Le sentenze di settembre più rilevanti della Corte europea dei diritti dell’uomo concernono ambiti tra loro diversissimi ma che in comune hanno la necessità di valutare le risposte dei giudici nazionali a situazioni “nuove”, spesso aventi un retrogusto conservatore.
Nel caso Sanchez c. Francia, la Corte delinea la responsabilità del titolare dell’account di un social (in particolare, di Facebook) per i commenti a un proprio post pubblicati da terze persone. L’importanza di tale tema è direttamente proporzionale alla crescita dell’utilizzo dei social da parte di personaggi pubblici, di esponenti politici. La decisione della Corte non è unanime, proprio perché riconoscere la responsabilità penale del titolare dell’account per i commenti dei suoi amici o seguaci (a seconda del social coinvolto) significa renderlo diretto controllore e censore della libertà di espressione di chi lo commenta, un ruolo che non gli compete e che rischia di deprimere, piuttosto che valorizzare, il confronto, il dibattito. La soluzione dovrà essere ben ponderata soprattutto alla luce di un fenomeno dilagante: non solo l’utilizzo dei social da parte della politica, ma l’utilizzo della politica da parte dei social.
Nel caso Pintar e altri c. Slovenia, la vocazione prettamente umanitaria della Convenzione e quella anche economica dell’Unione europea esigono, ancora una volta, un intervento di contemperamento da parte della Corte. In una vicenda concernente l’attività di controllo delle istituzioni europee circa la stabilità dei sistemi bancari e le misure nazionali di attuazione, la tutela dei diritti umani, in particolare del diritto di proprietà, può essere assicurata in chiave procedurale, predisponendo strumenti di contestazione e controllo.
Infine, nel caso X c. Polonia, la Corte applica il divieto di discriminazione in relazione al diritto alla vita familiare, in particolare per riconoscere piena potestà e custodia dei figli ad una madre, a prescindere dalla valutazione del suo orientamento sessuale. Un tema delicatissimo anche in Italia, dove però la voce dei cittadini trova coraggio e rivendica iniziative referendarie.
Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 2 settembre 2021, ric. n. 45581/15, Sanchez c. Francia
Oggetto: Articolo 10 della Convenzione (libertà di espressione) – candidato politico che non cancella prontamente dalla sua bacheca FB commenti di terzi contro gruppi musulmani – provocazione all’odio – responsabilità del ricorrente in quanto titolare dell’account.
Il ricorrente, sindaco e presidente di un gruppo politico, all’epoca dei fatti era candidato alle elezioni legislative nella circoscrizione di Nimes. Nell’ottobre 2011, il ricorrente pubblicava sulla bacheca del suo account Facebook, che gestiva personalmente e che era aperto al pubblico, un post riguardante un suo avversario politico. Due persone commentavano il post facendo trasparire disprezzo per la presenza musulmana presso la città di Nimes. Il giorno dopo, la compagna del principale avversario politico del ricorrente veniva a conoscenza dei commenti al post e, sentendosi direttamente insultata, sporgeva denuncia contro il ricorrente ed entrambi gli autori dei commenti.
I giudici nazionali, dopo aver constatato l’esatta individuazione dei destinatari dei commenti, ossia i gruppi musulmani, e l’assimilazione dei medesimi a spacciatori, prostitute, feccia, condannavano gli imputati per incitamento all’odio e alla violenza, irrogando loro una multa. In particolare, i giudici condannavano il ricorrente quale “produttore di un sito di comunicazione pubblica online che mette a disposizione del pubblico i messaggi inviati dagli utenti di internet”, come tale responsabile del contenuto dei messaggi solo se ne era a conoscenza prima della loro messa in linea ovvero se si è astenuto dal rimuoverli non appena venutone a conoscenza. Sul punto, i giudici rigettavano l’argomento difensivo per cui il ricorrente non aveva avuto tempo di leggere i commenti al post.
Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il ricorrente lamenta un’interferenza illegittima nella propria libertà di espressione.
La Corte, ritenuto che l’interferenza avesse sia una base legale prevedibile che uno scopo legittimo, ossia proteggere la reputazione o i diritti altrui, si sofferma sul requisito di “necessità dell’interferenza in una società democratica”. La valutazione di tale requisito viene effettuata sotto diversi profili. In primo luogo, la natura dei commenti era sicuramente illegale: l’esistenza di un contesto elettorale, benché implichi un’ampia libertà di espressione ai fini del dibattito politico, non giustifica la diffusione di messaggi contrari alla tolleranza e al rispetto della pari dignità. In secondo luogo, il mezzo di diffusione utilizzato, ossia l’account Facebook, rappresenta una forma di espressione destinata a raggiungere l’elettorato in senso lato, potenzialmente la popolazione nel suo insieme: si contraddistingue per grande accessibilità nonché capacità di immagazzinare e diffondere grandi quantità di dati. Ciò posto, la responsabilità dei politici nella lotta contro i discorsi d’odio si esplica anche entro piattaforme quali Facebook. Nel caso di specie, il Ricorrente non è stato criticato per aver usato il suo diritto alla libertà di espressione ma per non aver vigilato e reagito ai commenti pubblicati sulla bacheca del suo account (dopo sei settimane, i commenti erano ancora visibili). Un ulteriore profilo da considerare è quello delle conseguenze del procedimento interno nei confronti del ricorrente. A riguardo la Corte osserva che l’ammenda irrogata, in assenza di altre conseguenze provate dal ricorrente, non ha determinato un’ingerenza sproporzionata.
La decisione della Corte non è unanime, trovando un’opinione dissenziente quanto al rapporto tra responsabilità penale del titolare di un account Facebook e la posizione politica rivestita dallo stesso titolare. L’esistenza di una responsabilità derivata in capo al titolare di un account sarebbe dannosa per la libertà di espressione, incoraggiando l’autocensura, soprattutto qualora si tratti di personaggi pubblici o politici, con un numero elevato di “amici”. Il rischio di una giurisprudenza che non distingua (come invece aveva fatto la Corte nel diverso caso Delfi AS c. Estonia) i portali di notizie online gestiti a fini commerciali, su temi di attualità, da altri tipi di forum online, ove pubblicare idee su qualsiasi argomento, è quello di trasformare il titolare dell’account in un vero e proprio controllore, se non addirittura censore di ciò che viene commentato sulla sua home: di fronte al dubbio circa la natura litigiosa di un commento di cui il titolare non è l’autore, questi sarà incline a cancellare o denunciare il commento in nome del principio di precauzione.
Sentenza della Corte Edu (Seconda Sezione), 14 settembre 2021, ric. n. 49969/14 e altre 4, Pintar e altri c. Slovenia
Oggetto: Articolo 1 Protocollo I della Convenzione (protezione della proprietà) - Controllo dell'uso della proprietà - Nessuna ragionevole possibilità di opporsi o chiedere un risarcimento per le misure straordinarie della banca nazionale che cancellano azioni e obbligazioni - Misure non accompagnate da sufficienti garanzie procedurali contro l'arbitrarietà
La vicenda prende origine dall’attività di controllo delle istituzioni europee circa la stabilità dei sistemi bancari nazionali. Nel 2012 la Commissione europea pubblicava la Relazione sul meccanismo di allerta, in cui si rilevava che la situazione della stabilità bancaria in Slovenia rimaneva fragile. Successivamente, la Commissione pubblicava la relazione sugli “Squilibri macroeconomici - Slovenia 2013”, in cui si stabiliva, tra l’altro, che il settore bancario era una delle ragioni principali degli eccessivi squilibri macroeconomici in Slovenia. Di conseguenza, il 9 luglio 2013 il Consiglio dell’Unione europea emanava la raccomandazione sul programma nazionale di riforma 2013 per la Slovenia, indicando alla Repubblica di Slovenia di adottare varie misure per garantire la stabilità del settore bancario, comprese le misure relative al sostegno finanziario pubblico alle banche, se necessario. La raccomandazione sottolineava che tutte le misure avrebbero dovuto essere attuate nel pieno rispetto delle norme sugli aiuti di Stato. A tal proposito, si richiedeva che il sostegno statale doveva essere concesso a condizione che vi fosse un'adeguata condivisione degli oneri da parte di coloro che hanno investito nella banca.
A fine 2013 l’Assemblea nazionale adottava la modifica della legge bancaria che definiva le condizioni e i poteri della Banca di Slovenia (Banka Slovenije) per quanto riguarda l’applicazione di misure straordinarie di cancellazione del capitale sociale della banca o di cancellazione o conversione degli strumenti subordinati della banca al fine di prevenire il fallimento della banca e di preservare la stabilità del sistema finanziario.
Contemporaneamente, le tre banche partecipate dai ricorrenti, insieme ad altre, facevano richiesta di aiuti di Stato. La Commissione autorizzava la concessione degli aiuti di Stato alle banche interessate ma fissando la condizione preliminare che venisse garantita la ripartizione degli oneri tra lo Stato e gli azionisti e i detentori di strumenti subordinati di tali banche.
La Banca di Slovenia adottava decisioni che introducevano misure straordinarie nei confronti delle banche che avevano inizialmente presentato domanda di aiuto di Stato. Basandosi sulle disposizioni pertinenti della legge bancaria, queste decisioni cancellavano tutte le passività ammissibili esistenti, comprese le azioni e le obbligazioni di proprietà dei richiedenti.
La decisione veniva motivata facendo riferimento alla raccomandazione del Consiglio e ai successivi accertamenti effettuati dalla Banca di Slovenia, che avevano individuato un aumento dei rischi nelle banche interessate e la loro minaccia alla stabilità del sistema finanziario. Tali misure straordinarie venivano quindi indicate come una condizione necessaria per la concessione dell'aiuto di Stato. Inoltre, si prevedeva, in sostituzione alla decisione dell'assemblea degli azionisti, che il capitale sociale delle banche interessate fosse ridotto a zero e contemporaneamente aumentato mediante l'emissione di nuove azioni. L'aumento di capitale era effettuato, nella sua totalità, con contributi monetari e in natura forniti dallo Stato. Ai titolari di passività ammissibili ("ex titolari") era negata la priorità nell'ottenere nuove azioni.
Nel 2016, la Corte costituzionale riteneva che alcune disposizioni pertinenti della legge nazionale fossero incoerenti con la Costituzione, anche in relazione alla mancanza di disponibilità di un rimedio legale efficace per gli ex titolari di azioni e obbligazioni. Successivamente, è stata adottata la legge sulla procedura di protezione giudiziaria per gli ex titolari di passività ammissibili delle banche ("la legge sui rimedi del 2020"), la cui attuazione è stata però sospesa dalla Corte costituzionale in attesa di una revisione della sua costituzionalità, a seguito della petizione presentata dalla Banca di Slovenia.
I ricorrenti sono titolari di azioni o obbligazioni subordinate in tre banche slovene interessate dalle misure straordinarie. Essi lamentano la violazione dell'articolo 1 del Protocollo I della Convenzione e, in particolare, la mancanza di una procedura efficace per contestare la decisione della banca centrale e che le misure erano ingiustificate.
La Corte innanzitutto accerta che le azioni subordinate rientrano nella nozione di “bene” ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n. 1, anche a prescindere dal fatto che, come sosteneva il Governo, esse non avessero un valore economico. Per quanto riguarda le obbligazioni, La Corte ha valutato che i titolari in linea di principio avevano una “legittima aspettativa” di veder soddisfatti i loro crediti in conformità alle clausole contrattuali che rientra nell’ambito di applicazione dell’Articolo 1 del Protocollo I. Inoltre, considerando le limitate informazioni in suo possesso, la Corte non ritiene di concludere che le obbligazioni in questione non avessero valore economico. L'articolo 1 del Protocollo n. 1 è quindi applicabile al caso di specie e l'annullamento delle azioni o delle obbligazioni dei ricorrenti costituisce un’interferenza nei loro diritti patrimoniali.
Riguardo al tipo di interferenza, la Corte rileva che le decisioni impugnate della Banca di Slovenia erano state chiaramente prese allo scopo di controllare il settore bancario del paese. Nonostante esse possano determinare una privazione di proprietà, la Corte ritiene che detta privazione rappresenti solo un elemento costitutivo di un regime di controllo del settore bancario. La misura in questione viene qualificata come un controllo dell'uso della proprietà ai sensi dell'articolo 1, secondo comma, del protocollo n. 1 che deve essere valutata alla luce del principio generale del pacifico godimento della proprietà.
La Corte ammette che le decisioni della Banca di Slovenia hanno una base nel diritto interno, che è stato ritenuto dalla Corte costituzionale compatibile con la Costituzione, e che tale legislazione soddisfa i requisiti qualitativi di accessibilità e prevedibilità richiesti dalla Convenzione.
Tuttavia, il requisito della legittimità presuppone anche che il diritto interno fornisca una misura di protezione giuridica contro le interferenze arbitrarie delle autorità pubbliche con i diritti tutelati dalla Convenzione. La Corte deve quindi determinare, tenendo conto delle procedure applicabili, se l'ingerenza sia stata accompagnata da garanzie procedurali che offrano ai ricorrenti una ragionevole opportunità di presentare il loro caso alle autorità responsabili al fine di contestare effettivamente le misure impugnate.
Sotto questo profilo, la Corte rileva che il giudice costituzionale aveva constatato che gli ex titolari non erano stati in grado di contestare efficacemente i motivi su cui si erano basate le decisioni della Banca di Slovenia, in quanto non avevano avuto accesso a informazioni cruciali (come, ad esempio, l’Asset Quality Review e lo Stress test effettuati dalla Banca di Slovenia). La Corte costituzionale aveva anche riscontrato diverse altre carenze nel procedimento ai sensi della legislazione allora applicabile, concludendo che non fosse stata fornita agli ex titolari una protezione giudiziaria efficace. Di conseguenza, la Corte costituzionale aveva stabilito che sarebbe stato necessario adottare una legislazione specifica per fornire un rimedio efficace.
La Corte di Strasburgo aderisce alla valutazione della Corte costituzionale che la legislazione, senza un'ulteriore regolamentazione adeguata del procedimento, non aveva fornito ai ricorrenti una via legale per contestare efficacemente le misure in questione. Inoltre, sebbene la Corte costituzionale avesse dato al legislatore un termine di sei mesi per realizzare la legislazione appropriata, la legge di attuazione della sua decisione è stata adottata solo tre anni dopo. La legge, pur rappresentando uno sviluppo importante, non aveva finora avuto conseguenze reali per gli ex titolari di azioni e obbligazioni, in quanto la Corte costituzionale stessa ne aveva sospeso l’attuazione.
La Corte ammette che l'offerta di un rimedio efficace nel caso di specie si lega a questioni complesse riguardanti il rispetto di vari principi del diritto dell'UE e che la Corte di giustizia dell'Unione europea (“CGUE”) ha fornito una pronuncia pregiudiziale nell'ambito del procedimento che aveva portato alla decisione del 2016 della Corte costituzionale ed era stata nuovamente sollecitata a farlo nel procedimento relativo al riesame della costituzionalità della legge sui rimedi del 2020. Tuttavia, ad avviso della Corte di Strasburgo, queste circostanze non escludono la responsabilità dello Stato di garantire i diritti degli ex titolari ai sensi dell'articolo 1 del protocollo n. 1. Tale obbligo, comprensivo delle garanzie procedurali di esperibilità di rimedi efficaci contro l’arbitrarietà, è rimasto inadempiuto, in quanto gli ex titolari, compresi i ricorrenti, non hanno avuto alcun accesso effettivo a un rimedio legale significativa per contestare la fondatezza di tali misure e chiedere un risarcimento.
Per questa ragione, la Corte constata che ai ricorrenti non si può rimproverare di non aver presentato il ricorso risarcitorio, in quanto l’accesso a tale rimedio è rimasto fino ad ora soltanto teorico. Infatti, né il rimedio compensativo né alcuno degli altri rimedi che erano stati tentati solo da alcuni ricorrenti avevano fornito una ragionevole opportunità di contestare le decisioni impugnate della Banca di Slovenia o di chiedere un risarcimento.
La Corte conclude che l'interferenza con i beni dei ricorrenti non era stata accompagnata da sufficienti garanzie procedurali contro l'arbitrarietà e quindi non era stata legittima ai sensi dell’Articolo 1 del Protocollo I. Vista la carenza del requisito della legalità, la Corte non ritiene necessario né, a causa della mancanza di informazioni pertinenti, possibile accertare se gli altri requisiti di tale disposizione fossero stati rispettati. Di conseguenza, la Corte si astiene dal giudicare se le misure straordinarie fossero nell'interesse generale e, in caso affermativo, se fosse stato raggiunto un giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale della comunità, e la protezione del diritto dei ricorrenti al pacifico godimento dei loro.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 16 settembre 2021, ric. n. 20741/10 e altre 4, X c. Polonia
Oggetto: Articolo 14 (Divieto di discriminazione) – rigetto dell’istanza di piena potestà genitoriale e custodia in ragione (quasi esclusivamente) dell’orientamento sessuale
La ricorrente presentava un’istanza di divorzio dal marito nel 2005, periodo in cui la medesima intratteneva una relazione con un’altra donna. Accanto al procedimento divorzile, la ricorrente era convenuta in un altro procedimento in ordine alla custodia dei figli, avviato dai genitori della stessa ricorrente, i quali non ne accettavano le scelte di vita personale. In primo grado, il Tribunale ordinava l’affidamento ai nonni; in appello, su impugnazione sia della ricorrente che del marito, tale decisione veniva annullata, sicché i bambini venivano affidati alla ricorrente, che intanto aveva ottenuto il divorzio, senza addebiti, con piena potestà genitoriale e custodia dei figli.
In seguito, l’ex marito chiedeva di modificare l’accordo di custodia ordinato nella sentenza di divorzio. I primi periti interpellati dal tribunale formulavano le seguenti valutazioni: i bambini erano emotivamente legati a entrambi i genitori; le due figlie più grandi non condividevano la relazione della madre con la compagna; il figlio mediano preferiva rimanere col padre; il figlio più piccolo riceveva molte attenzioni dalla madre ma appariva emotivamente instabile; l’ex marito mostrava migliore capacità genitoriale e contatti più significativi coi bambini; la ricorrente manifestava sintomi di eccessiva tensione e impulsività tali da suggerire la necessità di uno psichiatra. I primi periti concludevano per l’affidamento al padre del figlio mediano e per la permanenza degli altri presso la madre, sotto supervisione di un tutore. Un secondo perito accertava che la ricorrente non aveva rapporti sessuali con la precedente compagna. Il Tribunale concedeva la piena potestà e la custodia al padre di tutti i figli in quanto egli mostrava un rapporto maturo, stabile, caloroso e pacificante con i figli che difatti preferivano stare con lui, mentre la ricorrente appariva irritata, irregolare e aggressiva, superficiale coi figli; inoltre, il rapporto con la compagna destabilizzava l’atmosfera genitoriale. Durante il procedimento di impugnazione, l’ex marito proponeva però che la ricorrente mantenesse la custodia del figlio più piccolo, il quale aveva con la madre un legame più forte. Il Tribunale seguitava a ritenere il padre la migliore figura cui riconoscere la custodia anche del figlio più piccolo, il quale avrebbe così continuato a vivere coi fratelli. Inoltre, i giudici accertavano che, di fatto, l’ex marito consentiva alla ricorrente di avere qualsivoglia contatto coi figli. Negli anni successivi, i due figli più piccoli si sono trasferiti dalla ricorrente e dalla sua compagna (il mediano nel 2013, il più piccolo nel 2017).
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo veniva quindi interpellata in relazione alla violazione del divieto di discriminazione ai sensi dell’articolo 14 della Convenzione.
In primo luogo, la Corte definisce il significato e l’operatività dell’articolo 14, norma che non gode di esistenza autonoma ma che completa il godimento di altri diritti e libertà, qualora tale godimento soffra una differenza di trattamento rispetto a situazioni analoghe e sia legata a una caratteristica identificabile, uno “status”. La differenza di trattamento può essere legittima se vanta una giustificazione obiettiva e ragionevole, se persegue uno scopo legittimo e se sussista un ragionevole rapporto di proporzionalità tra mezzi impiegati e scopo perseguito.
Le questioni relative all’orientamento sessuale e all’identità di genere rientrano certamente nella protezione apprestata dal divieto di discriminazione e, sul punto, gli Stati contraenti hanno un margine di apprezzamento stretto: le differenze basate esclusivamente o decisamente su considerazioni di orientamento sessuale sono inaccettabili ai sensi della Convenzione.
Nel caso di specie, il divieto di discriminazione completa il diritto al rispetto della vita familiare di cui all’articolo 8 della Convenzione.
La Corte ritiene che i riferimenti all’omosessualità della ricorrente e alla sua relazione con la compagna fossero nel complesso predominanti nell’ambito dei procedimenti nazionali. Di conseguenza, sussisteva una differenza di trattamento. Le decisioni nazionali che hanno valutato i diritti dei genitori e l’affidamento dei figli perseguivano uno scopo legittimo, ossia la protezione dei diritti dei figli. Tuttavia, la differenza di trattamento si ritiene non giustificata, alla luce di due premesse fattuali: da una parte, la ricorrente e l’ex marito sono stati considerati come dotati di capacità e qualità genitoriali simili; dall’altra, l’affidamento del figlio più piccolo è stato deliberato sulla scorta di due argomenti principali, ossia i vantaggi derivanti dalla convivenza coi fratelli e l’importanza di un modello maschile nell’educazione di un ragazzo. Nei provvedimenti riguardanti la cura di un bambino, gli interessi di quest’ultimo sono prioritari e, nel caso di specie, i giudici nazionali hanno valorizzato i benefici che astrattamente il bambino avrebbe avuto dalla stabile convivenza col padre e i fratelli, a discapito del forte legame concretamente esistente con la madre. L’affidamento è quindi avvenuto in base a una visione stereotipata, fondata sulla generica importanza del modello maschile per l’educazione di un ragazzo, dunque discriminatoria.
Pertanto, la Corte dichiara la violazione dell’articolo 14 della Convenzione, in combinato disposto con l’articolo 8.
Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
Emilio Bufano, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa