Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di gennaio 2021

Le più interessanti pronunce emesse dalla Corte di Strasburgo a gennaio 2021

Le più rilevanti sentenze di gennaio della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardano un vasto ventaglio di diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione. La Corte ha giudicato di importanti questioni sul rispetto della vita privata ai sensi dell’articolo 8, affermando la proporzionalità della pubblicazione dei dati personali per contrastare l’evasione fiscale, condannando il rifiuto delle autorità nazionali di riconoscere l’identità maschile di persone transgender in assenza di un intervento chirurgico e giudicando sproporzionata la criminalizzazione penale delle condotte di accattonaggio di persone vulnerabili. Ha inoltre giudicato priva di motivazione la limitazione della libertà di espressione (Articolo 10) di un blogger che ha subito una condanna civile per aver criticato un altro giornalista. Rispetto a condotte di aggressione omofoba, ha giudicato non sufficientemente adeguata la condanna dei responsabili per reati minori senza una adeguata indagine dei motivi di odio alla base della condotta. La Corte ha condannato l’Italia per non aver assicurato i rapporti tra nonna e nipote attraverso l’adeguata organizzazione di incontri protetti. I giudici di Strasburgo sono stati, inoltre, chiamati a decidere in materia di giusto processo, con riferimento al diritto di esaminare i testimoni nel processo penale. Infine, due pronunce in materia di diritto al rispetto dei beni decidono della legittimità di un sequestro temporaneo di merci e dell’adeguatezza dell’indennità di esproprio.

 

Sentenza della Corte Edu (Sezione IV) 12 gennaio 2021 rich. nn. 36345/16, L.B. c. Ungheria

Oggetto: Articolo 8 (rispetto della vita privata), non violazione, pubblicazione giustificata dei dati identificativi del ricorrente, scopo legittimo di protezione del sistema fiscale, margine di apprezzamento dello Stato.

Il caso ha ad oggetto la pubblicazione da parte dell’Autorità nazionale fiscale e doganale ungherese, sul proprio sito web, dei dati anagrafici e fiscali del ricorrente in un apposito elenco dei soggetti maggiormente inadempienti nel pagamento delle imposte. Tale misura è prevista dalla legge nazionale per le persone i cui arretrati e debiti fiscali superano i 10 milioni di fiorini ungheresi. Le informazioni pubblicate comprendevano il nome del ricorrente, il suo indirizzo di residenza, il suo numero di identificazione fiscale e l’importo delle imposte ancora non pagate. Il ricorrente, successivamente, è apparso anche in un altro elenco di “grandi evasori fiscali” sullo stesso sito web. Infine, una testata giornalistica online ha pubblicato una mappa interattiva degli evasori fiscali, identificando precisamente il suo indirizzo di domicilio.

Il ricorrente ha sostenuto che era stato violato il suo diritto al rispetto della vita privata protetto dall’articolo 8 della Convenzione: la pubblicazione dei suoi dati personali nella lista degli evasori fiscali, perseguendo come unico scopo quello di screditare pubblicamente la sua persona, non può essere considerata una misura avente una finalità legittima. Si è inoltre contestata l’idoneità della misura a raggiungere l’obiettivo di deterrenza dalla reiterazione dell’evasione fiscale e la proporzionalità della stessa in relazione alla tipologia e alla portata di dati personali pubblicati, considerata abnorme rispetto all’obiettivo di identificazione dell’evasore.

Nel merito, la Corte ha statuito che la misura è compatibile con il rispetto dell’articolo 8 della Convenzione. Attraverso la pubblicazione dei dati fiscali dei maggiori evasori fiscali, la legislazione ungherese persegue lo scopo di proteggere il benessere economico del paese – attraverso un’azione di deterrenza – nonché quello di tutelare i diritti e le libertà altrui – informando i consociati dell’infedeltà fiscale di determinati individui. Per quanto riguarda, invece, il requisito della necessità in una società democratica, la Corte ha ritenuto innanzitutto di garantire un certo margine di apprezzamento allo Stato ungherese nella scelta delle misure più idonee a contrastare l’evasione fiscale, valutando non irragionevole l’affermazione del governo circa l’efficacia deterrente della pubblicazione dei dati personali. Anche rispetto alla finalità di protezione dei diritti degli altri consociati, la Corte ha giudicato meritevole di tutela l’interesse di ogni persona, che desidera stabilire relazioni economiche con altri consociati, ad ottenere informazioni relative al loro rispetto degli obblighi fiscali e, in definitiva, alla loro idoneità a adempiere agli impegni economici. Non si tratta, dunque, come in altri precedenti, della pubblicazione di informazioni puramente private o volte a soddisfare una mera curiosità dell’opinione pubblica[1], ma di garantire l’accesso a informazioni funzionali alla correttezza degli scambi e al buon funzionamento dell’economia.

La misura è stata infine giudicata proporzionata in relazione alla portata dei dati personali pubblicati e alle modalità di pubblicazione su Internet. La Corte ha valutato che la normativa operasse una distinzione tra i contribuenti sulla base di criteri pertinenti – quali l’ammontare del debito nei confronti del fisco e la durata dell’inadempimento – perseguendo così una logica di minimizzazione dell’ingerenza nella vita privata del ricorrente. Altri elementi ritenuti rilevanti dalla Corte nel giudizio di proporzionalità della misura sono la temporaneità della pubblicazione – destinata a cessare con l’adempimento degli obblighi fiscali – e la portata di dati pubblicati, giudicati strettamente necessari all’effettiva identificazione dell’evasore da parte degli altri consociati.

Per tali ragioni la Corte ha deciso che non vi sia stata alcuna violazione dell’articolo 8 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Sezione IV) 12 gennaio 2021 ric. n. 79671/13, Gheorghe-Florin Popescu c. Romania

Oggetto: articolo 10 della Convenzione (libertà di espressione), condanna di un blogger al risarcimento dei danni per articoli critici nei confronti di un altro giornalista, assenza di motivi pertinenti e sufficienti per giustificare l’interferenza con la libertà di espressione.

La Corte di Strasburgo ha accertato la violazione dell’art. 10 della Convenzione.

Gheorghe-Florin Popescu, cittadino rumeno e giornalista, ha proposto ricorso alla Corte a fronte della decisione delle autorità nazionali di condannarlo al risarcimento dei danni per aver pubblicato sul suo blog cinque articoli critici nei confronti di un altro giornalista, direttore di giornale e produttore televisivo.

Il ricorrente era stato condannato, in sede civile, per aver mosso accuse prive di base fattuale, per aver presentato il diffamato come moralmente responsabile di un omicidio-suicidio, per avergli causato, oltre che danni alla reputazione professionale, sofferenza psicologica, ansia e dolore, nonché per aver utilizzato espressioni volgari. Non avevano trovato accoglimento le obiezioni sollevate in ordine al ruolo politico svolto dal direttore-produttore, poiché coinvolto in campagne elettorali, alla rilevanza di un dibattito pubblico sull’operato di quest’ultimo, alla natura delle dichiarazioni contestate, in termini di opinioni su qualità morali e professionali.

Sui medesimi argomenti poggiano il ricorso e le osservazioni alla Corte di Strasburgo, chiamata a valutare se la condanna civile, in quanto ingerenza nell’esercizio della libertà di espressione, abbia o meno rispettato i requisiti consolidati in materia di critica e di cronaca giornalistica. L’ingerenza è legittima qualora sia prevista dalla legge, persegua uno scopo legittimo (quale la tutela della reputazione altrui), infine se “necessaria in una società democratica”. Nella fattispecie concreta, la Corte s’interroga sull’osservanza dell’ultimo requisito che, a sua volta, richiede di verificare se l’ingerenza sia proporzionata allo scopo legittimo perseguito, nonché giustificata dai giudici interni con motivi pertinenti e sufficienti. Il giudizio di bilanciamento “espressione-privacy” deve accertare l’impatto di quanto pubblicato ai fini di un dibattito d’interesse generale, il comportamento precedente del ricorrente, il contenuto, la forma e le ripercussioni della pubblicazione, la severità della pena imposta; deve inoltre distinguere tra dichiarazioni di fatto, la cui materialità può e deve essere provata, e giudizi di valore, rispetto cui si richiede una base fattuale sufficiente.

Il test sull’ingerenza è divenuto, nel corso degli anni, sempre più rigoroso e dettagliato, chiaro sintomo della particolare importanza rivestita dalla libertà di espressione nel contesto convenzionale, in quanto fattore di democrazia e suo indice emblematico.

Blogger, siti internet, persino utenti popolari sui social media condividono il ruolo svolto dalla stampa per il corretto funzionamento di una società democratica, migliorano l’accesso della collettività alle notizie e facilitano la diffusione delle informazioni, tanto da essere definiti chien de garde public per quanto riguarda la protezione offerta dall’art. 10 (§ 26).

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che i giudici nazionali non abbiano osservato i criteri stabiliti dalla sua giurisprudenza ai fini di un corretto bilanciamento e, pertanto, non abbiano addotto quei motivi sufficienti e pertinenti suscettibili di giustificare l’ingerenza in termini di necessità.

In particolare, la condanna nazionale motiva prevalentemente sulle conseguenze negative per la vittima; censura il tono volgare e offensivo senza interrogarsi sulla configurabilità della satira; fa leva sull’assenza di prove a supporto di quanto pubblicato, eludendo la distinzione tra dichiarazioni di fatto e giudizi di valore; omette di esaminare il ruolo pubblico del diffamato, lo scopo e l’effettiva capacità degli articoli di contribuire ad un dibattito d’interesse generale. Inoltre, mancano elementi per verificare il grado di severità della sanzione, non avendo i giudici nazionali tenuto conto della situazione economica del ricorrente.

 

Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 14 gennaio 2021 ric. n. 50231/13, Sabalic c. Croazia 

Oggetto: art. 3 (divieto di tortura), art. 14 (divieto di discriminazione), aggressione omofoba e condanna per reato minore senza indagare sui motivi di odio, interruzione del procedimento riguardante gli atti di odio per ne bis in idem, limiti al principio di certezza del diritto in materia penale, necessità di un riesame della causa o di una riparazione adeguata.

La Corte di Strasburgo ha accertato la violazione dell’aspetto procedurale dell’art. 3 della Convenzione in combinato disposto con l’art. 14; viceversa, ha escluso una rilevanza autonoma della violazione dell’art. 13.

Pavla Sabalic, cittadina croata, lamentava la mancanza di un’adeguata risposta nazionale agli atti di violenza subiti a causa del suo orientamento sessuale, dunque la violazione dell’aspetto procedurale della tutela derivante dai divieti di tortura e di discriminazione.

Nel 2010, la ricorrente era stata aggredita fisicamente al di fuori di un locale notturno dove si trovava con diversi amici, riportando, da referto di pronto soccorso, lesioni corporali lievi. L’aggressore aveva cercato di approcciarla e, dopo aver saputo che ella era venuta in discoteca con la propria ragazza, l’aveva afferrata, spinta contro il muro e percossa, con insulti a sfondo omofobo, sino all’intervento di un terzo provvisto di pistola a gas.

La polizia, recatasi immediatamente sul posto, interrogava i presenti. L’aggressore veniva identificato in prosieguo, grazie alla targa della macchina, quindi processato per reati minori, ossia per violazione della pace e dell’ordine pubblico, e condannato al pagamento di una multa relativamente esigua. Dopo essersi resa conto che la polizia non aveva avviato alcuna indagine penale né sul comportamento violento, motivato dall’elemento di odio, né sul reato di discriminazione, la ricorrente presentava apposita denuncia presso la Procura. L’inchiesta veniva interrotta in forza del giudicato già formatosi in ordine agli stessi fatti, sebbene per reati minori: una nuova azione penale avrebbe violato il principio del ne bis in idem.

Prima di vagliare l’operato delle autorità croate, i giudici di Strasburgo s’interrogano sull’applicabilità dell’art. 3 della Convenzione, entro cui è sussumibile il maltrattamento che raggiunga un livello minimo di gravità, da valutare in base alla durata, agli effetti fisici o mentali, allo stato della vittima, allo scopo per cui è inflitto, al contesto. Tale livello è raggiunto in costanza di lesioni fisiche reali o di sofferenze intense, ovvero di condotta umiliante (anche agli occhi della sola vittima), capace di svilire la dignità individuale e di suscitare sentimenti di paura e angoscia.

D’altronde, un trattamento discriminatorio può integrare o un trattamento degradante ex art. 3, qualora presenti un livello di gravità tale da costituire un affronto alla dignità, nel significato anzidetto, o un fattore aggravante del maltrattamento ex art. 3.

In concreto, la Corte ritiene l’aggressione influenzata dall’orientamento sessuale della ricorrente, lesiva della dignità, fonte di paura, angoscia e insicurezza, dunque sintomatica della soglia di gravità richiesta dall’art. 3.

La valutazione di merito del contegno tenuto dalle autorità croate viene condotta ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 14 della Convenzione, nel loro aspetto procedurale, alla luce della sinergia tra responsabilità positive che gravano, dall’una e dall’altra norma, in capo agli Stati.

Ne discende, in particolare, il dovere di indagare l’esistenza di un legame tra motivo discriminatorio e atto di violenza. Quando sussiste un intento discriminatorio, l’autorità nazionale deve fare tutto ciò che è ragionevolmente possibile per “smascherarlo”, poiché, qualora trattasse indistintamente gli atti di violenza perpetrati con o senza la suddetta sfumatura, incorrerebbe nella violazione dell’art. 14 della Convenzione.

Nel caso di specie, il procedimento volto a siffatto accertamento è stato interrotto in forza della preclusione posta dal principio del ne bis in idem. La Corte sottolinea che l’applicazione di quest’ultimo conosce un limite espresso nell’art. 4 § 2 del Protocollo n. 7 che consente di riaprire un caso (a scapito dell’imputato) quando viene rilevato un vizio fondamentale del procedimento. Ritiene inoltre che, in alternativa al riesame, la situazione si considera sanata quando si offra una riparazione adeguata ovvero si termini o si annulli la serie di procedimenti ingiustificati.

Secondo la Corte, il vizio connesso alla grave violazione di diritti umani fondamentali non può che essere (a sua volta) fondamentale, ai sensi dell’art. 4 § 2 del Protocollo n. 7. Ne discende che i tribunali nazionali, istituendo il procedimento per reati minori ed interrompendo per motivi formali quello sui crimini d’odio, sono venuti meno al dovere di combattere l’impunità in conformità degli standard della Convenzione. Avrebbero dovuto, piuttosto, dare precedenza e preferenza al procedimento che, tra quelli avviati, era in grado di garantire i diritti della ricorrente.

 

Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 14 gennaio 2021 rich. n. 21052/18, Terna c. Italia

Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), problema sistemico di ritardi nell’esecuzione di misure adottate nell’interesse del bambino, omessa organizzazione di incontri protetti a garanzia del legame nonna-nipote.

La ricorrente è una cittadina italiana pluripregiudicata, coniugata con un uomo di etnia rom. Nel 2010, sua figlia dava alla luce una bambina. Atteso che i genitori della neonata si sottraevano all’esercizio della loro responsabilità genitoriali, la ricorrente – insieme al marito – esercitava fin da subito una custodia di fatto sulla nipote, pur non provvedendo alla denuncia anagrafica per diversi anni.

Nel 2014 il Tribunale affidava la minore al Comune di Milano, mantenendone la collocazione presso la casa della nonna, fino al 2016, quando il giudice tutelare poneva invece la bambina in un istituto di cura, sulla scorta delle relazioni negative di un esperto e del tutore. In sostanziale conferma di questo provvedimento, il Tribunale incaricava i servizi sociali di gestire i contatti tra il minore e la ricorrente. A dispetto dell’avviso favorevole dei servizi sociali, in base ad un timore che la famiglia di origine rapisse la bambina (manifestato dal tutore e condiviso dal giudice tutelare), il Tribunale sospendeva l’autorizzazione agli incontri disponendo ulteriori approfondimenti istruttori. Esaminato il merito del caso, il giudice modificava quindi la sua decisione e ordinava alle autorità competenti di garantire che gli incontri con il bambino potessero avere luogo preservando l'anonimato del luogo di collocamento della bambina. La bambina diveniva nelle more adottabile, stanti la sua condizione di abbandono materiale e morale, l’incapacità della ricorrente ad assolvere una eventuale responsabilità genitoriale nonché la perniciosità dell’ambiente criminale nel quale la minore si sarebbe trovata a crescere. La relazione tra la nonna e la bambina restava inoltre preclusa in attesa della ulteriore e specifica perizia richiesta dal giudice del gravame.

La ricorrente ha proposto il caso all’attenzione della Corte di Strasburgo lamentando di essere stata posta nell’impossibilità di esercitare e mantenere il forte legame affettivo con sua nipote: relazione affettiva invero già accertata dall’autorità, la quale aveva riconosciuto il ruolo di cura effettivamente svolto dalla donna, in qualità di figura materna di fatto.

Nel ricorso, si è espressamente sostenuto che alla base delle interferenze pubbliche vi sarebbe stato il pregiudizio verso la comunità rom, di cui i soggetti interessati fanno parte.  

Si è chiesto, dunque, alla Corte di confermare la collocazione della relazione tra nonna e nipote all’interno delle relazioni familiari protette dall'articolo 8 della Convenzione e di accertare la violazione da parte dello Stato italiano di tale norma per aver impedito la prosecuzione del rapporto.

I giudici di Strasburgo hanno ribadito come sulle Parti contraenti della Convenzione gravi non soltanto un divieto di compiere ingerenze arbitrarie ma altresì un vero e proprio obbligo positivo di assicurare il rispetto effettivo della vita privata o familiare, attraverso misure adeguate, atte a consentire la preservazione dei contatti con il bambino anche da parte del familiare non convivente, purché vi sia comprensione e cooperazione da parte di tutte le persone interessate, e sempre mantenendo come prioritario l’interesse superiore del minore.

Nel solco della consolidata giurisprudenza, tra i legami cui viene riconosciuta tutela rientra in astratto anche quello tra nonna/o e nipote, pur con le considerazioni da svolgersi caso per caso. Occorre cioè distinguere l’effettiva consistenza della relazione del minore con questa/o. Nel caso di specie, la Corte ravvisa i presupposti di uno stretto vincolo interpersonale, dovuto alle funzioni para-materne assolte dalla ricorrente fin dai primi momenti di vita della bambina.

Pur ribadendo la rispondenza del quadro giuridico nazionale agli standard di tutela imposti dalla Convenzione, si è preso atto in concreto delle omissioni della pubblica autorità nell’organizzazione degli incontri nonna-bambina.

La Corte ha ristretto il proprio sindacato sulla fase precedente alla sospensione del diritto di visita della ricorrente. In quel particolare frangente temporale, pur in presenza di un provvedimento giurisdizionale che ordinava ai servizi sociali di predisporre incontri protetti, in modo da garantire l’anonimato del luogo in cui la minore era collocata, essi si sono dimostrati inadeguati e non diligenti.

Dal canto suo, l’autorità giudiziaria ha tollerato questa inottemperanza, mancando di intervenire tempestivamente a sanare l’omissione, come invece veniva richiesto dalla ricorrente.

Le conclusioni dei giudici di Strasburgo sono state nel segno di accertare una violazione dell’art. 8 della Convenzione, che fa emergere, sul piano interno, un problema sistemico di ritardi nell’esecuzione di misure adottate nell’interesse del bambino. Come accaduto per alcuni precedenti, a finire sotto esame è l’incongruenza tra la puntuale tutela predisposta dall’autorità giurisdizionale e la negligenza sul piano esecutivo (i.e. lo scarso scrupolo dei servizi sociali nel dare seguito effettivo a quanto prescritto, e l’inerzia del giudice nello smuovere l’amministrazione).

Non sono stati accolti, viceversa, i rilievi in punto di divieto di condotte discriminatorie (art. 14), che muovevano dalla ricostruzione delle ingerenze pubbliche come ispirate da presunti pregiudizi verso l’origine etnica dei soggetti coinvolti. La Corte ha infatti riconosciuto che nessuna considerazione discriminatoria ha ispirato le determinazioni del Tribunale, che ha formato il proprio convincimento piuttosto sull’apprezzamento della incapacità della ricorrente a svolgere funzioni genitoriali e del rischio connesso alla permanenza della minore all’interno di un ambiente dedito al crimine.

Per quanto meritevole di stigmatizzazione, non integra invece alcuna condotta contraria all’art. 14 il mero atteggiamento di generale discredito verso la comunità rom manifestato dal tutore nel paventare il rischio che la bambina fosse sottratta con la forza o clandestinamente dall’istituto di cura al quale era affidata. In disparte ogni inaccettabile apprezzamento a sfondo razziale che sia stato maturato, è al riparo da smentita che il considerevole rilievo criminale dei nonni fosse indizio sufficiente a giustificare la presunzione che l’affidamento a costoro non rappresentasse la migliore soluzione per la bambina.

 

Sentenza della Corte Edu (Sezione IV) 19 gennaio 2021 ric. n. 2205/16, Keskin c. Paesi Bassi

Oggetto: art. 6 §§ 1 e 3 (equo processo), diritto di esaminare i testimoni dell’accusa, diritto di ottenere la presenza e l’esame dei testimoni della difesa, rigetto dell’istanza di citazione di testimoni dell’accusa decisivi per incapacità della difesa di motivare l’interesse al controinterrogatorio, presunzione dell’interesse dell’imputato a esaminare un testimone dell’accusa.

La Corte ha statuito la violazione dell’art. 6 §§ 1 e 3 della Convenzione.

Vahap Keskin, cittadino olandese, lamenta l’iniquità del processo in cui non ha avuto la possibilità di esaminare testimoni dell’accusa decisivi ai fini della condanna.

Nel 2013, il ricorrente è stato condannato in contumacia per condotte fraudolente perpetrate mediante società di cui aveva il controllo di fatto. Tra le prove a suo carico, il tribunale utilizzava le dichiarazioni incriminanti rese, durante gli interrogatori di polizia, da sette testimoni. Nell’atto d’impugnazione della sentenza di primo grado, il suo avvocato chiedeva l’esame di questi ultimi, istanza che, sebbene motivata, era stata respinta dai giudici di appello poiché la difesa non aveva motivato sufficientemente l’interesse al controesame, né indicato i punti delle testimonianze ritenuti erronei; inoltre, durante gli interrogatori della polizia, l’imputato aveva invocato il proprio diritto al silenzio.

L’art. 6 § 1 della Convenzione impone alla Corte di valutare l’equità del procedimento nella sua interezza, sicché il rispetto dei requisiti elencati nei paragrafi successivi deve essere esaminato tenendo conto dello sviluppo complessivo. Nel loro novero, rientra l’esame dei testimoni, sancito dall’art. 6 § 3 lett. d), disposizione che invero comprende due diritti distinti: da un lato, ottenere la presenza e l’esame dei testimoni a discarico; dall’altro, interrogare i testimoni a carico.

Quando si tratta di testimoni della difesa, la giurisprudenza convenzionale non richiede la presenza e l’esame di ogni testimone per conto dell’imputato ma di quelli la cui deposizione risulti pertinente e sufficientemente motivata, poiché la ratio della norma è quella di assicurare il principio di parità delle armi. Per vagliarne il rispetto, si procede secondo un test in tre fasi, volto ad accertare se la richiesta di esaminare un testimone era sufficientemente motivata e pertinente con l’oggetto dell’accusa, se i tribunali nazionali hanno considerato la rilevanza di quella testimonianza e fornito ragioni sufficienti per la decisione di non assumerla, se tale decisione ha compromesso o meno l’equità complessiva del procedimento.

Viceversa, quando si tratta di interrogare i testimoni dell’accusa, l’imputato non è tenuto a dimostrare l’interesse al controesame, in forza del principio del contraddittorio sulla prova e dell’importanza della deposizione in udienza ai fini dell’utilizzo per un verdetto di colpevolezza.

La Corte ha elaborato un test in tre fasi anche con riguardo ai testimoni dell’accusa. Per stabilire la compatibilità all’art. 6 della Convenzione di procedimenti in cui un testimone non abbia partecipato al processo, è necessario accertare l’esistenza di una buona ragione per la sua assenza, di fatto o di diritto; a seguire, l’univocità o la decisività delle relative dichiarazioni ai fini della condanna (con peso variabile a seconda dell’esistenza e dell’incidenza di prove a supporto); infine, l’operatività di sufficienti fattori di bilanciamento (garanzie procedurali comprese) per compensare gli svantaggi affrontati dalla difesa a seguito dell’ammissione di prove non formate in contraddittorio. Ciascuna fase è rilevante, di per sé non decisiva, e la rilevanza dialoga col peso effettivo delle prove.

Nel caso di specie, la Corte osserva che la richiesta di controinterrogare i testimoni dell’accusa è stata respinta, non per motivi quali la morte, il timore, lo stato di salute o l’irraggiungibilità dei medesimi, quanto per la constatazione che la difesa non aveva sufficientemente motivato l’interesse al controesame né indicato i profili di erroneità delle dichiarazioni rese alla polizia. Innanzitutto, si chiarisce che il diritto dell’imputato di interrogare i testimoni a suo carico non può essere subordinato alla rinuncia al diritto al silenzio. Quanto al motivare l’interesse, il principio alla base dell’esame dei testimoni dell’accusa ex art. 6 § 3 della Convenzione è che l’imputato abbia l’effettiva possibilità di contestare le prove a carico, soprattutto di esaminare oralmente chi lo incrimina, nel momento in cui la dichiarazione è resa o in una fase successiva.

Ne discende che l’interesse della difesa all’esame dei testimoni deve essere motivato se riguarda prove a discarico, mentre si presume in ordine alle prove a carico.

L’assenza di una buona ragione per la mancanza dei testimoni, sebbene fattore importante per stabilire l’iniquità complessiva del processo, deve poi essere soppesato nelle altre due fasi del test. La Corte riconosce che le deposizioni testimoniali non erano le uniche prove a carico dell’imputato ma hanno avuto significato determinante per la condanna e, in quanto non formate in contraddittorio, avrebbero dovuto essere sostenute da prove corroboranti rispetto allo specifico elemento di prova. Tale fattore di compensazione risulta assente. Non è, infine, sufficiente la compensazione assicurata dall’opportunità concessa all’imputato di contestare e confutare in udienza le dichiarazioni dei testimonî assenti.

In conclusione, l’impossibilità per la difesa di interrogare i testimoni dell’accusa ha reso il processo nel suo complesso iniquo. D’altronde, la Corte esclude la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione sotto il profilo, comunque censurato dal ricorrente, della sommarietà della motivazione con cui la Corte Suprema olandese ha rigettato l’impugnazione nazionale, sottolineando altresì come la scelta del procuratore generale di astenersi dall’emettere un parere consultivo sul ricorso per cassazione fosse irrilevante in quanto priva di effetto sull’esito del procedimento.

 

Sentenza della Corte Edu (Sezione II) 19 gennaio 2021 rich. n. 23079/11, Aktiva Doo c. Serbia

Oggetto: Articolo 1, protocollo 1 (diritto al rispetto dei beni), proporzionalità dell’ingerenza rispetto allo scopo legittimo in concreto perseguito.

La società ricorrente importava legalmente tondini di ferro per cemento armato, provvedendo agli adempimenti fiscali e doganali del caso. La merce veniva stoccata in due magazzini, dove un’ispezione ministeriale accertava il mancato rispetto di norme sulla tenuta di registri obbligatori per la commercializzazione dei beni, provocandone il sequestro temporaneo, unitamente all’avvio di un procedimento sanzionatorio contro la società ricorrente e il suo amministratore delegato (il sequestro veniva motivato in forza di due disposizioni: una norma che prevedeva il sequestro obbligatorio di merci commercializzate in assenza di una corretta registrazione, e una norma che prevedeva il sequestro temporaneo delle merci nell'ambito di un procedimento sanzionatorio di responsabilità amministrativa).

L’autorità che aveva eseguito il sequestro procedeva alla vendita delle merci, adducendo elevati costi di stoccaggio.

La società riusciva per diverse volte ad ottenere giurisdizionalmente la revisione della decisione, sempre confermata dall’ispettorato competente, nonostante il procedimento sottostante di responsabilità, dopo l’accertamento in primo grado dell’illecito, si fosse chiuso in sede di reclamo per intervenuta prescrizione.

La società contestava allora ulteriormente il sequestro proponendo ricorso davanti alla Corte costituzionale, che lo respingeva per omessa specificità della censura di incostituzionalità.

Dopo altri ricorsi interni, la Corte costituzionale annullava la decisione del tribunale amministrativo che aveva da ultimo confermato la sanzione del sequestro delle merci, provocando un riesame che si protraeva anche oltre la decisione della società di adire la Corte europea dei diritti dell’uomo denunciando la violazione dell’art. 1, prot. 1, Cedu.

La ricorrente puntava a far dichiarare che il sequestro e la vendita delle merci erano stati illegali e avevano costituito una privazione del suo diritto. La responsabilità nel procedimento amministrativo non era mai stata determinata in modo definitivo; il sequestro era sproporzionato a fronte della mancata determinazione di un effettivo danno causato dalla società; la celerità con cui le merci erano state svendute era priva di giustificazione (per assenza di un rischio di deterioramento o di costi elevati di deposito).

Sulla legittimità dell’interferenza, la Corte tradisce le proprie perplessità verso lo scopo asseritamente perseguito dal Governo, ossia la protezione contro la vendita non autorizzata e non registrata di merci, che avrebbe potuto comportare gravi conseguenze economiche per il bilancio dello Stato: a ben vedere, la norma successivamente intervenuta a modificare la disposizione applicata al caso di specie non prevede più il sequestro delle merci per il solo fatto che alcune di esse siano commercializzate senza debita registrazione, sicché deve dubitarsi della effettiva consistenza delle paventate gravi conseguenze economiche dell’omissione.

Le attenzioni della Corte si concentrano tuttavia sul sindacato di proporzionalità dell’ingerenza rispetto allo scopo legittimo dichiarato: l’interferenza dovrebbe corrispondere alla gravità dell'infrazione in concreto accertata (che essa è destinata a punire), piuttosto che alle gravi conseguenze solo potenziali.

I giudici di Strasburgo hanno sottolineato la circostanza che le merci oggetto di sequestro fossero state importate legalmente, a differenza di alcuni significativi precedenti in cui una misura di tenore analogo aveva riguardato beni di cui era vietata l'importazione o beni acquisiti illegalmente o destinati ad essere utilizzati in attività illegali o beni di probabile provenienza illecita.

La Serbia ha mancato di valutare se il medesimo scopo legittimo avrebbe potuto essere raggiunto con altri mezzi. Dal momento che il sequestro non ha perseguito uno scopo riparatorio (perché non è stato accertato alcun danno) né era idoneo a conseguire una finalità deterrente quanto soltanto punitiva, nella prospettiva del diritto convenzionale esso è da ritenersi sproporzionato e, dunque, avvenuto in violazione dell’art. 1, prot. 1, Cedu.

Riservata la questione del danno materiale in modo da favorire l’accordo tra lo Stato convenuto e la società ricorrente, la Corte esclude di dover riconoscere un danno morale, avendo la società – mediante l’inosservanza delle disposizioni sulla tenuta dei registri – concorso a determinare la situazione che ha dato luogo alla violazione, il cui accertamento da parte dell’organo può quindi essere considerato una forma sufficiente di riparazione.

 
Sentenza della Corte Edu (Sezione IV) 19 gennaio 2021 rich. nn. 2145/16 e 20607/16, X e Y c. Romania

Oggetto: Articolo 8 (rispetto della vita privata), violazione, obblighi positivi, rifiuto delle autorità nazionali di riconoscere l’identità maschile delle persone transgender in assenza di un intervento chirurgico di cambio del sesso, integrità fisica, efficacia del procedimento, giusto equilibrio.

Il caso riguarda la situazione di due persone transgender che si sono viste rifiutate le richieste di riconoscimento della loro identità di genere – da femminile a maschile – con relativa correzione amministrativa dei dati anagrafici. Tale rifiuto è stato motivato dalle competenti autorità affermando che nelle richieste non era stata fornita adeguata prova di aver effettuato l’intervento chirurgico per il cambio del sesso.  

Il ricorrente X ha presentato un ricorso al Tribunale distrettuale chiedendo non tanto l’autorizzazione per un intervento chirurgico di cambiamento di sesso - che, a suo parere, costituiva una grave interferenza con l’integrità fisica di un individuo - ma piuttosto di essere autorizzato a far modificare gli atti di stato civile. A sostegno di tale richiesta il ricorrente ha prodotto tre certificati medici attestanti le sue sofferenze per un disturbo dell’identità di genere. Il Tribunale – la cui decisione è stata confermata in appello - ha giudicato irricevibile il ricorso, in quanto non era stato effettuato un intervento chirurgico di mutamento del sesso. Dopo la decisione del Tribunale X si è trasferito nel Regno Unito dove ha ottenuto nomi maschili per atto notarile.

Il ricorrente Y ha presentato un ricorso al Tribunale distrettuale chiedendo l’autorizzazione a sottoporsi a un intervento chirurgico di riassegnazione del sesso da femmina a maschio, il cambiamento del nome sui relativi documenti amministrativi e il cambiamento del codice di identità digitale personale. Il Tribunale ha dichiarato che una volta eseguito l'intervento chirurgico di riassegnazione del sesso, il ricorrente avrebbe avuto il diritto di chiedere alle autorità amministrative un cambio di nome. Successivamente, Y ha presentato un altro ricorso senza chiedere l’autorizzazione all'intervento chirurgico di riassegnazione del sesso. Il tribunale distrettuale ha respinto il ricorso in quanto non era stato eseguito alcun intervento chirurgico di riassegnazione del sesso. Y si è così sottoposto all’intervento chirurgico per rimuovere gli organi riproduttivi interni femminili. Dopo l’intervento il ricorrente ha presentato un ulteriore ricorso al Tribunale che è stato accolto, autorizzando il cambiamento di sesso sui documenti di identità del ricorrente, il cambiamento del nome e la modifica del codice d’identità digitale del ricorrente e dei dati contenuti nel registro di stato civile e nel certificato di nascita.

Entrambi i ricorrenti hanno lamentato la violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e, soltanto X anche la violazione dell’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) della Convenzione. Lo Stato rumeno non ha stabilito un quadro giuridico chiaro per il riconoscimento giuridico del cambiamento di sesso. L’obbligo di sottoporsi a un intervento chirurgico di mutamento del sesso - con il conseguente rischio di sterilizzazione - come prerequisito per un cambiamento del loro stato civile rappresenta un’interferenza priva di una base giuridica, che non persegue un fine legittimo e non è necessaria in una società democratica.

La Corte ha innanzitutto confermato l’applicabilità dell’articolo 8 della Convenzione al caso di specie, ritenendo assorbite tutte le altre violazioni lamentate dai ricorrenti. In punto di ricevibilità del ricorso, la Corte rigettato l’eccezione di difetto dello status di vittima del ricorrente Y, sul presupposto che nonostante questi abbia infine ottenuto l’autorizzazione al cambiamento della sua identità di genere nei documenti anagrafici, questo provvedimento favorevole non è di per sé sufficiente a riparare la violazione della Convenzione.

Nel merito, la Corte ha esaminato le accuse relative alla negazione rettifica amministrativa del sesso, dal punto di vista degli obblighi positivi di adottare un quadro normativo chiari che garantisca una efficacemente il rispetto dell’identità di genere degli individui[2]. In linea di principio, l’introduzione di procedure rigorose volte a verificare le ragioni alla base di una domanda di cambiamento legale di identità, sono giustificate dall’esigenza di salvaguardia del principio di indisponibilità dello stato personale, di garantire l’affidabilità e la coerenza dello stato civile e, più in generale, l’esigenza della certezza del diritto. Nonostante la legge rumena non prevedesse una procedura giudiziale specifica per le domande di riconoscimento giuridico del cambiamento di sesso, come avviene in altri paesi[3], questa sia comunque implicitamente ammessa a livello giurisprudenziale. Ad avviso della Corte, si tratta però di quadro giuridico non chiaro e, quindi, imprevedibile. In particolare, nonostante il diritto interno non preveda alcun obbligo di sottoporsi a un preventivo intervento chirurgico di conversione sessuale sugli organi genitali, o di ottenere una preventiva decisione giudiziale che lo autorizzi, tale elemento viene considerato da una parte della giurisprudenza come ostativo del mutamento amministrativo dell’identità di genere.

Una tale limitazione lede il diritto all’autodeterminazione dei ricorrenti e, in particolare, la loro volontà di non doversi sottoporre agli interventi chirurgici senza un preventivo riconoscimento a livello amministrativo del cambiamento di sesso. D’altra parte, nessuna ragione di interesse generale non è addotta dai tribunali di merito a sostegno del rifiuto di far corrispondere l’identità di genere dei ricorrenti con l’iscrizione corrispondente nei registri civili.

Per tali ragioni, la Corte ha ritenuto che il rifiuto delle autorità nazionali di riconoscere legalmente il cambiamento di sesso dei ricorrenti in assenza di un intervento chirurgico di riassegnazione del sesso abbia violato ingiustificatamente il diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata.

 
Sentenza della Corte Edu (Sezione IV) 19 gennaio 2021 rich. nn. 14065/15, Lăcătuş c. Svizzera

Oggetto: Articolo 8 (rispetto della vita privata), violazione, multa inflitta a una persona rom indigente e vulnerabile, reclusione di cinque giorni per mancato pagamento, pena grave, automatica e quasi inevitabile, assenza di interesse pubblico, misura sproporzionata, possibilità di misure meno restrittive, margine di apprezzamento, European consensus.

La ricorrente è una cittadina rumena appartenente alla comunità rom, che ha ricevuto diverse ingiunzioni per il pagamento di una serie di multe per aver mendicato per le strade di Ginevra a seguito della situazione di indigenza in cui versava. In una di queste occasioni, le è stata confiscata una somma di 16,75 franchi (circa 15,50 euro) dopo una perquisizione corporale da parte della polizia. La ricorrente ha presentato ricorso contro le ordinanze penali, e il Tribunale l’ha dichiarata colpevole di accattonaggio, condannandola a pagare una multa di 500 franchi, da sostituire con una pena detentiva di cinque giorni in caso di mancato pagamento. Anche i successivi ricorsi sono stati respinti e la ricorrente è stata detenuta in carcere per il mancato pagamento della multa.

La ricorrente sostiene che il divieto di mendicare in luoghi pubblici costituiva un’interferenza irragionevole nella sua vita privata protetta dall’articolo 8 della Convenzione, in quanto la privava dei suoi mezzi di sussistenza, nonché una violazione della sua libertà di espressione ai sensi dell’articolo 10 della Convenzione. Infine, invocando l’articolo 14 (divieto di discriminazione) in combinato disposto con l’articolo 8, la ricorrente sostiene di essere stata vittima di una discriminazione fondata sulla sua situazione sociale e finanziaria e sulle sue origini.

La Corte ha concentrato il suo giudizio sulla violazione dell’articolo 8 della Convenzione, non ritenendo che l’articolo 10 e gli articoli 8 e 14 tra loro in combinato disposto ponessero questioni meritevoli di distinta trattazione. Con riferimento al diritto al rispetto della vita privata, non risultando sussistere precedenti in materia, la Corte ha valutato che la condotta dell’autorità svizzera rientrasse nell’ambito di applicazione dell’articolo 8, alla luce nozione di “vita privata”, che comprende anche il diritto allo sviluppo personale, il diritto a stabilire e mantenere relazioni con altri esseri umani, compreso il diritto di rivolgersi ad altri per chiedere aiuto.

Nel merito, la Corte ha riconosciuto la sussistenza di una solida base legale della misura statale e che questa perseguisse gli scopi legittimi di protezione dell’ordine pubblico e della sicurezza dei consociati, talvolta molestati dai comportamenti di accattonaggio, nonché di lotta al fenomeno dello sfruttamento delle persone vulnerabili, quali i bambini, impiegati nelle attività che la misura mira a reprimere. La Corte ha, invece, ritenuto violato il requisito la necessità della misura in una società democratica sulla base di tre principali argomenti.

In primo luogo, la legge non consente una valutazione di giusto equilibrio in quanto impone una pena generale alle persone che praticano l’accattonaggio, senza consentire un corretto bilanciamento degli interessi in gioco nel caso concreto e senza dare opportuno rilievo alla condizione di vulnerabilità dell’autore, alla natura dell’attività di accattonaggio e al suo carattere aggressivo o innocuo, dal luogo in cui viene praticato o dall'appartenenza o meno dell'imputato a una rete criminale.

Inoltre, la Corte ha fatto applicazione dell’argomento dell’European consensus per ridurre il margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato circa la valutazione di opportunità di introdurre un divieto penale generalizzato di accattonaggio: questa attività è infatti espressamente sanzionata soltanto in altri 18 stati membri del consiglio di Europa, i quali hanno introdotto sanzioni penali soltanto per condotte aggressive o intrusive di accattonaggio o comunque hanno limitato e circoscritto in altro modo la portata del divieto. Un divieto generale penalmente rilevante, come quello vigente in Svizzera, costituiva quindi un’eccezione rispetto alla tendenza generale del Consiglio d’Europa.

La Corte ha, infine, effettuato una concreta ponderazione degli interessi in gioco nel caso concreto, attribuendo rilevanza alla particolare condizione di vulnerabilità economica e sociale della ricorrente, la natura e la severità della pena (detentiva) inflitta, l’assenza in concreto di interessi pubblici da tutelare e la possibilità di adottare misure meno gravose per perseguire i suddetti interessi.

Per tali ragioni, la Corte ha concluso che la misura non fosse necessaria in una società democratica, constatando la violazione del rispetto alla vita privata della ricorrente ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 28 gennaio 2021 rich. n. 74515/13, Alfa Glass Anonymi Emboriki Etairia Yalopinakon c. Grecia

Oggetto: articolo 1, protocollo 1 (diritto al rispetto dei beni), determinazione dell'indennità di esproprio, presunzione di un vantaggio apportato dall’opera ai beni non espropriati, principio del procedimento unico.

Una società greca si doleva del fatto che, in sede di determinazione dell’indennità di esproprio relativa ad alcuni terreni destinati ad ospitare la costruzione di una strada, i giudici interni le avessero impedito di sindacare l’applicazione di una presunzione secondo cui parte del depauperamento prodotto dall’esproprio fosse, in verità, autocompensato dal beneficio derivante dalla realizzazione dei lavori riflesso sul valore degli altri terreni della stessa società non espropriati, che acquistavano un affaccio sulla strada costruita. L’interessata avrebbe, infatti, dovuto previamente servirsi di un procedimento speciale amministrativo per contestare questa presunzione.

Nel risolvere la controversia, la Corte ha fatto richiamo alla propria consolidata giurisprudenza che prescrive il principio del procedimento unico in materia, cioè il principio in ossequio al quale la medesima procedura dovrebbe costituire la sede in cui far valere ogni questione comunque connessa all’espropriazione e, dunque, relativa alla determinazione dell’indennità.

 
[1] Magyar Helsinki Bizottság c. Ungheria [GC], n. 18030/11, § 194, 8 novembre 2016; Von Hannover c. Germania (n. 2) [GC], nn. 40660/08 e 60641/08, § 110, 07 febbraio 2012.

[2] Cfr. Hämäläinen c. Finland [GC], no 37359/09, 16 luglio 2014.

[3] La Corte ha espressamente menzionato la sentenza S.V. c. Italia, no. 55216/08, § 64, 11 ottobre 2018, in cui si è riconosciuto allo Stato italiano di adottare una procedura specifica e certa per le domande di riconoscimento giuridico del cambiamento di sesso.

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
 
Emilio Bufano, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa

23/04/2021
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