbitrarie o manifestamente irragionevoli; alla Corte Edu compete invece un giudizio di equità sull’intera procedura. Nel caso di specie, la Corte ritiene che i tribunali interni abbiano giustificato a sufficienza la loro decisione di attribuire un valore maggiore alle deposizioni rese nella fase preprocessuale. Trovandosi di fronte a una scelta e a dichiarazioni contraddittorie, la giurisdizione nazionale ha valutato approfonditamente tutti gli elementi a disposizione, tra cui il comportamento di alcuni testimoni in occasione del controinterrogatorio.
La Corte di Strasburgo evidenzia inoltre come i ricorrenti abbiano avuto la possibilità di contestare la ricevibilità di tali prove in secondo grado. In aggiunta, non vi sono evidenze ulteriori né denunce a livello nazionale, secondo la Corte, che dimostrino l’esercizio di pressioni sui testimoni da parte dell’accusa o maltrattamenti da parte delle autorità che hanno condotto le indagini.
La Corte Edu conclude dunque che i processi a carico dei ricorrenti hanno rispettato nel complesso gli standard di equità richiesti dall’art. 6 § 1. Non vi è dunque stata violazione di tale disposizione.
Sentenza della Corte Edu (Sezione II) 3 dicembre 2019 rich. nn. 14704/12, Kırdök e altri c. Turchia
Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), garanzie processuali, segreto professionale dell’avvocato, perquisizione, legittimità del sequestro, ingerenza dello Stato.
La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 8 della Convenzione.
Il presente caso vede coinvolti tre cittadini turchi, avvocati, i quali lamentano la violazione dell’art. 8 della Convenzione, avendo le autorità giudiziarie copiato il loro archivio digitale – che contiene documenti protetti dal segreto professionale, basato sulla riservatezza dei rapporti con il cliente – durante una perquisizione disposta verso un collega dello studio, Ü.S.
Quest’ultimo, il 7 aprile 2010, fece visita a un cliente, H.A., detenuto presso il carcere di İmralı, dove tra i detenuti vi era Abdullah Öcalan, ex capo del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Nel 2011, la procura di Istanbul avviò un’indagine per individuare le vie segrete di comunicazione tra l’ex leader e l’organizzazione. Nell’ambito dell’inchiesta, un giudice della Corte d’Assise di Istanbul dispose l’arresto di Ü.S. e, con ordinanza, la perquisizione dello studio, condiviso con i ricorrenti. Le autorità sequestrarono l’insieme dei dati d’archivio relativi all’attività di tutti gli avvocati dello studio e una USB di proprietà dell’avvocato Hanbayat, una dei tre ricorrenti.
I tre colleghi impugnarono l’ordinanza nel loro interesse e in qualità di difensori di Ü.S., richiedendo inoltre la restituzione o la distruzione dei dati digitali sequestrati, evidenziando l’estraneità degli stessi all’attività professionale di Ü.S. e infine sottolineando la mancanza di un provvedimento a fondamento del sequestro. La Corte d’Assise rigettò le domande, considerando l’ordinanza in questione conforme alla legge e alla procedura.
La Corte Edu rileva anzitutto che l’ordinanza del giudice della Corte d’Assise ordina la perquisizione in modo generale e indefinito, modalità che ha caratterizzato anche lo scopo e le modalità dell’operazione. Il giudice interno ha infatti richiesto la perquisizione con l’obiettivo di «raccogliere prove e ottenere gli elementi che potrebbero dimostrare che l’indagato svolga attività riconducibili all’organizzazione terroristica KCK/PKK» (§ 53), senza fornire alcuna precisazione circa le prove da sequestrare, né la pertinenza di tali elementi alla relativa indagine penale. Analogamente, imprecisione e generalità hanno caratterizzato le modalità della perquisizione, durante la quale non sono state adottate misure di protezione speciale a garanzia del segreto professionale.
I giudici della seconda sezione notano poi che «la legge impone alle autorità l’obbligo di procedere rapidamente all’esame dei dati ottenuti e, se del caso, di restituire agli interessati o distruggere i dati protetti dal segreto» (§ 55), senza però individuare precise conseguenze in caso di inadempimento. Pare infatti che la Corte d’Assise abbia accettato implicitamente le argomentazioni dell’accusa, ossia che, non avendo ancora trascritto i dati digitali, non era certo di chi fosse la proprietà di tali dati. Secondo la Corte Edu, le motivazioni allegate, prive di fondamento giuridico, si rivelano «contrarie all’essenza del segreto professionale, posto a protezione del rapporto avvocato-cliente» (§ 56).
In conclusione, le misure impartite ai ricorrenti, in merito al sequestro dei dati digitali e al rifiuto da parte delle autorità di restituire o distruggere gli stessi, non sono state giustificate da un’esigenza sociale urgente, né proporzionate a uno scopo legittimo («difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui»), né infine necessarie in una società democratica. Vi è stata dunque violazione dell’art. 8 della Convenzione.
Lo Stato membro in questione ha presentato ricorso alla Grande Camera, giudice di secondo grado della Corte.
photo credits: European Court of Human Rights
Marika Ikonomu, Università Statale di Milano, già tirocinante presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa
Maria Giuliana Civinini, presidente del Tribunale di Pisa