Le più rilevanti sentenze di gennaio della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardano diverse disposizioni della Convenzione. I giudici della Corte hanno condannato, da un lato, Cipro per la violazione dell’art. 2, in tema di adeguatezza ed efficacia delle indagini; dall’altro, la Macedonia del Nord per violazione del diritto a che la causa sia esaminata sotto il profilo dell’art. 6 § 1. La prima sezione della Corte ha giudicato tre casi che hanno visto coinvolta l’Italia, in materia di diritto alla libertà e alla sicurezza, di libertà di espressione e di libertà di circolazione. Infine, nel caso Vinks e Ribicka c. Lettonia, considerate le modalità adottate dalle autorità durante una perquisizione domiciliare, la quinta sezione della Corte ha statuito la violazione dell’art. 8.
Sentenza della Corte Edu (Sezione III) 28 gennaio 2020 rich. nn. 29068/10, Nicolaou c. Cipro
Oggetto: articolo 2 (diritto alla vita), inadeguatezza e inefficacia delle indagini.
La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 2 della Convenzione sotto il profilo procedurale.
Il presente caso nasce dal ricorso della famiglia Nicolaou, che allega la violazione del diritto all’equità del processo, nelle indagini relative al decesso di un componente della famiglia. I ricorrenti – cinque cittadini ciprioti, genitori e fratelli della vittima – sostengono di aver ricevuto un pregiudizio a causa dell’inadeguatezza della conduzione delle indagini sulla morte di Athanasios Nicolaou.
Quest’ultimo nel 2005, all’età di ventisei anni, fu chiamato a svolgere sei mesi di servizio militare obbligatorio. Il 28 settembre 2005, ottenuto un congedo, passò la notte presso l’abitazione di famiglia e il giorno seguente lasciò la famiglia per rientrare all’unità di appartenenza. Tuttavia, non rientrò al campo militare e la famiglia, avvertita del mancato rientro, denunciò la sua sparizione alla polizia. Iniziate le indagini delle autorità, il corpo di Athanasios Nicolaou venne trovato sotto a un ponte, non lontano dalla propria automobile. La famiglia accusò di omicidio i colleghi militari.
Nel giugno del 2006, da una prima inchiesta emerse che la morte fu provocata dalla caduta dal ponte, escludendo dunque che si trattasse di un atto criminale. Fu condotta un’inchiesta militare, due inchieste giudiziarie, nonché un’indagine ordinata dal consiglio dei ministri, oltre a una seconda indagine di polizia che si concluse nel giugno 2018. Successivamente, nel mese di settembre, il pubblico ministero concluse che non vi erano evidenze che provassero la natura delittuosa del decesso.
I ricorrenti allegano dunque la violazione dell’art. 6, sostenendo nel complesso l’inadeguatezza delle indagini relative alla morte del congiunto e la mancanza di equità del procedimento. La Corte Edu tuttavia esamina la sussistenza di una violazione nell’ambito dell’art. 2 della Convenzione, nello specifico sotto il profilo procedurale.
Anzitutto, la Corte ricorda che l’art. 2 impone agli Stati di assicurare ai cittadini il diritto alla vita introducendo norme penali, che abbiano un effetto di deterrenza, e creando un sistema di prevenzione, repressione e sanzioni qualora tali previsioni vengano violate. Tra i doveri dello Stato vi è dunque l’individuazione di tali reati e l’applicazione di misure idonee alla conduzione delle indagini.
Relativamente al caso in questione, i giudici di Strasburgo riconoscono che sono stati avviati diversi procedimenti nell’arco di tredici anni circa. Poiché il compito della Corte è quello di esaminare se le indagini nel complesso abbiano garantito il diritto tutelato dall’art. 2, i giudici della terza sezione rilevano che la prima indagine di polizia è stata condotta dando per certo la natura suicidaria dell’atto, senza mettere realmente in discussione tale ipotesi o valutare altri possibili scenari. In tale fase dunque la Corte pone in evidenza l’inadeguatezza delle misure adottate e le molteplici omissioni delle autorità: la polizia infatti non ha protetto in modo adeguato l’area in cui è stato ritrovato il corpo da ingerenze esterne, non è stata assicurata un’analisi minuziosa delle circostanze né una precisa raccolta degli elementi di prova. Inoltre, le autorità da un lato non hanno interrogato tutti i militari dell’unità di Nicolaou, dall’altro non hanno debitamente valutato le tensioni esistenti tra Nicolaou e i compagni di leva. I giudici della terza sezione evidenziano infine che, nonostante le indagini condotte dieci anni dopo la morte di Nicolaou siano state più approfondite, il tempo trascorso «ha minato la loro efficacia e non è più stato possibile rimediare ad alcuni errori sostanziali» (§ 150), compromettendo così le probabilità di successo delle indagini.
In conclusione, la Corte Edu ritiene tali considerazioni sufficienti a riconoscere una mancanza da parte delle autorità, che, compromettendo l’efficacia delle indagini, hanno violato il profilo procedurale dell’articolo 2 della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 9 gennaio 2020 rich. nn. 42086/14, Jeddi c. Italia
Oggetto: Art. 5 §§ 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza), § 4 (diritto, in caso di arresto o detenzione, di appellarsi ad un tribunale) detenzione di uno straniero per espulsione, buona fede delle autorità.
La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, che non vi è stata violazione dell’art 5 § 1.
Il presente caso vede coinvolto un cittadino tunisino, il sig. M. Sami Jeddi, il quale lamenta la violazione dell’art 5 § 1 e § 4.
Il ricorrente, dopo aver ricevuto un decreto di espulsione a seguito di uno sbarco senza autorizzazione sull’isola di Lampedusa, nel 2011 fece richiesta di protezione internazionale, ma la sua domanda fu rigettata; presentò, quindi, un ricorso al Tribunale di Napoli che – a seguito di un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, che estese lo stato umanitario di emergenza fino al 31 dicembre 2012 – concesse al sig. Jeddi un permesso di soggiorno umanitario. Il 24 dicembre 2011 il ricorrente si recò in Svizzera, dove fece richiesta di asilo. Il 19 ottobre 2012 la Svizzera obbligò il ricorrente a fare rientro in Italia, come previsto dal Regolamento (CE) 343/2003 del Consiglio del 18 febbraio 2003. Al suo arrivo in Italia, venne trovato senza documenti identificativi e dichiarò di voler rinunciare alla protezione internazionale, non avendo nessun problema personale o di tipo politico in Tunisia.
Fu, quindi, destinatario di un decreto di espulsione e venne condotto in un Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE) a Milano. Successivamente, l’invio della sentenza del Tribunale di Napoli da parte dell’avvocato del sig. Jeddi alle autorità di polizia permise il rilascio del ricorrente, che lasciò il CIE. Il giudice di pace competente annullò il decreto di espulsione e autorizzò il ricorrente a rimanere in Italia fino al 31 dicembre 2012.
Il ricorrente, lamentando l’illegalità della sua detenzione, stante il permesso di soggiorno umanitario rilasciato dal Tribunale di Napoli, ricorse per Cassazione. Tuttavia, la Cassazione rigettò il ricorso, considerando il decreto di espulsione del giudice di pace illegittimo, in quanto la competenza di quest’ultimo è semplicemente di verificare la legittimità della detenzione sulla base del decreto di espulsione.
La Corte Edu, sulla base dell’art 5., ricorda l’importanza di una valutazione precisa delle motivazioni poste alla base di una decisione di limitazione della libertà personale, a difesa dell’individuo dall’arbitrarietà delle autorità. Nel caso specifico, considerando che il richiedente ha lasciato liberamente l’Italia per recarsi in Svizzera – disinteressandosi dei procedimenti già avviati in Italia – e, una volta rimandato dalle autorità svizzere in territorio italiano, ha dichiarato di voler rinunciare alla protezione internazionale, la Corte ritiene che le autorità abbiano agito legittimamente. Le autorità, constatando l’assenza di documenti di identità e – a seguito dell’identificazione – accertando l’uscita irregolare dal Paese, hanno ipotizzato legittimamente che il richiedente avrebbe fatto perdere le sue tracce per sfuggire al decreto di espulsione. La Corte, afferma, quindi che non vi è stata alcuna violazione dell’art. 5 § 1, in quanto nel momento di trasmissione della sentenza del Tribunale di Napoli, il decreto di espulsione è stato immediatamente annullato e il ricorrente rilasciato: tali azioni dimostrano l’assenza di arbitrarietà e la buona fede delle autorità italiane.
Infine, riguardo l’art. 5 § 4, la Corte non rileva nessuna questione separata da analizzare e, di conseguenza, nessuna violazione.
Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 23 gennaio 2020 rich. nn. 42895/14, Adilovska c. Macedonia del Nord
Oggetto: articolo 6 § 1 (diritto a un equo processo), art. 1 Protocollo 1 (protezione della proprietà), legittimazione e interesse ad agire, diritto a che la causa sia esaminata equamente.
La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione.
La causa nasce dal ricorso della sig.ra Adilovska, che denuncia la violazione da parte della Macedonia del Nord dell’art. 6 § 1 della Convenzione, nonché dell’art. 1 del Protocollo addizionale.
Il 27 maggio 2004, la ricorrente, insieme alle due sorelle, citò in giudizio N.S. per aver venduto un appezzamento di terra che il padre della Adilovska aveva acquistato dal fratello (suocero del convenuto) nel 1965. La ricorrente in seguito modificò parzialmente la domanda chiedendo l’annullamento del contratto di vendita che N.S. aveva concluso con I.O. e B.O., gli acquirenti.
Il tribunale di prima istanza dichiarò dunque la nullità del contratto e riconobbe il titolo in capo alla Adilovska e alle due sorelle. Tuttavia, tale decisione venne ribaltata dalla Corte d’Appello, che rigettò la domanda della ricorrente, sostenendo la mancanza di legittimazione ad agire in capo ai tre attori («did not have full legal standing in the proceedings», § 10), in quanto rappresentavano solo una parte dei legittimi eredi. La Corte di secondo grado, asserendo l’assenza di legittimazione e interesse ad agire, rigettò per ragioni meramente procedurali.
La Corte Edu è chiamata dunque a giudicare se il rigetto della Corte d’Appello abbia o meno ristretto ingiustificatamente il diritto di agire in giudizio della ricorrente. In primo luogo, la Corte rileva che il giudice di secondo grado non ha considerato una questione allegata dalla difesa della Adilovska, ossia che gli altri potenziali eredi sono stati avvertiti del giudizio ma hanno esplicitamente dichiarato il loro rifiuto a prendere parte al processo.
Secondo i giudici di Strasburgo, «la Corte d’Appello ha imposto alla ricorrente un onere sproporzionato» nel suo tentativo di far valere il proprio diritto. La legislazione nazionale permette alle corti di accogliere una domanda anche solo parzialmente e, in aggiunta, nel presente caso, chiunque avesse interesse ad agire per affermare il proprio diritto di proprietà, avrebbe potuto farlo valere in separato giudizio. Di conseguenza, nessuna motivazione di efficienza procedurale, afferma la Corte Edu, può avere un valore superiore rispetto al diritto della ricorrente a che la sua causa sia esaminata.
Vi è stata dunque violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione. La Corte inoltre non ritiene di dover esaminare separatamente la causa sul profilo dell’art. 1 Protocollo addizionale.
Adilovska c. Macedonia del Nord
Sentenza della Corte Edu (Sezione V) 30 gennaio 2020 rich. nn. 28926/10, Vinks e Ribicka c. Lettonia
Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), mancanza di adeguate e sufficienti misure procedurali contro gli abusi, proporzionalità e ragionevolezza della misura della perquisizione.
La Corte Edu ha statuito la violazione dell’art. 8 della Convenzione.
La causa Vinks e Ribicka v. Lettonia nasce dal ricorso di due cittadini lettoni che lamentano la violazione degli artt. 8 e 13 della Convenzione, a causa di una perquisizione avvenuta presso la loro abitazione e giudicata dagli stessi illegittima, sproporzionata e in assenza di garanzie procedurali.
Uno dei ricorrenti, uomo d’affari, partecipò, nel 2008, ad un’operazione sotto copertura organizzata dall’Ufficio per la prevenzione e la lotta alla corruzione (KNAB) grazie alla quale furono arrestati due ufficiali. Il ricorrente, poi, testimoniò contro questi ultimi in merito ad azioni in cui erano coinvolti, in tema di regime fittizio di evasione fiscale e riciclaggio di denaro. Nel 2009 venne avviato un procedimento penale che vide coinvolto un gruppo di venticinque persone, che attraverso duecento società fittizie metteva in atto un sistema di evasione fiscale e riciclaggio di denaro. Tra gli indagati, il ricorrente nei confronti del quale venne emesso un mandato di perquisizione dell’abitazione. La perquisizione venne condotta con l’aiuto dell’unità antiterrorismo Omega che entrò nei locali senza preavviso, sequestrò una serie di elementi e, secondo i richiedenti, convinse il sig. Vinks a ritirare la denuncia contro gli ufficiali. Il ricorrente, posto in custodia cautelare, dopo cinque mesi, venne rilasciato e sottoposto ad altre misure restrittive che nel 2011 vennero revocate.
I ricorrenti denunciano le modalità brutali e illegittime con cui è stata condotta la perquisizione, e sostengono che il coinvolgimento dell’unità antiterroristica non fosse necessaria e che non vi fossero state assicurate garanzie procedurali.
La quinta sezione della Corte, in primo luogo, riconosce che entrambe le parti concordano sul fatto che la perquisizione abbia interferito sulla vita privata e familiare dei ricorrenti e che tale interferenza sia stata giustificata dalla sezione 180 (1) della legge di procedura penale lettone; il secondo paragrafo dell’art. 8 della Convenzione è stato, secondo la Corte, rispettato, in quanto persegue l’obiettivo legittimo di prevenire la criminalità.
In secondo luogo, per quanto riguarda la proporzionalità della misura e la garanzia contro l’arbitrarietà, la Corte afferma che il mandato di perquisizione è stato formulato in termini relativamente ampi, ma – tenuto conto del parere degli esperti internazionali, che sostengono che la Lettonia è un paese particolarmente vulnerabile al tema del riciclaggio di denaro - ritiene che la portata del mandato sia stata sufficientemente ragionevole.
I giudici di Strasburgo analizzano, inoltre, le modalità con le quali è stata svolta la perquisizione: assistenza dell’unità antiterroristica con uomini armati e utilizzo di armi contro i ricorrenti e contro la figlia adolescente della coppia. Secondo la Corte, sulla base del materiale in suo possesso, le modalità appaiono sproporzionate e infondate, esistendo il rischio di abuso di autorità e di violazione della dignità umana. Il riesame da parte dei pubblici ministeri, nei diversi gradi di giudizio, circa l’assistenza dell’unità antiterrorismo non ha garantito una protezione efficace ai ricorrenti. Si è, quindi, verificata una violazione dell’art. 8 della Convenzione.
La Corte, infine, non ritiene necessario esaminare se, nel presente caso, vi sia stata violazione dell’art. 13 della Convenzione.
Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 16 gennaio 2020 rich. nn. 59347/11, Magosso e Brindani c. Italia
Oggetto: articolo 10 (libertà di espressione), ingerenza dello Stato, diffamazione a mezzo stampa, proporzionalità della sanzione, dichiarazioni di terzi, buona fede del giornalista e veridicità delle fonti.
La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 10 della Convenzione.
La causa Magosso e Brindani c. Italia nasce dal ricorso di due giornalisti italiani, rispettivamente giornalista del settimanale Gente e direttore responsabile della pubblicazione. I due ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 10 della Convenzione, data l’ingerenza dello Stato nel loro diritto alla libertà di espressione.
Il 28 maggio 1980 il giornalista Walter Tobagi fu assassinato dal gruppo terroristico di estrema sinistra Brigate 28 marzo. Il leader del gruppo fu arrestato e collaborò con le autorità permettendo l’arresto di tutti i membri del gruppo. Nel giugno 1983, il Presidente del Consiglio Craxi dichiarò pubblicamente che i carabinieri, qualche mese prima della morte, avevano ricevuto alcune informazioni in merito a un’azione terroristica che vedeva coinvolto Tobagi.
Il 17 giugno 2004, il giornalista Magosso firmò un articolo dal titolo Tobagi poteva essere salvato, in cui riportava alcune affermazioni di un ex brigadiere dei carabinieri della sezione antiterrorismo di Milano, tale D.C., che sosteneva di aver ricevuto alcune rivelazioni sul progetto di attentato da parte di un informatore. Il giornalista riportò inoltre le dichiarazioni di un altro ex ufficiale dei Carabinieri, il generale N.B., il quale affermava di essere stato estromesso dalle attività di indagine condotte da due colleghi, A.R. e U.B.
Questi ultimi sporsero denuncia, accusando Magosso e Brindani – in qualità di direttore responsabile – di diffamazione a mezzo stampa, mentre l’ex brigadiere D.C. fu indagato con procedimento penale separato, al termine del quale venne condannato in primo grado. Il 20 settembre 2007, il tribunale di Monza dichiarò colpevoli di diffamazione i due ricorrenti, condannandoli al pagamento delle spese processuali, di un’ammenda – rispettivamente di 1.000 euro e di 300 euro – e ordinando la pubblicazione della sentenza sul settimanale Gente e sul Corriere della Sera. Furono condannati inoltre al risarcimento per danno morale di 120.000 euro e di 90.000 euro nei confronti dei due soggetti citati nell’articolo, oltre al pagamento di 20.000 euro per le spese processuali sostenute da questi ultimi. La Corte d’appello e la Corte di cassazione confermarono la decisione di primo grado.
La Corte Edu osserva anzitutto come la questione in oggetto sia di interesse generale e riguardi «fatti controversi della storia italiana contemporanea», elemento che, secondo i giudici di Strasburgo, non è stato debitamente considerato dalle giurisdizioni interne, che hanno posto l’attenzione «sul carattere ‘scandalistico’ dell’articolo senza bilanciare sufficientemente i diversi valori e interessi in conflitto» (§ 47). Secondo la Corte Edu, i tribunali interni non hanno differenziato le dichiarazioni del giornalista dalle quelle rese dall’intervistato, D.C.: furono le affermazioni di quest’ultimo infatti a compromettere la reputazione delle parti civili, il cui interesse doveva ritenersi soddisfatto con il solo processo a carico di D.C. e la conseguente condanna.
In secondo luogo, la Corte ricorda che, qualora il giornalista riporti affermazioni di terzi, occorre valutare la buona fede di questo, nonché la veridicità e la precisione delle fonti individuate dallo scrivente. I ricorrenti hanno allegato numerosi documenti ed elementi che contribuiscono a sostenere la credibilità delle dichiarazioni contenute nell’articolo.
In conclusione, i giudici della prima sezione rilevano, da un lato, che le autorità interne «non hanno fornito motivi pertinenti e sufficienti per scartare le informazioni fornite e le verifiche effettuate dai ricorrenti, che erano il risultato di un lavoro di investigazione serio e consistente» (§ 58), dall’altro, che la sanzione penale rischia di produrre un effetto dissuasivo per il giornalista nell’esercizio della propria libertà di espressione. L’ingerenza da parte dello Stato nel diritto dei ricorrenti viene dunque giudicata dalla Corte sproporzionata e non necessaria in una società democratica. Vi è stata dunque violazione dell’art. 10 della Convenzione.
Decisione di Comitato (Sezione I) 17 dicembre 2019, comunicata il 16 gennaio 2020 rich. nn. 68957/16, Torresi c. Italia
Oggetto: articolo 2 Protocollo 4 (libertà di circolazione), rifiuto di rilasciare il passaporto tra coniugi.
La Corte ha statuito, all’unanimità, l’irricevibilità del ricorso sulla base dell’art. 35 §§ 3 a) e 4.
La causa nasce dal ricorso del sig. Torresi, che lamenta la violazione dell’art. 2 Protocollo 4 e dell’art. 8 della Convenzione, considerato il rifiuto da parte delle autorità di rilasciargli il passaporto.
La vicenda giudiziaria ebbe inizio con la scelta dell’ex coniuge del ricorrente di non prestare il consenso al suo espatrio, sostenendo che lo stesso non partecipasse attivamente alla vita delle due figlie e che avesse ridotto l’assegno di mantenimento.
Il 18 settembre 2015, il giudice tutelare adito dal ricorrente gli rilasciò il passaporto per permettergli di recarsi in Cina dove doveva presenziare ad un’udienza, ma successivamente, il 5 novembre 2015, revocò l’autorizzazione constatando che il genitore non rispettava gli obblighi nei confronti delle figlie. Peraltro, il giudice tutelare ritenne che l’espatrio avrebbe reso difficile il recupero dei crediti alimentari a favore delle minori. Venne in seguito adito anche il Tribunale per i Minorenni e anch’esso respinse la richiesta di autorizzazione del ricorrente.
Data la nascita del figlio del ricorrente avuto dalla nuova compagna, cittadina cinese, il 25 maggio 2016 venne rilasciata l’autorizzazione. Quest’ultimo provvedimento venne revocato il 17 maggio 2017 poiché, nonostante l’espatrio, gli obblighi nei confronti delle figlie non venivano rispettati dal padre.
La Corte Edu ha anzitutto ritenuto che le affermazioni del ricorrente dovessero essere esaminate esclusivamente sulla base dell’art. 2 Protocollo 4: ogni persona ha diritto di lasciare qualsiasi paese per recarsi in qualsiasi altro paese in cui sia ammessa. Il rifiuto di rilasciare il passaporto costituisce una violazione di tale diritto, eccetto quando sia previsto dalla legge, persegua uno o più degli scopi legittimi definiti dall’art. 2 § 3 del Protocollo 4 e sia necessario in una società democratica per il raggiungimento di tali scopi legittimi.
Nel caso di specie, la Corte afferma che sotto il profilo della legittimità, l’art. 3 lettera b) della legge n. 1185 del 21 novembre 1967, come modificata dall’articolo 24, comma 1, della legge n. 3 del 16 gennaio 2003 consente ad un genitore di negare il consenso al rilascio del passaporto dell’altro genitore che non rispetta gli obblighi nei confronti dei figli. Considerando dunque il mancato rispetto degli obblighi alimentari del ricorrente, la misura è ritenuta legittima. La tutela dei diritti delle figlie del ricorrente è, secondo la Corte, un obiettivo legittimo di tutela. Sotto il profilo della proporzionalità, la Corte evidenzia come la misura abbia limitato la libertà del ricorrente di lasciare il paese solo per un periodo di tempo determinato e, inoltre, è stata esaminata dalla autorità giudiziarie interne più volte, valutando di volta in volta la situazione personale del sig. Torresi e la sua capacità di pagare le somme dovute alle figlie, al fine di garantire sempre la proporzionalità della misura sulla base delle circostanze del caso.
Il ricorso è manifestamente infondato e perciò respinto dalla Corte.
photo credits: European Court of Human Rights
Marika Ikonomu, Università degli Studi di Milano, già tirocinante presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa
Agnese Galatà, Università degli Studi di Milano, tirocinante ex. art.73 del dl 69/2013, presso il Tribunale per i Minorenni di Milano