Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di dicembre 2022

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di dicembre 2022

Tra le sentenze rese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel mese di dicembre, si segnala, anzitutto, D.K. c. Italia, in cui la Corte esclude la violazione degli obblighi procedurali derivanti dal divieto di tortura in relazione ad asseriti fatti di abuso sessuale commessi prima della legge n. 662/96 (sulla procedibilità d’ufficio) e alla successiva archiviazione per proposizione tardiva della denuncia. La sentenza contiene più spunti interessanti, in particolare, sull’esistenza o meno di un obbligo di procedibilità rispetto a reati di abuso sui minori, prima e dopo l’entrata in vigore della Convenzione di Lanzarote; altresì, sull’autonomia tra azione civile e penale, al fine di valutare l’incidenza di un ritardo nel procedimento penale sull’efficacia del rimedio civile.

Nella pronuncia A.D. e altri c. Georgia la Corte sanziona la legislazione sullo stato civile per difetto del requisito di legalità che determina una incertezza ingiustificata in merito alle condizioni richieste per ottenere il riconoscimento legale del loro genere.

Infine, nell’ultima sentenza esaminata, K.K. e altri c. Danimarca, la Corte di Strasburgo torna sulla questione del riconoscimento del legame di filiazione tra i bambini nati da maternità surrogata e il genitore d’intenzione (non biologico). In linea con i propri precedenti e con l’opinione consultiva del 2019,  i giudici europei riscontrano una violazione dell’art. 8, sotto il profilo del rispetto del diritto alla vita privata di due minori nate da surrogazione, in ragione del rifiuto opposto dalle autorità giurisdizionali danesi alla richiesta della madre d’intenzione, già affidataria congiuntamente al marito, padre biologico, di ottenere l’adozione delle gemelle.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 1 dicembre 2022, ric. n. 14260/17, D.K. c. Italia

Oggetto: articolo 3 della Convenzione (divieto di tortura) – componente procedurale – denuncia di violenza sessuale per fatti antecedenti alla l. 662/96 sulla procedibilità d’ufficio – archiviazione per proposizione tardiva della denuncia – impossibilità di ricavare dalla Convenzione europea dei Diritti dell’uomo l’obbligo di procedere d’ufficio per tali reati o di applicare retroattivamente una legge su condizioni di procedibilità più favorevoli alla vittima – impossibilità di applicare gli obblighi di protezione dei minori derivanti dalla Convenzione di Lanzarote, in quanto successivi alla commissione dei fatti denunciati – autonomia tra azione civile e penale. 

La ricorrente, cittadina italiana, sosteneva di aver subito abusi sessuali da parte dello zio già in minore età, tra il 1974 e il 1987. Dopo essersi confidata, anche la sorella della ricorrente rivelava di aver subito le medesime violenze. 

Nel 1997, entrambe iniziavano un percorso terapeutico con uno psichiatra specializzato in questioni di abuso sessuale e maturavano la consapevolezza di esserne state vittime. L’anno successivo, dietro consultazione di un avvocato, tentavano una composizione amichevole per far valere le proprie pretese nei confronti dello zio. Fallito il tentativo, nel 1999, sia la ricorrente che la sorella presentavano denuncia penale unitamente alla perizia dello psicologo. Il pubblico ministero, nonostante la serietà degli indizi emersi a carico dell’accusato, pur riconoscendo che la delicatezza della posizione delle interessate avesse influito sul ritardo nel coinvolgimento dell’autorità giudiziaria, chiedeva l’archiviazione: la denuncia era tardiva in quanto non depositata entro tre mesi dalla maggiore età e la legge in vigore all’epoca dei fatti non consentiva la procedibilità d’ufficio.

Anche il tribunale civile, nel 2007, rigettava la domanda ritenendo prescritto il diritto ivi fatto valere; la Corte di appello precisava l’inattendibilità delle dichiarazioni delle persone offese e l’insufficienza del quadro probatorio.

Dinanzi alla Corte di Strasburgo, la ricorrente lamenta la violazione, da parte dello Stato italiano, degli obblighi positivi di protezione dei diritti derivanti dagli artt. 3 e 8 della Convenzione

I giudici europei valutano l’ammissibilità e il merito del ricorso alla luce dell’art. 3, nello specifico degli obblighi procedurali che ne derivano. In base alla giurisprudenza convenzionale, infatti, quando una persona asserisce di essere stata vittima di comportamenti inumani o degradanti, le autorità nazionali devono condurre un’indagine ufficiale ed effettiva per l’accertamento dei fatti nonché per l’identificazione e punizione del responsabile. Trattasi di un obbligo di mezzi, non di risultato.

Nel caso di specie, le accuse di abuso sessuale rappresentano un trattamento sufficientemente grave per l’applicabilità ratione materiae dell’art. 3.

Nel merito, la Corte sottolinea innanzitutto che, dal deposito della denuncia, le indagini sono state tempestive e sufficientemente approfondite. 

Il profilo controverso del ricorso attiene alla legittimità della scelta del giudice penale di chiudere il procedimento per tardività della proposizione della denuncia, nell’impossibilità di applicare retroattivamente la legge che, nel 1996, aveva previsto la procedibilità d’ufficio per i reati di abuso sessuale.

La portata degli obblighi procedurali derivanti dagli artt. 2 e 3 della Convenzione, riassunti dalla Grande Camera nel caso S.M. c. Crozia (n. 60561/14), non osta alla previsione di termini per la proposizione di un reclamo né impone la procedibilità d’ufficio per casi quali quello in esame. Invero, la procedibilità d’ufficio per potenziali abusi su minori è divenuta regola comune nella maggioranza degli Stati Contraenti, Italia compresa, solo dopo l’entrata della Convenzione di Lanzarote.

D’altronde, né il diritto convenzionale né la Convenzione di Lanzarote impongono l’applicazione retroattiva della norma sulla procedibilità (nel caso di specie, della legge n. 662/1996).

Con riguardo al tempo intercorso tra la richiesta di archiviazione del pubblico ministero e l’effettiva archiviazione da parte del GIP (poco più di 3 anni), mentre la ricorrente ritiene che il rallentamento abbia determinato l’impossibilità di far ascoltare un testimone dinanzi ai giudici civili, la Corte esclude che tale circostanza abbia compromesso l’effettività, tanto più che il sistema italiano si fonda sul principio di autonomia tra azione civile e penale nonché di accessorietà dell’azione civile nel processo penale. La ricorrente avrebbe potuto adire prima i giudici civili.

In conclusione, si esclude la violazione dell’art. 3 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 1° dicembre 2022, ric. nn. 57864/17, 79087/17 e 55353/19, A.D. e altri c. Georgia

Oggetto: Articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) – vita privata - obblighi positivi – uomini transgender – possibilità a ottenere il riconoscimento legale del loro genere subordinata alla sottoposizione a procedure mediche modificative delle caratteristiche sessuali – imprecisione del quadro giuridico - mancanza di procedure rapide, trasparenti e accessibili 

I tre ricorrenti sono uomini transgender, assegnati alla nascita con il genere femminile. A seguito di domande accolte all’Agenzia di stato civile georgiana, i loro nomi sono stati cambiati da nomi tradizionalmente femminili a nomi tradizionalmente maschili nei rispettivi registri di stato civile. I ricorrenti hanno anche ricevuto dei certificati medici da psicologi che hanno diagnosticato il “disturbo dell’identità di genere o transessualismo”. A seguito di tali certificati, essi hanno chiesto il riconoscimento legale del genere, che avrebbe comportato il cambio del proprio genere nei registri di stato civile da femmina a maschio. Prima di allora, due ricorrenti si erano sottoposti ad un trattamento ormonale per aumentare i livelli di testosterone e uno di questi aveva anche effettuato una mastectomia. Le loro richieste sono state respinte dall’Agenzia sulla base della motivazione che questi non avevano dimostrato di essere stati sottoposti a procedure di riassegnazione medica del sesso. 

I ricorrenti hanno agito presso i tribunali competenti. Durante il procedimento giudiziario, l’Agenzia convenuta ha riconosciuto che il diritto nazionale non ha definito quali procedure mediche esatte fossero necessarie o quale tipo di prova medica fosse richiesta affinché un “cambio di sesso” avvenisse ai sensi della legge sullo stato civile applicabile. Tuttavia, l’Agenzia ha ribadito che era necessario un certificato medico che dimostrasse che le loro caratteristiche biologiche e/o fisiologiche sessuali erano state modificate. 

Il tribunale ha respinto le loro denunce, argomentando che l’autoidentificazione non era sufficiente poiché, secondo la legge sullo stato civile georgiana, la riassegnazione del sesso costituiva una condizione preliminare per cambiare il genere nei registri di stato civile. Poiché nessuna delle ricorrenti era stata sottoposta a simili procedure, la loro richiesta di riconoscimento legale del genere non poteva essere accolta. Il tribunale ha stabilito che il sesso del ricorrente poteva essere modificato mediante procedure mediche, ma ha omesso di indicare esattamente quali fossero tali procedure. Si è così concluso che solo le persone transgender che si erano sottoposte ad una operazione medica avevano il diritto, dopo aver cambiato sesso, di ottenere il riconoscimento legale del genere. 

Due ricorrenti hanno adito, senza successo, la Corte Suprema lamentando delle carenze in diritto delle decisioni di merito. 

L’altro ricorrente ha invece proposto appello avverso la decisione di prime cure. In quella sede, uno dei giudici ha chiesto all’autorità nazionale competente a quali procedure mediche il ricorrente avrebbe dovuto sottoporsi per poter dimostrare un cambiamento di sesso, se queste potessero essere eseguite solo mediante intervento chirurgico o altre procedure, meno invadenti, potrebbero essere sufficienti e se, in tale contesto, fosse necessario introdurre ulteriori precisazioni nel diritto interno. L’autorità nazionale ha osservato in proposito che la legge nazionale era già chiara su ciò che costituiva un cambiamento di sesso, nel senso di ammettere esclusivamente la condizione preliminare di aver ottenuto il cambiamento di sesso per mezzo di “procedure chirurgiche”. Il giudice di appello ha infine respinto il ricorso: sebbene diversi paesi europei avessero optato per consentire un cambiamento di genere nei registri di stato civile sulla base dell’autoidentificazione di genere di una persona, la legge georgiana era chiara nel subordinare la questione alla riassegnazione del sesso “per mezzo di un intervento chirurgico”. Qualsiasi procedura medica intrapresa con l’obiettivo di cambiare sesso doveva avere un impatto irreversibile, e questa irreversibilità non può essere raggiunta attraverso un semplice trattamento ormonale. Il cambiamento di una caratteristica sessuale secondaria non può di per sé mostrare un cambiamento di sesso. 

L’ulteriore ricorso per cassazione proposto dal terzo ricorrente – così come quelli presentati dai primi due - è stato respinto dalla Corte suprema. Secondo il giudice di legittimità il ricorrente non aveva prodotto un certificato medico attestante l’irreversibilità del trattamento ormonale da lui ricevuto. Inoltre, secondo la Corte, la Costituzione non riconosceva i matrimoni omosessuali e se alle persone transgender fosse permesso di cambiare il loro genere esclusivamente sulla base della loro autoidentificazione di genere, ciò potrebbe potenzialmente consentire alle coppie dello stesso sesso di sposarsi, aggirando di fatto il limite imposto dalla Costituzione.

Di fronte alla Corte di Strasburgo, i ricorrenti lamentavano una violazione dell’articolo 8 della Convenziona per violazione del loro diritto al rispetto della vita privata e familiare, a causa della loro impossibilità di ottenere un cambiamento di genere negli atti di stato civile, consentito da un quadro normativo incerto e assolutamente non chiaro. Nel giudizio di fronte alla camera semplice sono intervenuti, in qualità di amici curiae, il difensore pubblico della Georgia, l’organizzazione non governativa ILGA-Europe and TGEU e il Centro per i diritti umani dell’Università di Gand.

La Corte ha innanzitutto ricostruito sinteticamente la propria consolidata giurisprudenza in materia, ricordando che, ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione, stabiliva che rispetto al riconoscimento giuridico del genere gli Stati membri erano tenuti a fornire procedure rapide, trasparenti e accessibili per cambiare il sesso registrato delle persone transgender. 

Ha tal proposito, la Corte ha osservato che, non solo il diritto al cambiamento del proprio sesso nei registri di stato civile è stato sancito dalla legge in Georgia, ma è stato anche interpretato come facente parte del diritto costituzionale al libero sviluppo della personalità ai sensi dell’articolo 12 della Costituzione georgiana. Tuttavia, nonostante il fatto che tale diritto esistesse nel paese dal 1998, apparentemente non c’era stato un solo caso di riconoscimento legale del genere di successo. Una regolamentazione puntuale delle forme di riconoscimento giuridico del genere persegue lo scopo legittimo di salvaguardare il principio dello stato civile, la coerenza e l’affidabilità degli atti dello stato civile e, più in generale, l’esigenza di certezza del diritto. Tuttavia, mentre nel contesto normativo nazionale di riferimento il diritto di cambiare il proprio sesso nei registri di stato civile era riconosciuto, la legge mancava di indicare chiaramente i termini e le condizioni da soddisfare per il riconoscimento legale del genere. 

La Corte ha poi osservato come il Governo abbia mancato di affrontare nello specifico la questione – da lei espressamente rivolta alle Parti – riguardante le esatte procedure mediche richieste ai fini del riconoscimento legale del genere. La Corte ha pertanto ritenuto che il diritto e la prassi nazionali non fornissero alcuna indicazione circa l’esatta natura delle procedure mediche da seguire. 

Anche l’osservazione del governo secondo cui l’espressione “cambiamento di sesso” nella legge sullo stato civile doveva essere valutata in base a “criteri biologici, fisiologici e/o anatomici” manifesta una scarsa chiarezza del quadro nazionale. La Corte, infatti, ha chiarito come lo Stato deve avere la massima cura e precisione nell’uso intercambiabile di termini così diversi quali “sesso” e “genere”, poiché ciascuno di essi ha un suo significato particolare e comporta implicazioni giuridiche distinte. Ad esempio, se il “cambio di sesso” dovesse essere definito sulla base di criteri biologici, allora non sarebbe mai possibile ottenere il riconoscimento legale del genere, poiché i cromosomi non potrebbero essere modificati da alcuna quantità di intervento medico. 

La Corte ha inoltre censurato il modo in cui i tribunali nazionali avevano gestito il caso del terzo ricorrente, in quanto erano incorsi in una chiara contraddizione. Mentre la Corte d’appello aveva dichiarato che il completamento del trattamento ormonale, con il conseguente cambiamento delle caratteristiche sessuali secondarie, non era sufficiente per il riconoscimento legale del genere, la Corte suprema aveva suggerito il contrario, in particolare che era sufficiente un certificato medico attestante l’“irreversibilità” del trattamento ormonale. La Corte ha constatato che le incoerenze nella lettura del diritto interno da parte dei giudici nazionali erano condizionate, almeno in parte, dal fatto che la legge stessa non era sufficientemente dettagliata e precisa. L’imprecisione dell’attuale legislazione ha compromesso la disponibilità di un riconoscimento giuridico del genere nella pratica e la mancanza di un quadro giuridico chiaro ha lasciato alle autorità nazionali poteri discrezionali eccessivi, che potrebbero portare a decisioni arbitrarie. Tale situazione era fondamentalmente in contrasto con il dovere dello Stato di fornire procedure rapide, trasparenti e accessibili per il riconoscimento giuridico del genere. 

Difettando il requisito della legalità dell’interferenza prescritto dall’articolo 8 della Convenzione, la Corte ha concluso che vi era stata una violazione del diritto al rispetto della vita privata dei ricorrenti.

 

Sentenza della Corte Edu (Seconda Sezione), 6 dicembre  2022, ric. n. 25212/21 16, K.K. e altri c. Danimarca

Oggetto: articolo 8 – diritto al rispetto della vita privata – maternità surrogata  – interesse superiore del minore – rifiuto di autorizzare l’adozione di due minori nate da maternità surrogata da parte del genitore d’intenzione (non biologico) – affidamento congiunto a entrambi i coniugi della coppia d’intenzione 

La seconda e la terza ricorrente nascevano in Ucraina nel dicembre 2013, a seguito di un accordo di surrogazione stipulato tra la madre surrogata e una coppia danese. 

Nel febbraio 2014, le due minori venivano portate dai genitori d’intenzione in Danimarca, acquistandone la relativa cittadinanza in virtù del legame biologico con il padre “committente”. Nondimeno, i certificati di nascita rilasciati dalle autorità ucraine, in cui veniva riconosciuto lo status di genitori a entrambi i suddetti coniugi, non spiegavano efficacia rispetto al legame con la madre intenzionale (prima ricorrente). L’art. 30 del Children Act statuisce, infatti, che «La donna che partorisce un bambino concepito attraverso la procreazione assistita è considerata madre del bambino».

Inoltre, le autorità danesi, pur concedendo alla donna, nel 2018, l’affidamento congiunto delle bambine insieme al marito, rifiutavano la richiesta avanzata dalla medesima di essere riconosciuta come “step-mother”. Invero, secondo i giudici danesi, l’adozione in questione – che scaturiva, sia pure indirettamente, da un accordo che aveva previsto la corresponsione di un compenso alla madre surrogata – avrebbe violato l’art 15 della legge danese sull’adozione, a mente del quale essa non può essere autorizzata, se qualcuno dei soggetti tenuti ad acconsentirvi abbia percepito una remunerazione. 

Segnatamente, la Corte Suprema danese, pur riconoscendo che l’assolutezza di siffatto divieto non è conforme all’art. 8 della Convenzione e, conseguentemente, invitando il legislatore a rimeditare la disciplina in parola, concludeva che il rifiuto di autorizzare l’adozione nel caso di specie non comportasse una violazione della norma convenzionale. In particolare, ad avviso del supremo giudice danese, la circostanza che le bambine avessero ottenuto la cittadinanza del padre, in uno con le tutele derivanti dall’affidamento condiviso da entrambi i coniugi, da un lato, realizzava un adeguato bilanciamento tra il superiore interesse delle minori e gli interessi pubblici in gioco. Dall’altro, consentiva di escludere che il diniego della richiesta di adozione determinasse un «impatto significativo sulla vita privata» delle gemelle.

Le ricorrenti si rivolgevano, quindi, alla Corte EDU, lamentando la violazione del loro diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’articolo 8 della Convenzione.

I giudici di Strasburgo procedono a esaminare le doglianze distinguendo, in linea con l’impostazione consolidata, il profilo correlato al rispetto della vita familiare da quello connesso al rispetto della vita privata.

Dal primo punto di vista, la Corte non ravvisa alcuna violazione dell’art. 8 CEDU. Al riguardo, i giudici europei sottolineano come il rifiuto delle autorità danesi di consentire la step-child adoption alla madre d’intenzione non avesse impedito alle ricorrenti di convivere ininterrottamente sin dall’ingresso delle due bambine in Danimarca. Di conseguenza, anche alla luce del margine di discrezionalità concesso allo Stato convenuto in materia, la Corte ritiene che le conclusioni dei tribunali nazionali avessero raggiunto un giusto equilibrio tra gli interessi dei ricorrenti al rispetto della vita familiare e quelli protetti dallo Stato con la norma richiamata; vale a dire, quello di evitare lo sfruttamento commerciale delle madri surrogate e la mercificazione dei bambini.

Sotto la lente del diritto al rispetto della vita privata, la Corte ribadisce, anzitutto, come, dinanzi alla esigenza di proteggere l’identità del minore, che si sviluppa anche attraverso il riconoscimento giuridico del legame di filiazione, il margine di apprezzamento statale debba necessariamente restringersi.

In questo senso, se i giudici europei non ritengono di dover censurare la conclusione espressa dalla Corte Suprema danese rispetto alla posizione della madre intenzionale (e affidataria delle bambine) – il cui interesse era stato considerato soccombente rispetto ai contrapposti interessi pubblici in gioco – diversa è la considerazione rispetto alla decisione riguardante la posizione delle minori.

A questo proposito, la Corte rammenta, in primo luogo, il contenuto della propria opinione consultiva, a mente della quale, il diritto del minore al rispetto della vita privata – e, più in particolare, quello di ottenere il riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione  – non implica necessariamente la trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero con l’indicazione di entrambi i genitori intenzionali; ma può altresì essere soddisfatto attraverso strumenti giuridici diversi quale è, ad esempio, l’adozione del figlio da parte del genitore intenzionale non biologico.

In questa prospettiva, si tratta, quindi, di comprendere, caso per caso, se ed eventualmente quali altri mezzi, diversi dall’adozione, possano assicurare il riconoscimento giuridico del legame del minore con coloro che esercitano di fatto la responsabilità genitoriale. 

Ebbene, la soluzione dell’affidamento condiviso applicata nel caso in esame dall’ordinamento danese – nonostante le varie tutele che tale istituto accorda agli interessati (id est, la persistenza del legame tra la donna e le bambine in caso di separazione, divorzio o morte del marito co-affidatario) – non comporta siffatto riconoscimento e, di conseguenza, ad avviso dei giudici europei, il rifiuto di autorizzare l’adozione delle bambine ne rende incerta la condizione familiare e sociale (ponendole, ad esempio, in una condizione deteriore in tema di diritti successori). Ciò integra, in conclusione, una violazione della loro vita privata, a maggior ragione alla luce delle circostanze che caratterizzano la vicenda de qua, tra cui, in particolare, la convivenza prolungata delle tre ricorrenti, iniziata poco dopo la nascita delle bambine.

Vale peraltro la pena di evidenziare il distinguishing che la Corte opera rispetto ad alcune pronunce rese successivamente all’opinione consultiva del 2019 (Valdís Fjölnisdóttir e altri c. Islanda, A.M. c. Norvegia, C.E. e altri c. Francia, e H c. Regno Unito), in cui aveva escluso che vi fosse stata una violazione della Convenzione. 

Dopo aver sottolineato l’approccio “olistico” seguito in tali casi, la Corte sottolinea come, in essi, diversamente dalla vicenda in questione, l’adozione dei minori fosse stata esclusa non in ragione di un rifiuto opposto dall’autorità, bensì per motivi differenti (i genitori d’intenzione non avevano presentato domanda di adozione, oppure questa era stata ritirata, o, ancora, l’accoglimento della stessa dipendeva dal consenso del genitore biologico). Di talché, in considerazione di tali differenti presupposti, il ricorso da parte delle autorità statali all’affidamento congiunto o ad altri strumenti – seppur inidonei ad instaurare un legame di filiazione – erano apparsi adeguati a mitigare gli effetti negativi derivanti dalla mancata adozione.

 

 

 

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata

Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

 

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