Le più rilevanti sentenze di maggio della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardano principalmente l’equità del procedimento sotto diversi profili, tra gli altri, in tema di contrasti giurisprudenziali, diritto di difesa e ragionevolezza della durata del procedimento. La Corte Edu statuisce inoltre una condanna nei confronti dello Stato belga per pregiudizio alla dignità umana, a causa delle condizioni di detenzione. Numerose pronunce attengono al diritto sancito dall’art. 8, diritto al rispetto della vita privata e familiare, spesso violato per l’assenza di un effettivo bilanciamento dei vari interessi in campo. Infine, la Corte di Strasburgo è chiamata a pronunciarsi sull’art. 3 del Protocollo addizionale, relativo al diritto a libere elezioni, nello specifico alla composizione del corpo parlamentare.
Sentenza della Corte Edu (Sezione IV) 28 maggio 2019 rich. nn. 26564/16, Clasens c. Belgio
Oggetto: articolo 3 (proibizione della tortura), articolo 13 (diritto a un ricorso effettivo), condizioni materiali di detenzione, sciopero dell’autorità penitenziaria, dignità umana.
La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 3 e dell’art. 13, in combinato disposto con l’art. 3.
Nell’aprile 2016, uno sciopero della polizia penitenziaria coinvolse le carceri di Bruxelles e della regione della Wallonia: non furono garantiti i servizi minimi, in modalità diverse a seconda delle carceri. Di conseguenza, il sig. Clasens, ricorrente belga, detenuto nella prigione di Ittre, nel maggio 2016 presentò un ricorso al Presidente del Tribunale di primo grado, denunciando le condizioni detentive e chiedendo che venisse condannato lo Stato belga a ripristinare il regime ordinario. Il giorno successivo arrivò la condanna nei confronti dello Stato, con l’obbligo di ristabilire i diversi servizi, prevedendo una multa di 10.000 euro, qualora la sentenza non venisse tempestivamente eseguita. Il ricorrente chiese dunque il pagamento di tale multa, visto l’inadempimento da parte dello Stato. Lo Stato perciò ricorse in appello, dove venne confermata l’ordinanza di primo grado, che si limitò a ridurre l’entità della multa. La Corte d’Appello evidenziò la gravità delle condizioni di detenzione, tali da costituire una violazione dell’art. 3 della Convenzione Edu. Lo sciopero nell’istituto del ricorrente si concluse nel giugno 2016, istituto in cui il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti effettuò una visita ad hoc.
Il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 3, per le condizioni materiali di detenzione impostegli durante il periodo di sciopero, e dell’art. 13, per non aver beneficiato del suo diritto ad un ricorso effettivo.
La Corte Edu, tenendo conto delle condizioni sofferte dai detenuti durante lo sciopero, testimoniate da diversi soggetti, tra cui la Corte d’Appello, ritiene che vi sia stato pregiudizio alla dignità umana. Per un periodo di due mesi, i detenuti non hanno beneficiato di attività esterne alla cella, vista l’ora d’aria assicurata solamente ogni tre giorni, sono state violate le regole di igiene, è stato limitato il contatto con il mondo esterno (telefonate, visite, colloqui con il difensore), e, più in generale, non sono stati soddisfatti i bisogni primari. Tali sofferenze, subite dai detenuti, senza che venisse comunicata loro la durata dello sciopero, dunque il protrarsi di tali condizioni, hanno perciò raggiunto il livello previsto dall’art. 3, costituendo trattamenti degradanti. Sul profilo dell’art. 13, i giudici di Strasburgo riconoscono una violazione, l’inefficacia del ricorso, legata ai problemi strutturali provocati dallo sciopero. L’esecuzione della decisione favorevole al ricorrente non è stata realizzata per l’assenza di una struttura che assicurasse la continuità dell’operato dell’autorità penitenziaria.
La Corte ha perciò riconosciuto la violazione dell’art. 13, in combinato disposto con l’art. 3, non avendo il ricorrente potuto beneficiare del suo diritto ad un ricorso effettivo.
Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 23 maggio 2019 rich. nn. 17257/13, Sine Tsaggarakis A.E.E. c. Grecia
Oggetto: articolo 6 § 1 (diritto a un equo processo), contrasti giurisprudenziali, principio del legittimo affidamento, principio della tutela dell’ambiente, funzione nomofilattica delle giurisdizioni superiori.
La Corte ha statuito, a maggioranza di cinque voti contro due, che vi è stata violazione dell’art. 6 § 1.
La società Sine Tsaggarakis A.E.E., fornitrice di servizi di intrattenimento ed esercente di un cinema multiplex a Iráklion, nel 2007 fece ricorso al fine di ottenere l’annullamento di un permesso di costruire e di svolgere l’attività, rilasciato a società concorrenti e relativo a una struttura dello stesso genere in un quartiere limitrofo. Da un lato, la ricorrente sosteneva che il piano urbanistico destinasse quelle aree alla costruzione di abitazioni private (le autorità dunque non avevano considerato attentamente le condizioni previste dai regolamenti per la tutela dell’ambiente), dall’altro, lamentava che il servizio fornito da un altro multiplex in prossimità avrebbe costituito una concorrenza sleale. Nel 2009, la quarta sezione del Consiglio di Stato affermò, in nome del principio della tutela del legittimo affidamento, che la legittimità dell’autorizzazione a costruire non potesse essere contestata o riesaminata al momento della concessione del permesso di esercizio. Vi fu però divergenza di giurisprudenza tra la quarta e la quinta sezione del Consiglio, la quale prevedeva tale possibilità, ossia un riesame del permesso anche al momento dell’autorizzazione a svolgere l’attività; di conseguenza venne rinviata la questione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, competente a risolvere contrasti giurisprudenziali. Nonostante la decisione dell’Adunanza plenaria, la quale sosteneva la linea della quinta sezione, richiamando il principio costituzionale della tutela dell’ambiente, la quarta sezione non accolse tale interpretazione e rigettò il ricorso. Al contempo, nel 2008, la società ricorrente domandò all’ufficio competente del Comune di apporre i sigilli al multiplex concorrente. Di fronte all’inerzia dell’amministrazione, la società Sine Tsaggarakis ricorse al Consiglio di Stato: nel 2014, la quinta sezione statuì l’obbligo da parte del Comune di apporre i sigilli, ma l’amministrazione non eseguì la decisione. Il multiplex è tuttora in attività.
La società ricorrente lamenta perciò la violazione dell’art. 6 § 1, sostenendo l’iniquità della causa, richiamando il principio della certezza del diritto e dell’imparzialità del giudice.
La Corte Edu riconosce l’esistenza di una “divergenza profonda e persistente” tra le sezioni del Consiglio di Stato e sottolinea che il ruolo di una giurisdizione superiore consiste nel “regolare i contrasti giurisprudenziali tra le giurisdizioni di merito nell’ambito dello stesso ordine di giurisdizione”. L’Adunanza plenaria è stata infatti chiamata a decidere se il principio della tutela del legittimo affidamento dovesse prevalere o meno sul principio della tutela dell’ambiente: concluse, in linea con la quinta sezione, sostenendo la prevalenza del principio costituzionale sul principio del legittimo affidamento. Nonostante le due sezioni siano state adite in modo tecnicamente differente, i due ricorsi, secondo i giudici di Strasburgo, perseguivano lo stesso scopo. La divergenza tra le sezioni, che, nonostante la pronuncia dell’Adunanza plenaria, persiste da molto tempo, e si è aggravata con il rifiuto dell’amministrazione locale, ha violato il principio di certezza del diritto e ciò, secondo la Corte Edu, dimostra l’inefficienza del meccanismo di armonizzazione della giurisprudenza, proprio del Consiglio di Stato.
I giudici della prima sezione della Corte hanno perciò riconosciuto la violazione del principio della certezza del diritto e, di conseguenza, la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 23 maggio 2019 rich. nn. 51979/17, Doyle c. Irlanda
Oggetto: articolo 6 § 1 (diritto a un equo processo), articolo 6 § 3 lett. c) (diritto all’assistenza di un difensore di fiducia), ergastolo, presenza del difensore durante gli interrogatori, restrizione relativa del diritto di difesa, equità complessiva del procedimento.
La Corte ha statuito, a maggioranza, che non vi è stata violazione degli artt. 6 § 1 e 6 § 3.
Il ricorrente, un cittadino irlandese, condannato all’ergastolo e detenuto a Dublino, venne arrestato nel 2009, perché coinvolto nella morte di un uomo, verificatasi l’anno precedente. Gli furono fornite tutte le informazioni in merito ai suoi diritti, nonché l’assistenza di un avvocato, con cui ebbe un colloquio prima di essere interrogato dalla polizia. Il sig. Doyle venne interrogato a più riprese: ebbe la possibilità di consultare il suo legale rappresentante tra un’audizione e quella successiva, di persona o via telefono; venne, ad esempio, sospesa un’audizione al fine di permettere una consultazione con il rappresentante, tuttavia, al difensore non fu mai permesso di presenziare agli interrogatori. Al quindicesimo interrogatorio, il ricorrente confessò di aver ucciso la vittima, oltre ad una serie di informazioni circa l’omicidio. Venne poi interrogato a numerose riprese. Nel 2012, durante il processo a suo carico, il ricorrente chiese che fossero estromesse dal dossier le confessioni rese, affermando di essere stato indotto a tali confessioni, di aver ricevuto minacce e, soprattutto, di aver visto negato il suo diritto all’assistenza tecnica alla difesa. Non solo l’eccezione venne rigettata, ma il sig. Doyle venne condannato all’ergastolo. L’appello e il ricorso alla Corte Suprema, promossi dal ricorrente, ebbero il medesimo risultato. La Corte Suprema, tuttavia, fece un’analisi approfondita in merito al rispetto o meno del diritto di accesso ad un avvocato durante gli interrogatori condotti dalla polizia.
Il ricorrente sostiene la violazione dei paragrafi 1 e 3 dell’articolo 6 della Convenzione: poiché gli è stata negata la presenza del difensore durante gli interrogatori, egli ritiene che lo Stato irlandese non abbia assicurato un processo equo e, più specificamente, che le giurisdizioni interne lo abbiano privato di qualsiasi mezzo di difesa durante il procedimento.
I giudici di Strasburgo ricordano, anzitutto, che il diritto all’assistenza di un difensore costituisce uno degli elementi fondamentali del diritto a un equo processo, sancito dall’art. 6. Si analizza, perciò, tale principio sotto due differenti profili: da un lato, la Corte Edu esamina l’esistenza di giustificati motivi circa la restrizione del diritto di difesa, dall’altro, si valuta l’equità della procedura considerata nel complesso.
Per quanto riguarda il primo profilo, i giudici della Corte osservano che il ricorrente ha beneficiato dell’assistenza di un avvocato che, tuttavia, non ha potuto presenziare di persona durante gli interrogatori. Secondo la Corte, il ricorrente ha potuto, ogniqualvolta fosse necessario, interpellare il proprio difensore, nonostante l’assenza fisica di questo; inoltre, tutti gli interrogatori sono stati registrati su un supporto video, elementi che sono state poi esaminati dalle corti interne. Di conseguenza, nonostante sia palese la restrizione del diritto di difesa del ricorrente, la Corte Edu riconosce tale restrizione come relativa: una limitazione che costituiva una pratica generalizzata da parte delle forze dell’ordine, che non è stata dunque effettuata su scala individuale. In conclusione, sul primo profilo, la Corte afferma che le restrizioni non sono state giustificate da valide motivazioni. Sull’equità generale della procedura, considerata complessivamente, la Corte, in primis, non considera il ricorrente un soggetto particolarmente vulnerabile; inoltre, afferma che l’esame degli interrogatori condotti dalla polizia, effettuato dalle corti interne, è stato preciso e svolto con una cura tale da non dover mettere in dubbio la valutazione, secondo la quale la confessione non è scaturita dalle minacce da parte della polizia. Al sig. Doyle è stato possibile, in tutte le fasi del procedimento, contestare l’ammissibilità degli elementi di prova e opporsi al loro utilizzo. In aggiunta, la Corte ragiona sull’interesse pubblico coinvolto: una tale procedura può essere stata giustificata dalla gravità del fatto per cui è imputato, ossia l’omicidio di un soggetto capitato innocentemente nel mirino di due gangs, per un errore di identità. Oltretutto, se è vero che non è stata garantita la presenza del difensore, durante gli interrogatori, secondo i giudici della prima sezione sono state assicurate altre garanzie, come ad esempio le videoregistrazioni, che vennero sottoposte all’analisi dei magistrati. Nonostante la Corte Suprema abbia dimostrato impegno nell’integrare la giurisprudenza della Corte Edu in tema di accesso al diritto di difesa, la prima sezione osserva come il pensiero maggioritario sia (erroneamente) orientato nel senso di non consentire la presenza fisica dell’avvocato durante gli interrogatori della polizia. Tuttavia, i giudici di Strasburgo riconoscono che la prassi, da allora, è cambiata. Valutato l’effetto che tale restrizione ha avuto sul procedimento complessivo, la Corte Edu conclude che l’equità del processo, inteso globalmente, non è stata “irrimediabilmente pregiudicata”.
La Corte, dunque, ha statuito la non violazione dell’articolo 6 paragrafi 1 e 3 lett. c).
Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 2 maggio 2019 rich. nn. 50956/16, Pasquini c. San Marino
Oggetto: articolo 6 § 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza), società fiduciaria, giuramento suppletorio, diritto a che la causa sia esaminata, imparzialità del giudice, spese di giustizia, diritto all’appello.
La Corte ha statuito, all’unanimità, la non violazione dell’art. 6 § 1.
Enrico Maria Pasquini, cittadino italiano, era proprietario ed amministratore di una società fiduciaria, S.M.I., con sede a San Marino. Nel 1990, comprò alcune quote di una società per conto di un soggetto, B., per poi rivenderle. B. lamentò di non aver ricevuto l’intera somma deii proventi della vendita: nello specifico, si affermava creditore di 9,04 miliardi di lire italiane. Di conseguenza, B. agì in giudizio e prestò giuramento suppletorio, a sostegno del suo credito; credito confermato poi dal tribunale. Pasquini accusò penalmente la controparte per false dichiarazioni prestate sotto giuramento; tuttavia, il g.i.p. archiviò il caso per insufficienza di prove, esito ribadito anche in appello. Nell’ottobre 2014, il ricorrente chiese la riapertura del processo civile, introducendo un’azione di accertamento negativo, con cui richiedeva al giudice di dichiarare la colpevolezza di B. per falso giuramento. Tale procedimento fu rinviato alla Corte per il Trust e i Rapporti Fiduciari dove, costituito un collegio giudicante, nonostante l’accoglimento parziale della domanda, venne rigettata la richiesta del ricorrente di ridurre il debito. In aggiunta, il presidente della Corte non diede l’autorizzazione all’appello, sostenendo che mediante l’impugnazione non si sarebbe sollevata alcuna questione di diritto.
Il ricorrente lamenta, dunque, la violazione dell’art. 6 § 1, ritenendo che il giuramento suppletorio avrebbe limitato il suo diritto a un processo equo, accusando il collegio della Corte per il Trust di non essere stato costituito secondo le norme di legge e sostenendo la parzialità dei giudici che hanno negato l’autorizzazione all’appello, nonché la violazione del diritto di accesso a un tribunale.
La Corte Edu esamina i diversi profili richiamati dal ricorrente: sulla procedura relativa al giuramento suppletorio, la prima sezione evidenzia la chiara indipendenza dei due procedimenti, innanzi al Tribunale civile e alla Corte per il Trust, oltre al fatto che i ricorrenti dei due procedimenti erano differenti, rispettivamente B. nel primo e Pasquini nel secondo. Poiché la decisione finale in merito al giuramento suppletorio figura nel giugno 2011 e Pasquini ha introdotto la domanda alla Corte Edu nel 2016, la Corte rigetta la richiesta poiché non è stato rispettato il termine di sei mesi.
Il collegio giudicante della Corte per il Trust è stato considerato costituito per legge: la Corte Edu infatti sottolinea come la normativa interna preveda la possibilità, per il Presidente, di scegliere la composizione dell’autorità giudicante, vale a dire un singolo giudice, un collegio o in formazione plenaria. Le disposizioni interne, dunque, non limitano la scelta del Presidente della Corte, il quale ha scelto un collegio di due giudici, possibilità non espressamente vietata. La Corte ritiene dunque rispettato l’art. 6 § 1, avendo il Presidente agito nei limiti del suo margine di apprezzamento.
In merito all’imparzialità del giudice della Corte per il Trust, i giudici di Strasburgo affermano che il ricorrente avrebbe dovuto esperire le vie di ricorso interne, prima di rivolgersi alla Corte Edu. Mentre, per quanto concerne l’imparzialità del giudice L.F., autorità giudicante in diverse procedure civili e penali riguardanti gli stessi fatti, la Corte esamina entrambi i profili, vale a dire l’imparzialità soggettiva e oggettiva. Non vi sono giustificazioni né soggettive né oggettive per temere una carenza di imparzialità. Inoltre, premettendo che il diritto di accesso a un tribunale non può ritenersi assoluto e il ricorso ad una giurisdizione superiore può essere soggetto a particolari condizioni, la Corte Edu ritiene la limitazione all’appello giustificata dal principio della buona amministrazione della giustizia, nonché dalle previsioni di legge. Di conseguenza, la Corte non riconosce alcuna sproporzione che abbia portato ad una violazione del diritto a che la causa sia esaminata. Tale profilo viene dunque dichiarato irricevibile.
Infine, sulla violazione del diritto di accesso ad un tribunale per quanto riguarda le spese di giustizia, la Corte non ritiene che l’entità delle spese abbia minato alla sostanza del diritto del ricorrente a che la causa sia esaminata.
In conclusione, la Corte statuisce la non violazione dell’art. 6 § 1.
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Sentenza della Corte Edu (Sezione II) 28 maggio 2019 rich. nn. 173/15 (e altre cinque richieste), Liblik e altri c. Estonia
Oggetto: articolo 6 § 1 (diritto a che la causa sia esaminata equamente ed entro un termine ragionevole), articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), sorveglianza segreta, ragionevolezza della durata del processo per le particolari circostanze del caso, motivazioni a posteriori, ingerenza dello Stato.
La Corte ha statuito, all’unanimità, la non violazione dell’articolo 6 § 1 e la violazione dell’articolo 8 relativa ad alcuni ricorrenti.
Nel caso Liblik e altri c. Estonia i ricorrenti sono quattro cittadini estoni e due società con sede a Tallinn. Nell’intervallo di tempo tra agosto 2005 e ottobre 2006, le autorità di pubblica sicurezza condussero indagini sulle attività dei primi tre ricorrenti. Il terzo ricorrente era membro del consiglio di sorveglianza di entrambe le società. Le autorità, nell’ambito delle attività di indagine, intercettarono e vennero a conoscenza di conversazioni tra i primi tre soggetti ed il quarto ricorrente: sospettati di corruzione ad alti livelli, in un quadro di operazioni di scambio di appezzamenti di terreni, situati in zone protette, con altri appezzamenti, situati in zone edificabili. Nel settembre 2005, il secondo ricorrente scoprì che un dispositivo di sorveglianza era stato collocato nel suo ufficio; negli anni successivi, le autorità perquisirono gli uffici del primo e terzo ricorrente, nonché quelli delle due società. La fase delle indagini preliminari durò, complessivamente, tre anni e mezzo. Nel maggio 2009, il Tribunale di Harju cominciò ad esaminare il caso, convocando i testimoni; tuttavia, il processo si protrasse nel tempo anche per circostanze personali degli imputati e dei loro difensori. Gli imputati furono assolti in primo grado: il tribunale sostenne il carattere illegale delle attività di sorveglianza e considerò tutti gli elementi di prova irricevibili. Il pubblico ministero fece ricorso in appello e, nel giugno 2013, la sentenza venne ribaltata: le attività di indagine vennero considerate legittime, le prove ricevibili e gli imputati vennero condannati. La Corte Suprema confermò la decisione della Corte d’Appello, nel giugno 2014, valutando attentamente la ragionevolezza della durata del procedimento, considerato lungo dalla Corte stessa, ma, ad ogni modo, portato a termine in un tempo ragionevole. La Corte Suprema evidenziò, poi, la costituzionalità della legislazione in materia di “sorveglianza segreta” ed affermò che le attività effettuate nel caso in questione avevano rispettato le condizioni di applicabilità.
I ricorrenti, dunque, lamentano la violazione degli artt. 6 § 1 e 8 della Convenzione: da un lato, denunciano la durata del procedimento, considerandola eccessiva, dall’altro, alcuni ricorrenti considerano violato il loro diritto al rispetto della vita privata, data la motivazione a posteriori, fornita dalle autorità, in materia di sorveglianza segreta.
La seconda sezione della Corte ammette l’eccessiva durata del procedimento, tra i sei e gli otto anni, ma riconosce l’attenta valutazione della Corte Suprema, che ha svolto un esame approfondito, in linea con i criteri della giurisprudenza della Corte Edu. Il caso è risultato particolarmente complesso, per il numero di persone coinvolte, nonché per le complesse interazioni tra i vari soggetti; inoltre, si ricorda il differimento, causato da circostanze personali, dell’esame di alcuni imputati. La Corte Edu ritiene che non vi siano state inadeguatezze nelle attività di polizia, compiute con diligenza. I giudici di Strasburgo riconoscono che la durata della procedura possa aver creato pregiudizi ai ricorrenti: tuttavia, gli status personali, ad esempio di politici, soggetti aventi funzioni pubbliche, uomini d’affari, non possono giustificare un trattamento prioritario. Di conseguenza, la Corte Edu non riscontra alcuna violazione ex art. 6 § 1, considerando la durata del procedimento ragionevole per le particolari circostanze del caso.
La Corte valuta, inoltre, se l’ingerenza da parte dello Stato abbia violato o meno il diritto al rispetto della vita privata: i magistrati della fase istruttoria hanno allegato alle autorizzazioni di sorveglianza delle motivazioni superficiali, afferma la Corte, e l’accusa ha omesso le ragioni a fondamento della decisione di procedere a tali attività. Come deciso nella sentenza Dragojević c. Croazia, caso in cui i giudici interni avevano ammesso che le autorità fornissero giustificazioni a posteriori, la Corte afferma che la protezione conferita da un previo controllo e da motivazioni allegate ex ante perde di efficacia qualora vi sia la possibilità di fornire giustificazioni a posteriori. Di conseguenza, la Corte Edu conclude che, non essendo la possibilità di motivare ex post le autorizzazioni ad attività di sorveglianza segreta ammessa dalla legge, vi è stata violazione dell’art. 8: l’ingerenza da parte dello Stato nell’esercizio di tale diritto non era prevista dalla legge. La violazione è stata riconosciuta nei confronti di due ricorrenti e delle due società.
Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 2 maggio 2019 rich. nn. 19601/16, Adžić c. Croazia (n. 2)
Oggetto: articolo 6 § 1 (diritto a un equo processo), articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), oralità del processo, Convenzione dell’Aia del 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, child’s best interests, bilanciamento degli interessi in gioco.
La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione degli articoli 6 § 1 e 8 della Convenzione.
Nella causa Adžić c. Croazia (n. 2), il ricorrente si rivolge nuovamente alla Corte Edu: nel 2015, il sig. Adžić, cittadino statunitense, ottenne una prima pronuncia di condanna nei confronti della Croazia, poiché l’eccessiva durata del procedimento davanti alla Corte Costituzionale, instaurato in applicazione della Convenzione dell’Aia del 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, aveva violato il suo diritto al rispetto della vita privata e familiare. Tale seconda richiesta riguarda, anch’essa, la procedura volta al ritorno del figlio negli Stati Uniti, data la decisione della madre di rimanere nel proprio Paese d’origine con il figlio e di avviare l’iter per il divorzio.
I procedimenti innanzi al tribunale di primo grado e di appello sono stati già oggetto della precedente sentenza; oggetto del presente caso il ricorso di fronte alla Corte Costituzionale: il ricorrente lamentava, alla giurisdizione superiore, la violazione del diritto a un processo equo, in particolare il diritto a che la causa sia discussa oralmente in udienza, nonché il principio della parità delle armi. Le corti interne, secondo il sig. Adžić, stabilirono gli esiti del processo senza che fosse stato sentito il ricorrente e senza che venisse informato, né coinvolto nell’intervento di un esperto, il quale aveva ritenuto il trasferimento in un luogo diverso senza la madre un trauma per il minore. Con una decisione del 28 ottobre 2015, la Corte Costituzionale rigettò la domanda, esclusivamente sul profilo dell’equo procedimento poiché la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare era già stato esaminato dalla Corte Edu.
Il ricorrente dunque lamenta la violazione dell’art. 6 § 1, considerando ingiusti i procedimenti condotti dalle corti interne, nonché la violazione dell’art. 8, per il rifiuto da parte dei tribunali croati di ordinare il rientro del minore.
La Corte Edu ricorda l’importanza dell’audizione orale e di un’udienza nell’ambito dell’equo processo, nonché la possibilità di limitare tale diritto in circostanze eccezionali: qualora si esaminino esclusivamente questioni legali o altamente tecniche, ovvero qualora non vi siano problemi di credibilità o non vi siano contestazioni. Il presente caso, tuttavia, verte su questioni di fatto, oltre a questioni di diritto. Le corti interne, secondo il Governo, hanno rifiutato di ascoltare il ricorrente non solo perché non si consideravano necessarie le testimonianze delle parti, ma soprattutto per motivazioni di economia processuale. In risposta, la Corte ricorda l’importanza che ha l’udienza all’interno del procedimento, permettendo al giudice di valutare le reazioni e la spontaneità dei testimoni. Per tali motivi, la Corte Edu conclude che l’assenza di una trattazione orale del caso non era giustificata e ha, perciò, comportato la violazione dell’art. 6 § 1.
L’art. 8, continua la Corte, deve essere interpretato come godimento da parte di entrambi i genitori e del minore della reciproca compagnia, elemento fondamentale del diritto garantito da questa disposizione. Tuttavia, possono esservi delle limitazioni, se previsto dalla legge, se si persegue uno scopo legittimo e se necessario in una società democratica: l’interferenza da parte dello Stato, nel presente caso, era prevista dalla legge e perseguiva lo scopo legittimo di proteggere diritti e libertà di altri soggetti, in particolare del minore. Le corti interne non hanno però operato un bilanciamento di tutti gli interessi in campo. Poiché il parere redatto dal perito ha avuto una notevole influenza sulle decisioni interne, la partecipazione del padre nella valutazione sarebbe stata necessaria, al fine di chiarire l’intensità del legame genitore – figlio. Di conseguenza, non avendo il ricorrente avuto la possibilità di prendere parte nella formazione della decisione – esame che avrebbe contribuito alla garanzia del child’s best interest – la Corte statuisce la violazione dell’art. 8.
Sentenza della Corte Edu (Sezione IV) 21 maggio 2019 rich. nn. 49450/17, O.C.I. e altri c. Romania
Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), children’s best interests, Convenzione dell’Aia del 1980, violenza domestica, gravità del rischio.
La Corte ha statuito la violazione dell’articolo 8.
I ricorrenti, la sig.ra O.C.I. e i due figli, sono cittadini romeni e, recatisi in Romania nel 2015 per il periodo estivo, decisero di non fare rientro in Italia dal padre, cittadino italiano. Il marito della ricorrente iniziò un procedimento per il ritorno dei minori nel “luogo abituale di residenza”, previsto dalla Convenzione dell’Aia del 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori. La ricorrente si oppose all’azione del marito, allegando alcune prove del suo comportamento violento, tra cui registrazioni video, che mostravano le umiliazioni e le violenze fisiche perpetrate sui figli. Poiché gli abusi peggiorarono, la ricorrente cercò rifugio nel suo Paese d’origine. Nel 2016, i tribunali romeni accolsero la richiesta del padre, poi confermata nel 2017, di far ritornare i minori in Italia, luogo di residenza abituale. Le corti interne, pur riconoscendo la violenza fisica subita dai figli, considerarono tali fatti ‘occasionali atti di violenza’; non raggiungevano quindi un livello di gravità tale da giustificare l’allontanamento. Ad ogni modo, secondo i tribunali romeni, le autorità italiane avrebbero protetto i minori se le violenze fossero state comunicate. Tuttavia, la decisione delle autorità romene non è stata eseguita: i minori, rifiutatisi di rientrare in Italia, vivono tuttora in Romania.
I ricorrenti lamentano la violazione degli articoli 3 (proibizione della tortura) e 8, considerato che le corti romene non hanno tenuto conto del “grave rischio di maltrattamento”, elemento che costituisce un’eccezione al principio secondo cui i minori devono fare ritorno al luogo di residenza abituale, alla luce della Convenzione dell’Aia del 1980.
Il Comitato, composto da tre giudici della quarta sezione, ricorda che gli Stati dovrebbero arginare il più possibile la violenza fisica, de iure e de facto. Nonostante la legge romena condanni gravemente la violenza fisica domestica, il tribunale investito del caso ha considerato i comportamenti del padre nei confronti dei figli violenze occasionali, che non avrebbero avuto un seguito tale da costituire un grave rischio. La Corte Edu ha criticato la decisione delle autorità interne per non aver tenuto conto dei children’s best interests, del rischio di essere educati in maniera violenta dal padre, se riportati sotto la sua responsabilità, lasciando alle autorità italiane il compito di reagire in caso di ulteriori abusi. Il principio della fiducia reciproca tra gli Stati europei, sancito dal regolamento Bruxelles II bis, non si traduce nell’obbligo di riconsegnare i minori ad un ambiente dove corrono un grave pericolo di violenza, unicamente perché individuato come luogo di residenza abituale, e dove le autorità sarebbero capaci di ovviare a qualsiasi tipologia di abuso. Le corti interne, secondo i giudici di Strasburgo, avrebbero dovuto attribuire un’adeguata considerazione al rischio e avrebbero dovuto esaminare correttamente gli elementi che provavano la gravità di tale rischio, così da bilanciare gli interessi, tra cui l’interesse superiore dei minori.
La Corte Edu ritiene che vi sia stata violazione dell’articolo 8 e non si ritiene necessaria una valutazione separata in merito all’articolo 3.
Sentenza della Corte Edu (Sezione V) 2 maggio 2019 rich. nn. 54558/15, Vetsev c. Bulgaria
Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), custodia cautelare, autorizzazione di uscita sotto scorta, valutazione individuale, bilanciamento degli interessi.
La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’articolo 8.
Al sig. Vetsev, ricorrente bulgaro, arrestato il 6 febbraio 2015 per fatti legati al reato di furto, venne disposta la custodia cautelare in carcere; nell’agosto 2015, venne poi rinviato a giudizio. Il 18 settembre dello stesso anno, comunicatagli la morte del fratello, il ricorrente fece richiesta al tribunale, al fine di ottenere l’autorizzazione per partecipare al funerale a Sofia, 120 km dal luogo di detenzione. Nonostante la prima autorizzazione del tribunale, che dispose il trasferimento sotto scorta del soggetto, il “Servizio regionale di sicurezza del Ministero della Giustizia” ricordò la possibilità, secondo il diritto interno, di assicurare il trasporto sotto scorta ai detenuti esclusivamente per permettere loro di recarsi presso l’autorità giudiziaria; di conseguenza, il tribunale annullò l’ordinanza e rigettò la domanda del sig. Vetsev.
Il ricorrente lamenta la violazione dell’articolo 8 della Convenzione, poiché non è stata consentita la sua presenza al funerale del fratello, da parte delle autorità, durante la custodia cautelare.
La Corte Edu, anzitutto, ricorda che l’art. 8, sancendo il diritto al rispetto della vita privata e familiare, non costituisce garanzia di un diritto incondizionato a beneficiare di un’autorizzazione di uscita, ma prevede che le autorità interne esaminino la fondatezza delle richieste, tenendo conto della pericolosità del detenuto, della sua condotta, della natura del reato commesso, delle garanzie di ritorno in detenzione, nonché delle soluzioni alternative a realizzazione della richiesta dell’interessato. La Corte rileva che la legislazione interna prevede la possibilità di autorizzare l’uscita esclusivamente nei confronti di soggetti detenuti in esecuzione di una condanna definitiva ed i trasferimenti sotto scorta unicamente per recarsi presso istituzioni giudiziarie.
Le autorità bulgare hanno perciò rigettato la richiesta del ricorrente, in linea con il diritto interno, senza compiere un esame della richiesta individualizzato e circostanziato e, soprattutto, senza attuare un bilanciamento tra i vari interessi in campo: il diritto dell’interessato al rispetto della vita privata e familiare, da un lato, e la difesa dell’ordine pubblico e la prevenzione di ulteriori reati, dall’altro. Vi è stata, dunque, violazione dell’articolo 8, poiché le autorità interne non hanno dimostrato la necessità di tale ingerenza nel diritto, sancito dalla disposizione convenzionale, in una società democratica, elemento richiesto per la deroga del diritto dal § 2 dell’art. 8.
Sentenza della Corte Edu (Sezione II) 21 maggio 2019 rich. nn. 58302/10, G.K. c. Belgio
Oggetto: articolo 3 Protocollo 1 (diritto a libere elezioni), dimissioni dalla carica di senatore, revoca delle dimissioni, certezza del diritto, garanzie procedurali.
La Corte ha statuito la violazione dell’art. 3 Protocollo 1.
Nella causa G.K. c. Belgio, la ricorrente lamenta la violazione dell’articolo 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione, per essere stata privata del proprio mandato da senatrice.
Eletta senatrice nelle elezioni legislative nel mese di giugno 2010, G.K. nel mese di agosto dello stesso anno fece un viaggio in Asia e fu sospettata di aver commesso alcuni reati legati al consumo di droghe, reati da lei smentiti. Al suo ritorno, avvisato il Presidente del Senato belga, l’esito del colloquio portò la ricorrente a firmare una lettera di dimissioni, che era stata redatta in precedenza. Nel mese di settembre, il Direttore della Presidenza del Senato confermò la ricezione e la validità delle dimissioni della ricorrente, la quale, successivamente, informò il Presidente di voler ritirare la decisione e continuare il proprio mandato da senatrice, sostenendo di aver ricevuto pressioni da parte di alcuni senatori. Le venne comunicato, dunque, che la validità dell’atto sarebbe stata esaminata dall’assemblea plenaria, durante la verifica dei poteri del successore. Nell’ottobre 2010, la Camera alta decise che la validità delle dimissioni non era da considerarsi dubbia e prese atto di tale scelta; il successore dunque prestò giuramento. La ricorrente sostiene che, il giorno dell’assemblea plenaria, non le sia stato concesso di entrare in aula.
La Corte Edu ricorda, come deciso nella sentenza Occhetto c. Italia, che il rifiuto di ammettere la revoca delle dimissioni di un membro del Parlamento persegue uno scopo legittimo, vale a dire la garanzia della certezza del diritto nel quadro del processo elettorale, perché non vi sia incertezza quanto alla composizione del corpo parlamentare. La seconda sezione della Corte esamina quattro profili: in primis, osserva che la validità delle dimissioni della senatrice può essere contestata, viste le numerose affermazioni della ricorrente, la quale ha più volte sostenuto di essere stata costretta a tale scelta e di voler proseguire il suo mandato. Tuttavia, all’epoca dei fatti, non vi era alcuna normativa in tema di revoca delle dimissioni e, di conseguenza, nessuna norma stabiliva il momento in cui tale atto avrebbe acquisito efficacia. L’ufficio per gli affari legali del Senato, in assenza di regolamentazione, ha dunque rimandato la decisione sulla validità all’assemblea. La Corte ritiene che la legislazione interna non circoscriveva i poteri del Senato con sufficiente precisione.
Il secondo profilo rilevato concerne le garanzie procedurali che, secondo i giudici della seconda sezione, non sono state assicurate. L’ufficio chiamato ad esaminare i requisiti del successore, e per questo indirettamente chiamato a valutare la regolarità delle dimissioni, non ha tuttavia ascoltato la ricorrente né richiesto alcuna allegazione: l’ufficio, rigettando la tesi della ricorrente, ha stabilito, senza allegare alcuna motivazione a tale decisione, che non vi era alcuna anomalia in merito alle dimissioni.
Un terzo elemento, individuato dalla Corte, riguarda l’ufficio competente del Senato, composto da senatori, formato in modo tale da non tutelare la ricorrente nel processo decisionale; al contrario, secondo la senatrice dimissionaria, due senatori, accusati di aver condizionato la decisione esercitando pressioni, erano presenti durante la firma del documento volto a rassegnare le dimissioni.
Infine, il quarto profilo esaminato dalla Corte riguarda la totale assenza di garanzie: le carenze riscontrate nella decisione dell’ufficio non sono state colmate nella fase assembleare, poiché, da un lato, i due senatori, accusati di aver influenzato la decisione, hanno preso parte alla votazione in assemblea, dall’altro, alla senatrice non è stata data la possibilità di essere sentita dalla plenaria, essendole stato negato l’ingresso in aula.
Per tali motivi, la Corte Edu ha statuito la violazione dell’articolo 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione, osservando che, non essendo state assicurate le garanzie procedurali previste contro l’arbitrario, non sono stati salvaguardati i diritti tutelati da tale disposizione.