Le più rilevanti sentenze di maggio della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardano un ampio ventaglio di diritti garantiti dalla Convenzione: il diritto a un equo processo e il principio della presunzione di innocenza nella causa Farzaliyev c. Azerbaigian, il diritto al rispetto della vita privata e familiare in due casi che hanno coinvolto l’Italia e la Francia, il diritto a un ricorso effettivo, il diritto alla libertà di culto – assicurato dall’art. 9 – e, ancora, il diritto alla libertà di espressione, nella causa Kövesi c. Romania. Di fondamentale importanza il caso M.N. e altri c. Belgio, che ha confermato la posizione della Corte di Giustizia dell’Unione europea in tema di esternalizzazione del diritto d’asilo.
Decisione della Corte Edu (Grande Camera) 5 maggio 2020 rich. nn. 3599/18, M.N. e altri c. Belgio
Oggetto: articolo 1 (obbligo di rispettare i diritti dell’uomo), flussi migratori, visto per motivi umanitari, Paese terzo, applicazione extraterritoriale della Convenzione, interpretazione restrittiva
La Corte Edu ha dichiarato, a maggioranza, l’irricevibilità della questione.
Anche la Cedu chiude ai visti umanitari
Sentenza della Corte Edu (Sezione V) 28 maggio 2020 rich. nn. 29620/07, Farzaliyev c. Azerbaigian
Oggetto: articolo 6 §§ 1 (diritto a un equo processo), 2 (presunzione di innocenza), motivazione delle decisioni, non colpevolezza fino a condanna definitiva, rapporto tra processo penale e giudizio civile
La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 6 §§ 1 e 2 della Convenzione.
Il ricorrente, il cittadino azero Bejan Ibrahim oglu Farzaliyev, nel 2005 fu indagato per il reato di appropriazione indebita di fondi pubblici e abuso d’ufficio per alcune operazioni effettuate durante il suo mandato all’inizio degli anni ‘90 di Primo Ministro della Repubblica Autonoma di Naxçıvan – regione autonoma appartenente all’Azerbaigian. Il procedimento penale finì con un nulla di fatto, per prescrizione del reato. L’accusa portò la questione davanti al giudice civile, chiedendo che il ricorrente – insieme ad altri due sospettati – venisse condannato al risarcimento a favore dello Stato per il presunto reato di appropriazione indebita. Farzaliyev scoprì inoltre che durante il giudizio civile fu effettuata una breve indagine penale a suo carico. Nel maggio 2006, il tribunale distrettuale di Nasimi accolse la domanda dell’accusa, condannando il ricorrente e un altro indagato alla compensazione del danno prodotto dal reato penale, e stimato 2.025.000 euro, danno che non era ancora stato risarcito (§ 19). Il giudice di appello e la Corte Suprema confermarono la decisione di primo grado, senza alcuna valutazione delle allegazioni del ricorrente.
Il sig. Farzaliyev denuncia la violazione del suo diritto a un equo processo e del principio di presunzione di innocenza, garantiti dall’art. 6 §§ 1 e 2 della Convenzione.
La Corte Edu ricorda anzitutto che è fondamentale che le decisioni prese da tribunali e giudici siano motivate. In punto di fatto, la causa è stata esaminata dal giudice civile, nonostante il codice di procedura penale, all’art. 179, preveda chiaramente che una questione civile all’interno di un procedimento penale debba essere esaminata esclusivamente in sede penale (§ 27). In aggiunta, la Corte rileva che le allegazioni del ricorrente non sono state considerate dalle autorità interne, le quali non hanno fornito alcuna motivazione al rigetto delle istanze di quest’ultimo. Di conseguenza, i giudici della quinta sezione riconoscono che vi è stata violazione dell’art. 6 § 1, poiché non è stato garantito il diritto del ricorrente a un equo processo.
In merito al secondo profilo, i giudici di Strasburgo pongono in evidenza come – al fine di valutare l’applicabilità dell’art. 6 § 2 al caso di specie, e dunque la sussistenza di una violazione del principio di presunzione di innocenza – occorra che il soggetto sia stato imputato di un reato penale, o «sostanzialmente coinvolto» da questo («substantially affected», § 48). Secondo la Corte, può essere dunque considerata applicabile la fattispecie ex art. 6 § 2, nonostante il ricorrente non sia stato formalmente incriminato: si considera comunque imputato di un reato penale. Inoltre, la Corte osserva che il procedimento civile nel caso di specie era strettamente collegato all’indagine penale, ovvero una sua diretta conseguenza, e ciò è confermato dalle dichiarazioni rese durante il processo civile. Nel merito, la Corte Edu – ricordando le dichiarazioni della Corte distrettuale, con cui considera il danno come risultato del reato («the damage caused as a result of the criminal offence», § 66) – afferma che tali dichiarazioni «riflettono un’opinione inequivocabile che sostiene la commissione di un reato penale e la relativa colpevolezza del ricorrente, sebbene il ricorrente non sia mai stato condannato per tale reato e non abbia avuto la possibilità di esercitare i suoi diritti di difesa in un processo penale» (§ 67). La Corte dunque riconosce che vi è stata violazione dell’art. 6 § 2 della Convenzione.
Decisione della Corte Edu (Sezione I) 28 maggio 2020 rich. nn. 28393/18, Spano c. Italia
Oggetto: articolo 8 (rispetto del diritto alla vita familiare e privata), decadenza dalla responsabilità genitoriale, ingerenza nel rapporto padre-figlio, tempestività ed efficienza degli interventi delle autorità
La Corte Edu ha dichiarato, all’unanimità, il ricorso irricevibile.
La causa nasce dal ricorso di un cittadino italiano, Massimo Spano, che fu condannato nel 2007 per abusi sessuali sul figlio minore. Nel 2011 la Corte di Cassazione annullò la sentenza e rimandò la causa alla Corte d’appello, la quale assolse il ricorrente. Nel 2014 l’assoluzione fu confermata anche in Cassazione. Nel frattempo, nel 2009, il ricorrente fu dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale e nel 2014, a seguito dell’assoluzione, richiese la reintegrazione nella stessa. Successivamente alle indagini dei Servizi Sociali il Tribunale per i Minorenni di Bologna non ritenne opportuno reintegrare il ricorrente nella responsabilità genitoriale, ma incaricò i Servizi di continuare il percorso di sostegno psicologico con il minore e i genitori, valutando i tempi e le modalità di riavvicinamento tra il padre e il figlio. Nel 2016 la Corte d’Appello reintegrò il sig. Spano nella responsabilità genitoriale, tuttavia il minore si rifiutò di riallacciare i rapporti con il padre e, nonostante i Servizi Sociali continuarono a monitorare la situazione e a intervenire ove necessario, il progetto di riavvicinamento fallì.
Il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 8 della Convenzione ritenendo che le autorità non abbiano messo in atto tutte le misure necessarie a ricostruire il rapporto tra padre e figlio. Lamenta, inoltre, che durante il procedimento penale gli incontri con il figlio siano stati del tutto sospesi e che, quindi, per sette anni non abbia avuto modo di avere nessun rapporto con il minore.
La Corte Edu ha, quindi, il compito di valutare se le autorità nazionali abbiano adottato tutte le misure necessarie, evidenziando come l’adeguatezza di una misura vada giudicata sulla base della rapidità della sua attuazione (§ 42). In primo luogo, ha sottolineato che, durante il procedimento penale del ricorrente, è stato necessario dichiarare la decadenza dalla responsabilità genitoriale e interrompere il rapporto padre e figlio, in considerazione della natura del reato e dell’importanza di proteggere l’interesse del minore.
In secondo luogo, la Corte ritiene che le autorità - di fronte ad una situazione familiare complessa, in quanto i genitori del minore non cooperavano e il figlio esprimeva un assoluto rifiuto di relazionarsi con il padre - hanno agito adottando misure appropriate alla creazione delle condizioni necessarie alla piena realizzazione del diritto di visita del ricorrente e hanno stabilito un progetto di riavvicinamento tra padre e figlio (§ 47). La Corte, infine, ricorda come sia necessario utilizzare la massima prudenza in tema di coercizione, soprattutto quando si tratta di un minore la cui età richiede che si tenga conto della sua volontà. Nel caso di specie, i giudici nazionali e i Servizi Sociali hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per permettere al ricorrente di creare un rapporto con il figlio, ma di fronte al rifiuto dello stesso, non avrebbero potuto costringerlo.
L’art. 8, quindi, è stato rispettato, in quanto le autorità hanno agito in modo adeguato alla situazione, e il ricorso è da dichiararsi irricevibile.
Sentenza della Corte Edu (Sezione V) 14 maggio 2020 rich. nn. 24720/13, Hirtu e altri c. Francia
Oggetto: articolo 3 (proibizione della tortura), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 13 (diritto a un ricorso effettivo), sgombero, scopo legittimo, espulsione, gruppo socialmente svantaggiato, esame della proporzionalità della misura
La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, la non violazione dell’art. 3 e la violazione degli artt. 8 e 13 della Convenzione.
La causa nasce dal ricorso di sette cittadini rumeni, appartenenti alla comunità Rom. I ricorrenti, ad eccezione di uno, all’epoca dei fatti vivevano in Francia da diversi anni ed erano titolari di permesso UE per soggiornanti di lungo periodo. Inoltre, tutti i minori erano scolarizzati. Su richiesta del sindaco del comune di La Courneuve, il prefetto ordinò agli occupanti di evacuare il campo – su cui erano situati illegalmente da sei mesi – entro quarantotto ore; in alternativa, avrebbero proceduto allo sgombero forzato. I diversi tentativi dei ricorrenti di avere tutela giurisdizionale contro il provvedimento di sgombero furono infruttuosi.
I ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 3, 8 e 13, in combinato disposto con gli artt. 3 e 8, della Convenzione, allegando che le circostanze dello sgombero e le condizioni di vita successive a esso costituiscono un trattamento inumano e degradante, che non è stato rispettato il loro diritto al rispetto della vita privata e familiare, nonché del loro domicilio, e che non gli è stato garantito un ricorso effettivo.
La Corte Edu osserva anzitutto che lo sgombero forzato disposto dal prefetto non ha avuto luogo, poiché i ricorrenti hanno anticipato tale azione, e rileva che diversi ricorrenti hanno fatto rientro in Romania, mentre altri hanno beneficiato di un alloggio sociale. La posizione dei rimanenti, inoltre, è stata correttamente presa in esame dalle autorità interne. Secondo la Corte, dunque, non vi è stata violazione dell’art. 3.
Sul profilo dell’art. 8, la Corte premette che, in mancanza di un legame sufficiente e continuativo con il luogo di sistemazione, non si può intendere ingerenza nel diritto al rispetto del domicilio. Ritiene tuttavia applicabile l’art. 8 poiché la misura adottata comporta inevitabili conseguenze sulla vita privata e familiare. In primo luogo, i giudici di Strasburgo rilevano che l’ingerenza è prevista dalla legge, e nello specifico dalla legge del 5 luglio 2000. La Corte poi riconosce che tale ingerenza persegue uno scopo legittimo: la protezione della salute e della sicurezza pubblica, così come dei diritti e delle libertà di altri.
Considerata legittima la decisione di espulsione, la Corte ne valuta le modalità. Anzitutto, il fatto che la misura non sia stata disposta da una decisione giudiziaria, secondo la Corte, ha portato a diverse conseguenze. Poiché il tempo intercorso tra la decisione, la notificazione e l’esecuzione della misura è stato molto breve, le disposizioni della circolare interministeriale del 2012, relative all’«anticipazione e accompagnamento delle operazioni di sgombero degli accampamenti illeciti» - nello specifico, rilevazione delle famiglie e delle persone coinvolte, accompagnamento scolastico, sanitario e di alloggio – non hanno trovato applicazione. Non vi è stata dunque alcuna considerazione delle conseguenze che, nel caso di specie, avrebbe comportato un provvedimento di espulsione. In secondo luogo, i giudici della quinta sezione sottolineano che l’esame della proporzionalità della misura spetta al giudice, ma nel caso in questione i ricorsi interni introdotti dai ricorrenti non hanno permesso di far valere le loro pretese davanti a una giurisdizione (§ 74); e, ad ogni modo, il primo tribunale che ha esaminato la questione, si è pronunciato diciotto mesi dopo lo sgombero. La Corte Edu dunque afferma, da un lato, che l’«appartenenza dei ricorrenti a un gruppo socialmente svantaggiato e i loro particolari bisogni devono essere considerati nell’esame della proporzionalità che le autorità nazionali hanno il compito di effettuare […], se l’espulsione è necessaria, quando ne decidono la data, le modalità e, se possibile, la proposta di un alloggio» (§ 75). Dall’altro lato, il soggetto che è vittima di un’ingerenza da parte dello Stato deve poter ottenere l’esame della proporzionalità della misura da parte di un tribunale indipendente. Vi è stata dunque violazione dell’art. 8 della Convenzione.
Infine, la Corte Edu rileva che non è stato garantito un esame giurisdizionale da parte dei giudici di prima istanza, che non hanno valutato debitamente le allegazioni dei ricorrenti sotto il profilo degli artt. 3 e 8. La Corte ha riscontrato dunque la violazione dell’art. 13 della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Sezione III) 12 maggio 2020 rich. nn. 29290/10, Korostelev c. Russia
Oggetto: articolo 9 (diritto alla libertà di culto), diritto di praticare il proprio culto in carcere, sanzioni disciplinari, regolamento carcerario, bilanciamento interesse del singolo e interesse pubblico
La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 9 della Convenzione.
Il ricorrente, il sig. Korostelev, detenuto in una prigione russa, lamenta la violazione del proprio diritto alla libertà di culto garantito dall’art. 9. Il ricorrente, infatti, è di fede musulmana e deve, quindi, praticare atti di culto e preghiera almeno cinque volte al giorno, soprattutto nel periodo del Ramadan.
In due notti, nel 2012 e nel 2013, venne ripreso dalle guardie carcerarie perché in orario notturno stava pregando e venne punito disciplinarmente per aver violato il regolamento carcerario che prevedeva che tutti i detenuti dormissero dalle 22 alle 6 del mattino. Il sig. Korostelev impugnò la decisione del direttore del carcere davanti alla Syktyvkar Town Court che rigettò il ricorso, affermando che i detenuti potevano esercitare i loro diritti solo nel rispetto del regolamento carcerario e che, quindi, il comportamento del ricorrente doveva considerarsi una violazione di detto regolamento. Anche la Corte Suprema, adita successivamente dal sig. Korostelev, si allineò a tale posizione.
Il ricorrente afferma, quindi, di fronte alla Corte Edu, che la punizione disciplinare ha interferito con la propria libertà di culto, interferenza non giustificata dal perseguimento di uno scopo legittimo e non proporzionata, sottolineando che il proprio comportamento non ha causato disturbo a nessun altro detenuto, essendo il ricorrente confinato nella sua cella da solo.
I giudici di Strasburgo, anzitutto, evidenziano come la libertà religiosa, di pensiero e di coscienza sia uno dei fondamenti più importanti all’interno di una società democratica. Inoltre, la Corte osserva che “la manifestazione di credo religioso può assumere la forma di adorazione, insegnamento, pratica e osservanza. La testimonianza attraverso parole e fatti è legata all’esistenza di convinzioni religiose” (§ 47). La Convenzione, all’art. 9 § 2, ammette limiti al diritto di manifestare il proprio credo religioso esclusivamente nelle ipotesi in cui sia necessario in una società democratica, sia prescritto dalla legge o persegua uno scopo legittimo. In primo luogo, secondo la Corte, nel caso di specie, non vi è dubbio che vi sia stata un’interferenza con la libertà religiosa del ricorrente (§ 49) e si può considerare tale interferenza prescritta dalla legge, sulla base del regolamento carcerario (§ 54). Tuttavia, non si ritiene che sia necessaria in una società democratica, e di conseguenza non persegue alcuno scopo legittimo. A motivazione di tale affermazione, la Corte sostiene che, nonostante l’importanza di mantenere ordine e disciplina all’interno del carcere, tutti i detenuti devono godere dei diritti e delle libertà fondamentali (§ 57). Nel caso in questione, le autorità nazionali non hanno adeguatamente bilanciato l’interesse privato del singolo e quello pubblico, non tenendo in considerazione la situazione personale del sig. Korostelev e il fatto che il suo comportamento non avesse causato alcun rischio all’istituto né agli altri detenuti. L’art. 9 della Convenzione è, quindi, stato violato.
Il ricorrente lamenta inoltre la violazione dell’art. 13, per non aver avuto a disposizione rimedi efficaci di impugnazione davanti ad un’autorità nazionale, tuttavia la Corte non ritiene necessario esaminare tale violazione separatamente dall’art. 9.
Sentenza della Corte Edu (Sezione IV) 5 maggio 2020 rich. nn. 3594/19, Kövesi c. Romania
Oggetto: articolo 6 § 1 (diritto all’accesso ad un tribunale imparziale ed equo) articolo 10 (diritto alla libertà di espressione), rimozione del procuratore capo della DNA, diritto all’espressione pubblica
La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, la violazione degli artt. 10 e 6 della Convenzione.
La sig.ra Kövesi, procuratore capo della Direzione Nazionale Anticorruzione (DNA), nel 2018 fu rimossa dalla carica, prima del termine del suo secondo mandato, per le critiche mosse alle iniziative legislative del nuovo Governo, in particolar modo in tema di depenalizzazione dell’abuso d’ufficio commesso nell’adozione di qualunque tipo di atto legislativo[1]. La ricorrente, inoltre, denunciò le modalità con cui erano stati adottati alcuni atti e avviò un’indagine a tale proposito.
Nel 2017 il Ministro della Giustizia propose la rimozione dalla carica della ricorrente – riferendosi a tre pronunce della Corte Costituzionale in relazione alle attività del DNA) – tuttavia, sia il CSM che il Presidente della Romania si rifiutarono di adottare il decreto di licenziamento, non riscontrando alcuna prova di inadeguatezza della ricorrente. La Corte Costituzionale, adita dal Primo Ministro, ordinò al Presidente di firmare il decreto, affermando che la proposta di rimozione dalla carica non poteva essere giudicata nel merito né dalla Corte stessa né dal Presidente: questi avrebbero potuto giudicare la questione solo dal punto di vista procedurale, limitando dunque il giudizio alla legittimità esterna dell’atto.
La ricorrente lamenta la violazione dell’art. 6 § 1, essendole stato negato l’accesso al tribunale per contestare l’atto e difendere i propri diritti, e dell’art. 10, sottolineando che la cessazione della carica è avvenuta a seguito delle dichiarazioni rese in pubblico.
La Corte Edu, anzitutto, afferma il principio secondo cui le controversie tra un dipendente pubblico e lo Stato rientrano nel campo di applicazione dell’art. 6 § 1. Tale garanzia è sospesa qualora sussistano due condizioni: che la legge nazionale escluda espressamente l’accesso al tribunale per determinate controversie e che tale esclusione sia giustificata da un oggettivo interesse dello Stato. Nel presente caso, la Corte non ritiene sussistenti le condizioni appena menzionate, in quanto la ricorrente avrebbe potuto ricorrere a un tribunale amministrativo, ma la Corte Costituzionale ha limitato il suo diritto sostenendo la possibilità di impugnazione del decreto presidenziale solo per contestare la legittimità esterna dell’atto. Nessun rimedio giurisdizionale sostanziale è dunque stato previsto per la ricorrente e ciò comporta, secondo la Corte, una violazione dell’art. 6 § 1.
Sotto il profilo dell’art. 10, i giudici di Strasburgo evidenziano come la fine del mandato della ricorrente sia stato causato dalle opinioni espresse pubblicamente dalla stessa e come ciò costituisca un’interferenza con il suo diritto alla libera espressione. La Corte deve, quindi, analizzare se tale interferenza sia giustificata sulla base dell’art. 10 § 2. Nello specifico, la motivazione del Governo – il quale allega la necessità di proteggere lo stato di diritto (§ 196), attraverso la rimozione della ricorrente – non appare sufficiente a giustificare l’interferenza. Non è infatti considerato uno scopo legittimo che permetta di limitare la libertà di espressione. Inoltre, viene sottolineato come la funzione della ricorrente e i suoi doveri includessero la facoltà di esprimere la propria opinione sulle riforme legislative, relative al sistema giudiziario, alla sua indipendenza e alla lotta alla corruzione. La Corte, quindi, non ritiene che l’interferenza sia necessaria in una società democratica (§ 211). Rileva dunque la violazione dell’art. 10 della Convenzione.
[1] A seguito delle elezioni parlamentari del 2016, il nuovo governo formatosi mise in atto una serie di riforme legislative di depenalizzazione che provocarono dimostrazioni pubbliche e preoccupazione, sia a livello nazionale che internazionale.
Marika Ikonomu, Università Statale di Milano, già tirocinante presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa
Agnese Galatà, Università degli Studi di Milano, tirocinante ex. art.73 del dl 69/2013, presso il Tribunale per i Minorenni di Milano