Le pronunce di novembre della Corte Edu qui selezionate concernono la rilevanza dell’elemento soggettivo ai fini del ne bis in idem tra procedimento amministrativo e penale, gli obblighi positivi in materia registrazione del rapporto di filiazione, nonché l’impatto della stampa sull’imparzialità dei giudici e sulla presunzione d’innocenza.
In C.Y. c. Belgio, la Corte, nel vagliare la duplicazione di procedimenti “penali”, ritiene che il differente elemento soggettivo (intento fraudolento nel procedimento penale, negligenza nel procedimento amministrativo) non rilevi ai fini dell’idem naturalistico, potendo al più essere valorizzato entro il test di connessione sostanziale e temporale, quale indice di complementarità tra procedimenti.
In G.T.B. c. Spagna, la Corte ha sanzionato il mancato rispetto dell’obbligo positivo di attivarsi da parte delle autorità nazionali in un contesto di incertezza circa il rapporto di filiazione di un cittadino nato all’estero e in assenza di documenti che potessero dimostrare il suo status per causa non imputabile a lui o alla madre.
In Tadić c. Croazia, accanto alla questione dell’imparzialità o indipendenza oggettiva dei giudici, implicante anche la valutazione dell’organizzazione del lavoro giudiziario e i rapporti tra giudici e presidente del tribunale, la Corte ribadisce la potenziale responsabilità dello Stato per campagne stampe su procedimenti penali e, in particolare, su atti di indagini ed elementi di prova capaci di influenzare l’esito del procedimento, la percezione del medesimo o comunque l’immagine dell’imputato.
Sentenza della Corte Edu (Seconda Sezione), 14 novembre 2023, C.Y. c. Belgio, ric. n. 19961/17
Oggetto: art. 4 Prot. n. 7 (diritto di non essere giudicato o punito due volte) – indagini del servizio medico per indebiti ottenuti con fatturazioni illegittime – procedimento amministrativo per ottenere la restituzione dell’indebito e irrogare una sanzione amministrativa – sospensione del procedimento amministrativo in attesa del procedimento penale per frode e falso – assoluzione per mancanza di intento fraudolento – ripresa del procedimento amministrativo e irrogazione della pertinente sanzione – natura civile della richiesta di restituzione dell’indebito, ma natura “penale” della sanzione amministrativa – irrilevanza, nella valutazione dell’idem naturalistico, del differente elemento soggettivo (intento fraudolento, nel procedimento penale; negligenza, nel procedimento amministrativo) – esclusione dell’illegittima duplicazione di procedimenti (del bis) alla luce della complementarietà dei fini e degli aspetti di danno sanzionati nei due procedimenti, dell’utilizzo e della valutazione del medesimo compendio probatorio, della prevedibile soggezione a entrambi i procedimenti, della commisurazione sanzionatoria proporzionata (stante il riferimento espresso, da parte del giudice amministrativo, alla decisione penale).
Nel 2007, la ricorrente, infermiera a domicilio, veniva indagata dal Servizio di Valutazione e Controllo Medico (SECM - Service d’évaluation et de contrôle médicaux) dell’Istituto Nazionale Assicurativo di Malattie e Invalidità (INAMI - l’Institut national d’assurance maladie-invalidité) per aver addebitato al regime di assicurazione obbligatoria delle assicurazioni sanitarie e previdenziali prestazioni non pagate ovvero non conformi ai requisiti di legge. La ricorrente, ascoltata unitamente a otto suoi pazienti, ammetteva gli errori di fatturazione e s’impegnava a rimborsare l’indebito (euro 124.902,23).
Nel 2008, i medesimi fatti venivano denunciati al Pubblico Ministero e il pertinente procedimento penale (per falso, uso di falso e frode) si concludeva con la condanna, sospesa, a un anno di reclusione e multa di 550 euro, con riserva sulle statuizioni civili. In appello, nel 2015, la ricorrente veniva assolta per mancanza di prova dell’intento fraudolento.
Parallelamente alla denuncia penale, il SECM si rivolgeva alla “Camera di prima istanza” per ottenere il rimborso dell’indebito e l’irrogazione delle sanzioni amministrative. In primo grado, la ricorrente veniva condannata al rimborso dell’indebito (124.902,23 euro) e al pagamento delle sanzioni amministrative (243.850,40 e 4.465,54 euro). In appello, dopo la sospensione in attesa del procedimento penale, i giudici rigettavano l’eccezione di ne bis in idem rilevando la diversità dei fatti contestati nei due procedimenti (falso e frode nel procedimento penale, mera difformità delle fatturazioni nel procedimento amministrativo) e confermavano la condanna della ricorrente, ridimensionando gli importi. La decisione veniva ritenuta legittima in ultima istanza.
Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la ricorrente lamentava la violazione del principio del ne bis in idem ai sensi dell’art. 4 del Prot. 7.
Sotto il profilo dell’ammissibilità, il governo belga eccepiva la natura non penale del procedimento per la ripetizione dell’indebito e l’irrogazione della sanzione amministrativa; la Corte, alla luce della giurisprudenza sviluppata in relazione ai “criteri Engel”, ritiene, da una parte, che il recupero dell’indebito non avesse scopo dissuasivo o repressivo e che ponesse quindi una questione di natura civile; dall’altra, che l’ammenda amministrativa fosse prevista dal codice penale, che la sua commisurazione fosse avvenuta in base a parametri del codice penale, che avesse la funzione di punire la negligenza e che, nonostante l’importo limitato, la medesima dovesse essere considerata “penale” ai fini della Convenzione.
Nel merito, la Corte rammenta le diverse fasi del test per vagliare l’osservanza del principio del ne bis in idem, fasi volte a verificare le seguenti condizioni: (a) natura penale dei procedimenti o delle sanzioni; (b) esistenza dell’idem fattuale tra i due procedimenti; (b) reiterazione dell’azione, dunque esistenza di un bis tra i procedimenti.
Stante l’affermazione della natura penale di entrambi i procedimenti, la Corte rileva che, alla luce del parametro naturalistico (e non giuridico) per vagliare l’identità dei fatti sottoposti a giudizio, il complesso fattuale considerato era il medesimo e che l’unico elemento differenziale era l’intento fraudolento, un elemento che, in base alla giurisprudenza della Corte, è irrilevante nel giudizio sull’idem. Sotto il profilo della reiterazione, del bis, la Corte menziona gli indici da considerare nell’ambito del test sulla “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” (lien matériel et temporel suffisamment étroit): la complementarietà degli obiettivi e degli aspetti di danno sanzionati nei due procedimenti; la prevedibilità della soggezione a entrambi i procedimenti; la conduzione dei procedimenti in modo da evitare duplicazioni nella raccolta e nella valutazione delle prove; l’esistenza di un meccanismo di compensazione tra le sanzioni. In concreto, la Corte osserva che i due procedimenti (penale e amministrativo) perseguivano obiettivi complementari e riguardavano non solo in astratto ma anche in concreto aspetti diversi dell’atto dannoso per la società (proteggere, da una parte, gli interessi generali della società, dall’altra, quelli specifici dell’INAMI e il suo corretto funzionamento, per il finanziamento generale della sicurezza sociale; l’ammenda amministrativa era commisurata a sanzionare la negligenza, indipendentemente dall’intento fraudolento (rilevante in ambito penale); la mancanza di prevedibilità non era stata dimostrata dalla ricorrente; le prove utilizzate nei due procedimenti sono state le medesime; nel procedimento amministrativo, i giudici hanno tenuto contro della sentenza della Corte di Appello penale e dunque dell’esclusione dell’intento fraudolento. Alla luce del dimostrato legame materiale e dell’esistenza di una connessione anche temporale, la Corte esclude la violazione dell’art. 4 del Prot. n. 7.
Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 16 novembre 2023, G.T.B. c. Spagna, ric. n. 3041/19
Oggetto: art. 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata) – Mancato rispetto da parte delle autorità nazionali dell'obbligo positivo di concedere la registrazione della nascita e, di conseguenza, i documenti d'identità - Diritto di far registrare la propria nascita e di avere accesso ad altri documenti d'identità - Importanza della "registrazione della nascita" – Ampio margine di discrezionalità sui requisiti giuridici sostanziali e procedurali per la registrazione – Test a due livelli - Momento in cui le autorità erano sufficientemente consapevoli della situazione particolare e potevano ragionevolmente aspettarsi di adottare misure attive – Adozione di misure sufficientemente adeguate e tempestive per assistere il richiedente
Il ricorrente è un cittadino spagnolo nato in Messico. A seguito di un terremoto in Messico la madre ha chiesto di essere rimpatriata in Spagna, dove si è stabilità con la famiglia. Tuttavia, il ricorrente non è stato registrato come nato in Messico al momento del suo arrivo. All’età di 12 anni, la madre aveva cercato di registrare la sua nascita presso il Registro Civile giurando davanti a un giudice che si trattava di suo figlio, alla presenza di testimoni che hanno confermato la veridicità della sua dichiarazione. Il Registro aveva ritenuto di avere informazioni adeguate. Tuttavia, il Registro Civile Centrale, competente per le nascite all'estero, non era stato soddisfatto e aveva chiesto una documentazione delle autorità messicane, che la madre non era stata in grado di fornire. Qualche anno dopo la madre si è nuovamente messa in contatto con le autorità per registrare la sua nascita, sottolineando che in assenza di tale riconoscimento né il ricorrente né suo fratello erano in possesso di carte d'identità. Le autorità hanno nuovamente affermato che erano necessari i documenti dal Messico. In risposta, la madre ha comunicato che i documenti richiesti erano stati distrutti dal terremoto e quindi erano impossibili da reperire e produrre. Successivamente gli enti nazionali e i rispettivi consolati del Messico e della Spagna hanno avviato una interlocuzione infruttuosa per diversi anni. Solo a distanza di molti anni Stato sono proseguiti per gli anni successivi, fino a quando la nascita di G.T.B. è stata finalmente registrata solamente nove anni dopo la prima richiesta consentendo al ricorrente di ottenere un documento di identità spagnolo.
Di fronte alla Corte EDU il ricorrente ha lamentato la violazione dell'articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) dovuta al ritardo e agli ostacoli incontrati nella procedura di registrazione della sua nascita per poter ottenere una carta d'identità.
La Corte ha osservato che questo era il primo caso in cui esaminava il diritto a un certificato di nascita ai sensi dell'articolo 8. La denuncia del ricorrente in questo caso non riguardava un'azione da parte dello Stato, ma l'omissione di agire e di farlo con la necessaria tempestività. In particolare, le autorità avevano omesso di agire mentre lui, allora minorenne, rischiava una violazione del suo diritto alla vita privata, che risultava compromessa dall’assenza di uno status di filiazione riconosciuto nello stato di residenza e di nazionalità e dall’impossibilità di ottenere un documento di riconoscimento.
Nell’effettuare una valutazione generale della legislazione spagnola in materia di registrazione delle nascite la Corte ha innanzitutto osservato che il diritto di ottenere un certificato di nascita e, sulla base di questo, altri documenti d'identità dalle autorità statali competenti per le persone sotto la loro giurisdizione è ovviamente subordinato al soddisfacimento da parte dell'interessato di una serie di requisiti sostanziali e procedurali previsti dal diritto interno. Tali requisiti possono naturalmente includere una norma secondo cui il rilascio dei documenti d'identità deve essere richiesto dall'interessato, dai suoi rappresentanti legali o da qualsiasi altra persona o istituzione designata dalla legge. Tali requisiti mirano a salvaguardare la coerenza e l’affidabilità dei registri civili e, più in generale, della certezza del diritto, che sono obiettivi di interesse generale che giustificano, in linea di principio, l’applicazione di procedure rigorose per la registrazione della nascita, in particolare quando questa è avvenuta al di fuori del territorio dello Stato interessato.
Per la Corte, gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento per quanto riguarda i mezzi appropriati per garantire il godimento del diritto alla registrazione della nascita e all'accesso ai documenti d'identità derivante dall'articolo 8 della Convenzione, ma fintanto che i requisiti legali pertinenti sono soddisfatti, lo Stato ha l'obbligo di rilasciare i certificati di nascita e l'accesso ad altri documenti d'identità correlati al fine di preservare il diritto al rispetto della vita privata.
Tuttavia, la legislazione per essere rispettosa dei diritti della Convenzione, deve mantenere un certo grado di adattabilità quando le circostanze lo rendano indispensabile. Nel caso di specie, dal momento che le autorità nazionali erano venute a conoscenza di tale situazione di precarietà avevano l'obbligo di adottare misure specifiche per assistere il ricorrente nell'ottenimento della documentazione e per garantire il rispetto dei suoi diritti di cui all'articolo 8.
Al fine di valutare la diligenza adottata dalle autorità nell’adempiere a tale obbligo positivo, la Corte ha distinto due periodi della suddetta vicenda. Quando la madre del ricorrente ha inizialmente cercato di registrare la nascita, il Registro centrale competente per le nascite all’estero si era attivato per richiedere alla madre la documentazione necessaria, compresa la registrazione della nascita in Messico. La madre non era stata in grado di fornirla senza inizialmente addurre un motivo valido. Visti gli sforzi compiuti dal Registro centrale in questa fase iniziale, la Corte ha ritenuto che lo Stato non fosse venuto meno agli obblighi della Convenzione nei confronti di G.T.B.
Nel periodo successivo, nonostante i tentativi di rintracciare i documenti in Messico, era stato chiaro alle autorità che i documenti non sarebbero stati trovati. La madre aveva chiesto la registrazione urgente dei suoi figli. Nonostante li avesse riconosciuti come suoi figli davanti a un giudice per la seconda volta, le loro nascite non erano ancora state registrate. Da quel momento, sono trascorsi ulteriori quattro anni prima che le autorità consegnassero al ricorrente una carta d'identità, durante i quali le autorità hanno reiterato inutilmente la richiesta di documenti che ormai era acclarato non potessero essere prodotti dalla madre del ricorrente.
La Corte ha osservato le gravi conseguenze per il ricorrente della mancanza di identificazione, che potrebbero anche essere qualificate come "negligenza", e ha ritenuto che le autorità avrebbero dovuto fare di più per aiutarlo durante quel periodo. Di conseguenza, la Corte ha riscontrato una violazione degli obblighi delle autorità di garantire al ricorrente il godimento del diritto al rispetto della sua vita privata ai sensi dell'articolo 8.
Sentenza della Corte Edu (Seconda Sezione), 28 novembre 2023, Tadić c. Croazia, ric. n. 25551/18
Oggetto: articolo 6 della Convenzione (equo processo) – aspetto penale – tentativo del ricorrente di influenzare il presidente della Corte Suprema croata per modificare la decisione di un procedimento penale contro un noto politico – condanna del ricorrente all’esito del procedimento penale in cui il presidente della Corte Suprema deponeva quale testimone d’accusa – dubbi di parzialità della Corte Suprema, chiamata a giudicare l’impugnazione del ricorrente, stante l’articolo di stampa sull’incontro tra ricorrente e presidente della Corte suprema – incidenza sulla presunzione di innocenza.
Nel 2009, B.G., un noto politico croato, veniva condannato in primo grado a dieci anni di reclusione per crimini di guerra contro la popolazione civile. L’anno dopo, la Corte Suprema confermava la responsabilità di B.G., riducendo però la pena ad anni otto di reclusione.
L’Agenzia per la sicurezza sospettava che taluno si stesse attivando per influenzare la decisione della Corte Suprema, sicché avviava indagini anche nei confronti del ricorrente. Nel 2011, due coindagati del ricorrente suggerivano agli investigatori di interrogare B.H., all’epoca presidente della Corte Suprema: questi riferiva di aver cenato, l’anno prima, col ricorrente e altre persone e che il primo gli aveva parlato del caso di B.H., facendo intendere di conoscere informazioni allora riservate e chiedendogli di assegnare il caso a un determinato consulente della sezione archivi; B.H. aveva subito riferito tale conversazione alla Procura Generale dello Stato.
Il ricorrente veniva accusato di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di reati quali l’istigazione e l’intercessione illegale.
Al termine del processo di primo grado, in cui B.H. veniva ascoltato quale testimone, il Tribunale di Zagabria condannava il ricorrente a due anni di reclusione, ritenendolo colpevole soprattutto alla luce delle risultanze della sorveglianza segreta e della confessione di un coindagato; circa la conversazione intercorsa tra il ricorrente e B.H., il Tribunale rilevava la divergenza delle rispettive versioni.
Sia il ricorrente che l’accusa presentavano ricorso dinanzi alla Corte Suprema.
Mentre i ricorsi erano pendenti, un quotidiano nazionale pubblicava un articolo sulla scoperta di infiltrazioni nella Corte Suprema, in cui si faceva riferimento alle intercettazioni, alle conversazioni in cui il ricorrente era coinvolto, comprese quelle condotte dall’Intelligence e mai confluite nel procedimento penale, al possibile ruolo di B.H.
Due mesi dopo, la Corte Suprema rigettava le impugnazioni, rilevando l’irrilevanza della questione di credibilità di B.H., sollevata dal ricorrente, stante la valorizzazione, ai fini della condanna, della conversazione in sé e di altri elementi di prova; la Corte non menzionava l’articolo.
Il ricorrente adiva altresì la Corte costituzionale, lamentando in particolare la violazione del principio di imparzialità: poiché B.H. si era dovuto difendere, davanti ai media, dalle affermazioni pubblicate dal suddetto articolo, la Corte Suprema, nel decidere l’impugnazione del ricorrente, aveva dovuto tutelare l’immagine del suo presidente. La Corte costituzionale escludeva l’incidenza dell’articolo sulla decisione della Corte Suprema, nonché sottolineava l’irrilevanza della veridicità o meno delle dichiarazioni di B.H.
Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il ricorrente lamentava l’iniquità del processo penale, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione, per mancanza di imparzialità della Corte suprema che l’aveva giudicato, nonché per violazione del principio di presunzione d’innocenza, in ragione della pubblicazione da parte dei media, due mesi prima del verdetto, di intercettazioni che lo riguardavano.
La Corte, ritenuta l’ammissibilità del ricorso e richiamata la giurisprudenza più rilevante in tema di imparzialità dei tribunali (Morice c. Francia [GC], n. 29369/10, 2015; Denisov c. Ucraina [GC], n. 76639/11, 25 settembre 2018), chiariva, in primo luogo, di dover affrontare solo la questione dell’imparzialità “oggettiva”, considerando sia la realtà della situazione sia le “apparenze” dinanzi alla società: occorre cioè stabilire se, a prescindere dalla condotta personale dei giudici, vi siano fatti accertabili che possono sollevare dubbi sulla loro imparzialità.
In concreto, la Corte esclude la violazione del principio di imparzialità in virtù delle seguenti considerazioni: i fatti contro il ricorrente erano stati stabiliti in gran parte sulla base delle registrazioni di sorveglianza segreta, mai contestate per autenticità, e sulla base di testimonianze, compresa la confessione di un coindagato; il ricorrente e il suo avvocato avevano contro-esaminato B.H. in udienza; il ricorrente era già stato condannato dal tribunale di primo grado; secondo Corte di cassazione e la Corte costituzionale, la rilevanza della conversazione tra il ricorrente e B.H. non risiedeva nel contenuto delle specifiche dichiarazioni, ma nel fatto che avessero parlato del procedimento d’appello contro B.G.; la distribuzione delle cause tra i giudici all’interno della Corte Suprema era disciplinata da apposite norme e non rimessa alla discrezionalità del presidente; per quanto riguarda l’avanzamento di carriera e la disciplina dell’orario di lavoro, cioè gli ambiti che potenzialmente potrebbero avere un impatto significativo sull’indipendenza interna dei giudici, i poteri del presidente erano piuttosto limitati.
Con riguardo alla lamentata violazione della presunzione d’innocenza, la Corte riconosce che, in determinate situazioni, una campagna mediatica può influire negativamente sull’equità del procedimento e rendere lo Stato responsabile, sia nell’ottica dell’imparzialità che della presunzione di innocenza; tra gli indici pertinenti, richiama il tempo trascorso tra la campagna stampa e l’inizio del processo o la determinazione della composizione del tribunale, la riconducibilità delle informazioni pubblicate alle autorità procedenti, l’effettiva capacità di influenzare l’esito di un procedimento.
Nel caso di specie, la stampa pubblicava registrazioni effettuate dall’intelligence e non utilizzate nel procedimento penale e riservate, sicché le medesime dovevano ritenersi riconducibili all’autorità; tuttavia, la Corte esclude la violazione stante la professionalità dei giudici della Corte Suprema, il rigore della valutazione da quest’ultima effettuata.
Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa