Le sentenze di febbraio della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, qui selezionate, concernono l’adozione della custodia cautelare per eseguire una richiesta di estradizione; la tutela del diritto alla salute e gli obblighi che ne discendono per gli Stati, in caso di negligenza dell’operatore sanitario; l’applicazione, in corso di giudizio, di una nuova legge di interpretazione autentica in materia pensionistica.
Nel caso Komissarov c. Repubblica Ceca, la Corte ribadisce i requisiti di legittimità della custodia cautelare finalizzata a eseguire una richiesta di estradizione, soprattutto se volta a ottenere, piuttosto che l’esecuzione di una sentenza di condanna, lo svolgimento del processo. L’esistenza di termini massimi di custodia è certamente significativa e non tollera “sospensioni” dettate dalla pendenza di procedimenti incidentali quali il riconoscimento dello status di rifugiato.
Nel caso Botoyan c. Armenia, vengono ripercorsi i molteplici profili che impegnano lo Stato rispetto alla negligenza medica: la predisposizione di norme e linee guida adeguate, la disciplina del consenso informato (sul punto sembra non occorra attestare per iscritto la sua acquisizione), i rimedi interni per l’accertamento dei fatti e per il risarcimento del danno. Nell’escludere difetti normativi, la Corte afferma che l’esistenza di una carenza organizzativa del personale medico (in ragione della quale l’intervento sulla ricorrente era stato eseguito da un medico non specialista) non determina di per sé una violazione, qualora causalmente non collegata al pregiudizio concretamente lamentato.
Infine, nel caso D’Amico c. Italia, la Corte reitera i dubbi di legittimità convenzionale dell’applicazione retroattiva delle leggi, soprattutto qualora contengano disposizioni transitorie volte a incidere sui procedimenti in corso, circostanza che sicuramente pregiudica la prevedibilità della decisione giudiziaria. I dubbi, già manifestati in ambito penale, sono qui confermati in materia pensionistica e possono essere superati solo in ragione di un interesse pubblico predominante (tale non sarebbe l’obiettivo parlamentare di rendere omogenei i regimi pensionistici di dipendenti pubblici e privati).
Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 3 febbraio 2022, ric. n. 20611/17, Komissarov c. Repubblica Ceca
Oggetto: Articolo 5 della Convenzione (Diritto alla libertà e alla sicurezza) – privazione della libertà per richiesta di estradizione – contestuale richiesta di asilo da parte dell’estradando – permanenza in carcere, pendente la richiesta di asilo.
Nel 1999, il ricorrente, residente in Repubblica Ceca, veniva accusato di frode dalle autorità russe. Le richieste di estradizione presentate tra il 2005 e il 2014 venivano respinte in quanto non suffragate dai documenti necessari. Nel 2015, il Tribunale di Praga accoglieva l’estradizione, a condizione che l’Ufficio del Procuratore Generale russo fornisse alcune garanzie; dopo il rigetto dell’impugnazione del ricorrente dinanzi all’Alta Corte di Praga, il Ministro della Giustizia autorizzava l’estradizione. La Corte costituzionale confermava tale decisione.
Dunque, il 16 maggio 2016 la polizia arrestava il ricorrente, sottoponendolo a custodia cautelare in attesa di estradizione. Quest’ultimo presentava domanda di asilo, con l’effetto di sospendere il procedimento di “preparazione” per l’estradizione. Dopo un mese, il ricorrente chiedeva la propria scarcerazione, in quanto la detenzione non aveva più alcuno scopo; in via subordinata, chiedeva l’adozione di misure alternative quali la cauzione o l’impegno a non fuggire.
Sia il Tribunale che l’Alta Corte di Praga respingevano integralmente l’istanza, anche sotto il profilo dell’adozione di misure alternative, ostandovi l’autorizzazione ministeriale dell’estradizione. Il rilascio, invece, era subordinato alla sospensione dell’ordine di estradizione ovvero al raggiungimento del termine legale di durata massima della custodia. In base alla giurisprudenza costituzionale, lo stato di detenzione in attesa di estradizione non poteva venir meno per il sol fatto che fosse stata presentata domanda di asilo.
Il ricorrente reiterava l’istanza di rilascio in considerazione di presunti ritardi nella procedura di asilo. Secondo i giudici nazionali, la durata della detenzione non poteva dirsi eccessivamente lunga, tenuto conto della procedura d’asilo avviata dal ricorrente.
Nel frattempo, le autorità ceche rigettavano la richiesta di asilo e, nel 2017, consegnavano il ricorrente alle autorità russe.
Il ricorrente adiva la Corte di Strasburgo lamentando l’illegittimità della detenzione subita in attesa di estradizione.
Al fine di valutare la durata della detenzione in attesa di estradizione, la Corte suole distinguere due ipotesi: l’estradizione richiesta ai fini dell’esecuzione di una pena e quella richiesta ai fini di giudicare l’interessato. La seconda ipotesi si contraddistingue per tre connotati: (a) la persona detenuta deve essere ritenuta innocente; (b) non può esercitare i diritti della difesa; (c) lo Stato richiesto non ha il diritto di esaminare il merito della denuncia.
La Corte ribadisce che l’esistenza o meno di termini è uno dei numerosi elementi da prendere in considerazione per valutare la qualità del diritto interno, in termini di accessibilità, precisione e prevedibilità. Di per sé, i termini non sono né necessari né sufficienti per garantire il rispetto dei requisiti di cui all’articolo 5 § 1 lett. f della Convenzione; tuttavia, laddove esistano termini fissi, il loro mancato rispetto può rilevare per la questione della “legittimità” della detenzione.
In generale, la Corte propende per la valorizzazione delle caratteristiche del caso concreto: così, fattori rilevanti per valutare la “qualità del diritto”, contro l’arbitrarietà, sono l’esistenza di chiare disposizioni giuridiche per ordinare il trattenimento, per estenderne la durata o per fissarne i termini.
Nel caso di specie, tuttavia, esistono dei termini massimi di detenzione e risultano ampiamente superati: la decisione amministrativa di respingere la domanda d’asilo del ricorrente è stata emessa solo dopo otto mesi - ossia dopo un periodo superiore di quattro volte il massimo consentito dal diritto interno; anche la procedura d’asilo è durata quasi diciassette mesi, anziché sei.
La durata della detenzione era legata alla procedura di asilo, sicché il ritardo nella conclusione di quest’ultima ha determinato la violazione anche della prima.
Sentenza della Corte Edu (Quarta Sezione), 8 febbraio 2022, ric. n. 5766/17, Botoyan c. Armenia
Oggetto: Articolo 8 della Convenzione (Rispetto della vita privata) – diritto alla salute – condizioni di responsabilità dello Stato per l’operato di un ospedale pubblico, in caso di negligenza medica – obblighi positivi relativi alla predisposizione di un sistema normativo adeguato – disciplina del consenso informato – esistenza di una procedura efficace a fini risarcitori.
Nel 2008 la ricorrente cadeva dalle scale, rompendosi la gamba sinistra; veniva dunque portata in ambulanza presso un ospedale pubblico e ricoverata per un intervento chirurgico.
Il dottor A.A., chirurgo generale dell’ospedale, operava la ricorrente, inserendo impianti metallici nella gamba per stabilizzare la frattura ossea.
La cartella medica attestava che la ricorrente era stata informata di aver ricevuto un trattamento nell’ambito del sistema sanitario pubblico.
Inoltre, secondo il Governo, la ricorrente era stata informata anche prima dell’intervento, oralmente, delle conseguenze di quest’ultimo (in particolare, che sarebbe stata in grado di camminare ma non come in precedenza). La ricorrente contestava parzialmente questo argomento, sostenendo di essere stata informata solo degli aspetti finanziari dell’operazione.
Al momento delle dimissioni, l’ospedale non forniva alcun documento medico attestante lo stato di salute della ricorrente che, in seguito, rimaneva sotto la supervisione, tramite visite domiciliari, del dottor A.A.
La ferita tuttavia s’infettava, determinando febbri frequenti e dolore alla gamba.
Nel 2008, la ricorrente veniva operata dal dott. K.K., traumatologo presso un diverso ospedale, il quale le rimuoveva gli impianti metallici.
In seguito, la ricorrente inviava talune lettere di reclamo a vari organi statali, tra cui il Ministero della Sanità, sostenendo che il dottor A.A. era responsabile dei danni causati.
Il Dipartimento regionale della salute e della sicurezza sociale organizzava una consultazione in presenza del capo chirurgo ortopedico e del capo chirurgo regionale, del dottor A.A. e del capo del Centro medico in cui la ricorrente aveva subito la prima operazione, accertando: l’esecuzione di un’osteosintesi con placca ortopedica e vite; l’esecuzione corretta dell’intervento; la fissazione della frattura ossea con dispositivi metallici standard dello Stato; l’insorgere, quale complicanza “comune” e indipendente dall’intervento chirurgico, di un’osteoartrite deformativa post-traumatica dell’articolazione della caviglia.
Nel frattempo, la ricorrente, qualificatasi per il sussidio d’invalidità permanente, interponeva querela contro il dottor A.A. per negligenza medica.
Con l’avvio del procedimento penale, l’autorità inquirente ordinava un esame medico legale e interrogava sia il dottor A.A. sia il dottor K.K. Il primo spiegava lo svolgimento dell’operazione chirurgica, le successive visite domiciliari e la personale offerta di rimuovere chirurgicamente gli impianti metallici.
Il secondo dichiarava che la raccolta di pus, pur essendo una complicazione possibile, rara, al di fuori del controllo del professionista, dovesse essere oggetto di informazione preventiva al paziente.
In base alle due testimonianze e alla relazione peritale, secondo cui non era possibile individuare una causa specifica dell’infezione, il pubblico ministero chiudeva il procedimento.
La ricorrente contestava siffatta decisione sul presupposto che, nel corso dell’inchiesta, non fossero state chiarite diverse questioni: se il dottor A.A. avesse l’autorità/competenza per eseguire l’intervento, per quanto tempo le protesi metalliche avrebbero dovuto rimanere nel corpo della ricorrente, il tipo di assistenza post-operatoria che avrebbe dovuto ricevere, la mancata informazione circa le possibili complicazioni dell’intervento.
Sia il pubblico ministero che il Tribunale respingevano le contestazioni sollevate dalla ricorrente, mentre la Corte di appello le accoglieva, restituendo il fascicolo al pubblico ministero.
Le indagini venivano riaperte. Durante una nuova audizione, il dottor A.A. dichiarava che gli impianti metallici, di tipologia statale standard, non erano stati acquistati dall’ospedale, bensì erano stati lasciati da un paziente con una frattura; nuovi e disponibili, i medesimi erano stati utilizzati dopo la disinfezione.
Nella propria relazione, i periti ribadivano l’impossibilità di ricondurre le complicazioni post-operatorie a mancanze, omissioni o errori da parte del personale medico. Tuttavia, sottolineavano che, in considerazione della natura del trauma e della specializzazione del dottor A.A., questi era tenuto a garantire esclusivamente l’assistenza medica di primo soccorso (immobilizzazione della frattura, somministrazione di analgesici) e non l’intervento specialistico, che viceversa sarebbe stato opportuno affidare a un traumatologo ortopedico. Tale circostanza, pur denotando una mancanza organizzativa dell’ospedale, non avrebbe influito sull’insorgenza delle complicazioni.
Infine, il Ministero della salute rilevava la mancanza di linee guida su trattamento, diritti e obblighi del personale medico delle strutture sanitarie, in particolare quelli del chirurgo e del traumatologo.
Sulla scorta delle nuove indagini, il pubblico ministero chiudeva il procedimento, evidenziando, in ordine all’utilizzo degli impianti metallici, la mancanza di disposizioni circa il loro approvvigionamento.
Non si poteva quindi concludere che il dottor A.A. fosse responsabile di qualsiasi azione illecita.
Le contestazioni della ricorrente venivano respinte dal Tribunale e dalla Corte di appello, infine ritenute irricevibili dalla Corte di Cassazione.
La ricorrente si rivolgeva dunque alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, lamentando la violazione del diritto alla salute in termini di violazione dell’articolo 8 della Convenzione.
In punto di ammissibilità del ricorso, il governo armeno eccepiva il mancato rispetto del termine semestrale per lamentare le carenze del quadro normativo, sull’assunto che il dies a quo coincidesse con l’ultima delle consultazioni del Dipartimento della Salute.
La Corte respinge l’eccezione rilevando, in primo luogo, che le questioni relative alla specializzazione medica del dottor A.A. o all’origine degli impianti metallici utilizzati durante l’intervento chirurgico non erano state discusse dal Dipartimento della Salute; in secondo luogo, che le carenze del quadro normativo erano state affrontate nel procedimento penale, sicché il termine semestrale sarebbe dovuto decorrere dalla chiusura definitiva di quest’ultimo.
Nel merito, la Corte ricorda che la tutela della salute, benché non inclusa espressamente tra i diritti garantiti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli, può essere imposta agli Stati contraenti in virtù degli obblighi positivi derivanti dagli artt. 2 e 8 della Convenzione, obblighi tra cui rientra la predisposizione di norme sull’adozione, da parte degli ospedali, di misure appropriate per proteggere l’integrità fisica dei pazienti, nonché su rimedi risarcitori adeguati in favore delle vittime di negligenza medica.
La Corte ha già affrontato anche la questione del consenso informato, sottolineando l’importanza dell’accesso dei pazienti alle informazioni sui rischi derivanti da interventi e trattamenti. Ne discende l’obbligo degli Stati di predisporre una normativa che imponga ai medici di considerare e informare i pazienti delle conseguenze prevedibili di un intervento programmato.
In concreto, la Corte sottolinea che il presente caso non rientra in nessuna delle due categorie eccezionali suscettibili di “importare” direttamente la responsabilità dello Stato per atti e omissioni dei fornitori di servizi sanitari: premesso che il danno alla salute in esame non è stato causato intenzionalmente, la ricorrente non ha lamentato né la negazione dell’accesso alle cure, né la disfunzione sistemica o strutturale dei servizi ospedalieri. Ne discende l’impossibilità di rilevare una violazione della Convenzione sulla sola base della presunta negligenza del medico nell’eseguire l’intervento medico sul ricorrente.
Tuttavia, le doglianze della ricorrente riguardano anche (i) l’assenza, all’epoca dei fatti, di un quadro normativo pertinente, (ii) la mancata informazione sull’operazione e sui rischi associati, (iii) la risposta inadeguata da parte delle autorità.
(i) In ordine al quadro normativo, da una parte, risulta che i medici armeni hanno l’obbligo di possedere una licenza corrispondente alla loro specializzazione per esercitare alcuni tipi di attività medica; dall’altra, non sussistono norme di legge riguardanti le specializzazioni chirurgiche, la traumatologia e l’ortopedia o l’acquisto di apparecchi ortopedici. Tuttavia, il semplice fatto che il quadro normativo possa essere carente non è di per sé sufficiente per rilevare una violazione della Convenzione, dovendosene dimostrare la pertinenza rispetto al danno subito dall’interessato.
Nel caso di specie, non è stato dimostrato che le carenze in questione abbiano contribuito al danno causato alla salute della ricorrente.
(ii) Anche rispetto alla questione del consenso informato, la Corte rileva l’esistenza di un quadro giuridico idoneo, che contempla il diritto di informazione del paziente sui metodi di diagnosi, sul trattamento della malattia, su rischi e conseguenze connessi.
Dunque, non vi è stata alcuna violazione dell’articolo 8 della Convenzione per quanto riguarda la presunta assenza di un quadro normativo pertinente.
(iii) In ordine all’accesso a una procedura in grado di accertare i fatti rilevanti, di ritenere responsabili i colpevoli e di fornire al ricorrente una riparazione adeguata, la ricorrente ha denunciato l’intervento eseguito dal dottor A.A. a varie agenzie statali nonché all’autorità giudiziaria penale, sostenendo di essere stata vittima di una negligenza medica; viceversa, non ha intentato una causa civile per danni.
Nella prospettiva della Corte, alla luce dei margini di apprezzamento spettanti agli Stati, la Convenzione non richiede un meccanismo speciale che faciliti la presentazione di domande di risarcimento per malpractice medica a livello nazionale; un meccanismo di tal fatta richiede inoltre cautela, soprattutto in considerazione dei possibili effetti collaterali, in particolare in considerazione del rischio di compromettere la morale professionale dei medici, inducendoli a praticare, spesso a scapito dei loro pazienti, la nota “medicina difensiva”.
Nel caso di specie, la ricorrente ha intrapreso la strada dell’accertamento della responsabilità penale, piuttosto che quella civile, scelta di per sé non irragionevole.
La Corte osserva che, salvi i casi di arbitrarietà o di errore manifesto, non le compete rimettere in discussione le constatazioni fattuali delle autorità nazionali, in particolare quando si tratta di valutazioni di esperti scientifici, che per definizione richiedono una conoscenza specifica e dettagliata della materia. Tuttavia, nell’ambito del procedimento penale, l’autorità inquirente non ha mai indagato in ordine alle lamentele relative all’assenza del suo consenso informato o allo stato degli impianti metallici (quest’ultima censura liquidata a fronte della mancanza di una normativa che stabilisse le modalità e le responsabilità per l’approvvigionamento degli impianti).
Si tratta di carenze investigative che denotano l’inefficacia del procedimento penale ai fini dell’art. 8.
Rimane però da esaminare se la ricorrente avesse a disposizione altri rimedi.
Quanto al rimedio civile, il governo armeno non ha dimostrato l’esistenza di un ricorso di diritto civile effettivo per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale da parte di un ospedale pubblico; parimenti non sembra che fossero effettivi, né disponibili, i rimedi, pure eccepiti dal governo, disciplinari o l’azione amministrativa contro i risultati delle consultazioni del Dipartimento della Salute
Per queste ragioni, la Corte respinge l’obiezione del Governo di mancato esaurimento dei rimedi interni e conclude per la violazione dell’articolo 8 della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 17 febbraio 2022, ric. n. 46586/14, D’Amico c. Italia
Oggetto: Articolo 6 § 1 della Convenzione (Equo processo) – legge d’interpretazione autentica in materia pensionistica e applicazione ai contenziosi pendenti – obiettivo di armonizzare il regime pensionistico tra dipendenti pubblici e privati – retroattività non sorretta da un motivo di interesse generale sufficientemente “convincente”.
Il marito della ricorrente, a partire dal 1º gennaio 1990, percepiva una pensione comprensiva di un’indennità supplementare speciale (indennità integrativa speciale - IIS), quale adeguamento del costo della vita. Conformemente alle leggi applicabili all’epoca, le pensioni dei dipendenti pubblici non erano basate sul principio di “onnicomprensività”, come nel caso delle pensioni dei dipendenti del settore privato, in quanto costituite da un elemento retributivo fisso e da una serie di altri elementi indipendenti, quali appunto l’IIS. Conseguentemente, mentre la pensione versata al superstite di un dipendente del settore privato è calcolata in percentuale rispetto alla pensione complessiva, la pensione versata al superstite di un dipendente pubblico è calcolata in percentuale del solo elemento retributivo fisso, dovendo poi le indennità accessorie esser pagate integralmente.
Dal 1994 il Parlamento italiano approvava una serie di leggi volte ad armonizzare i regimi pensionistici dei dipendenti del settore pubblico e privato. In particolare, la legge n. 724/1994 prevedeva che le pensioni dei dipendenti pubblici dovessero essere determinate da un unico calcolo sulla base degli elementi salariali soggetti a contribuzione, IIS compresa; prevedeva, altresì, che, per quanti percepissero una pensione già nel 1990, permanessero in vigore le disposizioni previgenti.
Successivamente, la legge n. 335/1995, senza abrogare esplicitamente la legge n. 724/1994, estendeva norme sulle pensioni di reversibilità a tutte le forme di assicurazione generale obbligatoria.
Col decesso del marito, nel 2002, la ricorrente iniziava a percepire una pensione di reversibilità pari al 60% della pensione del primo, comprensiva dell’IIS che, ai sensi della legge n. 335/1995, veniva cumulata allo stipendio e pagata come percentuale della pensione originaria complessiva.
La ricorrente adiva la Corte dei conti della Basilicata contro l’Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti dell’Amministrazione Pubblica (INPDAP – attuale INPS), lamentando che l’IIS avrebbe dovuto essere corrisposta nella sua interezza, cioè come indennità accessoria, e non come percentuale della prestazione originariamente corrisposta al defunto marito.
La Corte dei conti della Basilicata accoglieva la domanda richiamando una sentenza delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti (n. 8/QM/2002), secondo cui il sistema previsto dalla legge n. 335/1995 si sarebbe dovuto applicare solo alle pensioni dirette, da pagare dopo il 1° gennaio 1995, poiché la corresponsione della pensione di A.C. era iniziata nel 1990, l’IIS era dovuta nella sua interezza.
Pendente l’impugnazione dell’INPDAP, la legge n. 296/2006 provvedeva a un’interpretazione autentica della legge n. 335/1995, stabilendo che, nei casi di pensioni di reversibilità percepite dopo l’entrata in vigore della legge n. 335/1995, indipendentemente dalla data di pagamento della pensione diretta, l’IIS doveva essere pagata in percentuale, formando parte integrante della pensione principale.
Allineandosi alla novella, la Sezione centrale della Corte dei conti accoglieva il ricorso INPDAP.
La ricorrente si rivolge alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, lamentando la violazione dell’equo processo ai sensi dell’art. 6 § 1 della Convenzione, in relazione all’incidenza dell’intervento normativo del 2006 sul contenzioso pendente.
In punto di ammissibilità, la Corte respinge l’eccezione formulata sulla base del principio generale de minimis non curat praetor sotteso all’art. 35 § 3 (b), norma tesa a garantire che siano sottoposti all’esame di un tribunale internazionale solo casi in cui la violazione di un diritto ha raggiunto un livello minimo di gravità. Tenuto conto dei calcoli effettuati dal Governo e dell’impatto finanziario sulla ricorrente (una pensionata di una certa età che non riceveva una pensione diversa da quella versatale in quanto coniuge superstite di A.C.) la Corte non esclude la presenza di uno svantaggio significativo.
La premessa della valutazione di merito concerne la legittimità delle disposizioni di legge retroattive, di per sé non vietate dalla giurisprudenza convenzionale, ma subordinate al rispetto dei principi propri dello Stato di diritto e dell’equità del processo sancita dall’articolo 6: in base a questi ultimi, il legislatore non può interferire con l’amministrazione della giustizia, al fine di influenzare la decisione giudiziaria di una controversia, se non per impellenti motivi di interesse pubblico.
Nel caso di specie, la legge n. 296/2006 esclude espressamente dal suo campo di applicazione le pensioni di reversibilità già determinate in decisioni giudiziarie definitive, mentre, per le pensioni ancora sotto giudizio, ne ha modificato l’esito favorendo la posizione dello Stato.
Sotto il profilo dei motivi di interesse pubblico che eccezionalmente possono giustificare l’incidenza del legislatore sul contenzioso pendente, il governo eccepiva diversi argomenti.
In primo luogo, l’esistenza di un filone minoritario di giurisprudenza sfavorevole agli individui nella stessa posizione del ricorrente (confermato dalla Corte costituzionale nella sua sentenza del 2011). Sul punto la Corte di Strasburgo rileva come l’esistenza di decisioni giudiziarie contrastanti, soprattutto dopo la sentenza delle Sezioni unite della Corte dei conti, non giustifichi un intervento legislativo in pendenza di giudizio: i contrasti giudiziari rappresentano una conseguenza intrinseca di qualsiasi sistema giudiziario basato su una rete di tribunali territorialmente dislocati e la loro risoluzione tradizionalmente spetta proprio alle Corti Supreme.
Quanto al secondo argomento eccepito, ossia lo squilibrio finanziario del sistema pensionistico, la Corte già in passato ha affermato che gli aspetti finanziari non possono da soli giustificare una sostituzione del legislatore ai tribunali per risolvere le controversie
Anche il terzo argomento, secondo cui la legge volgeva a realizzare un sistema pensionistico omogeneo, abolendo i favoritismi concessi ai pensionati del settore pubblico, offre una giustificazione “convincente” degli effetti collaterali connessi all’uso di norme che retroattivamente influenzino controversie pendenti.
A differenza di alcuni casi citati dal governo, in cui il procedimento nazionale risultava avviato nel tentativo di approfittare della “vulnerabilità delle autorità”, per taluni difetti tecnici della legge, e la successiva azione dello Stato, volta a porre rimedio alla situazione, risultava prevedibile, nel caso di specie, non sussistevano gravi vizi di diritto.
Anche supponendo che la legge del 2006 mirasse a “re-introdurre” l’intenzione originaria del legislatore, l’obiettivo di armonizzare il sistema pensionistico, pur d’interesse generale, non giustifica la strada a tal fine scelta, ossia l’applicazione retroattiva della legge.
Sussiste quindi una violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione.
Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
Emilio Bufano, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa