Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di novembre 2024

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di novembre 2024

Le pronunce di novembre della Corte Edu qui selezionate riguardano la contenzione meccanica del paziente psichiatrico, la criminalizzazione di iniziative di manifestazione del pensiero e di riunione pacifica, la legittimità di limiti di età nell’accesso al pubblico impiego.

In Lavorgna c. Italia, la Corte di Strasburgo stigmatizza il mantenimento a letto per quasi otto giorni, con cinghie a polsi e caviglie, di un soggetto affetto da infermità mentale, sottoposto a TSO in reparto psichiatrico di un ospedale. Il personale medico deve applicare la contenzione fisica in via residuale, per il tempo strettamente necessario, da rivalutare quotidianamente e in modo circostanziato. In mancanza di una legge che individui precisi limiti di durata, spetta alla giurisprudenza interna elaborare criteri rigorosi sulla possibilità di scriminare tale trattamento ai sensi dell’art. 54 c.p.

In Kotov c. Russia, la Corte giudica della legittimità delle condanne di diritto amministrativo e penale subite dal ricorrente per aver partecipato a proteste pubbliche e per aver incoraggiato altri in rete a partecipare a tali eventi. La Corte ha rilevato, in particolare, che la punizione penale inflitta era del tutto sproporzionata e che egli era stato punito per azioni, come cantare slogan antigovernativi, che erano protette dalla Convenzione.

In Ferrero Quintana c. Spagna, la Corte ha esaminato la legittimità dell’imposizione di un’età massima di 35 anni per accedere a un concorso pubblico per agenti di polizia dell’Ertzaintza nella Comunità autonoma dei Paesi Baschi. Il ricorrente, classificatosi 49° su 60 partecipanti, è stato escluso per aver superato tale limite. La Corte ha stabilito che la restrizione era giustificata per garantire l’efficienza operativa della forza di polizia autonoma.

In Vieru c. Moldavia, la Corte esamina il ricorso presentato dal fratello di T., vittima di violenza di genere, deceduta all’esito di reiterate condotte di violenza fisica e psicologica perpetrate dall’ex marito che ne hanno determinato, per ragioni che non è stato possibile accertare, la caduta dal quinto piano e la conseguente morte. La Corte, facendo applicazione di principi consolidati ravvisa nelle condotte delle autorità moldave la violazione degli artt. 2, 3, e 14 della Convenzione. Il Giudice europeo richiama, tra l’altro, le autorità nazionali sull’importanza di condurre un’attenta, autonoma ed efficace valutazione del rischio, che consenta di monitorare con continuità il pericolo di escalation, anche dopo l’adozione di eventuali ordini di protezione.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 7 novembre 2024, ric. n. 8436/21, Lavorgna c. Italia

Oggetto: art. 3 della Convenzione (divieto di tortura) – contenzione meccanica di paziente psichiatrico – applicazione iniziale necessaria – mantenimento per quasi otto giorni sulla scorta di un pericolo non imminente e scarsamente circostanziato – assenza di limiti temporali ex lege e giurisprudenza poco rigorosa sullo stato di necessità ex art. 54 c.p. –  durata delle indagini eccessiva e non giustificata – mancato approfondimento dell’esistenza di mezzi alternativi per il contenimento del rischio.

La procedura in esame concerne la legittimità della contenzione meccanica applicata al ricorrente e l’adeguatezza delle indagini a carico del personale medico.

Nel 2013, il ricorrente veniva ricoverato tre volte con diagnosi di psicosi indotta da abuso di sostanze.  Dopo una minaccia armata alla madre, veniva nuovamente ricoverato tra l’11 e il 16 luglio 2014 con diagnosi di psicosi non altrimenti specificata (PNAS).

Il 30 settembre 2014, il ricorrente si presentava al Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura (SPDC) dell’Ospedale Santa Maria delle Stelle di Melzo, su consiglio del suo psichiatra. Il 7 ottobre, riceveva la visita dei genitori e chiedeva di essere dimesso. Gli psichiatri dell’ospedale, tuttavia, ritenevano di dover prolungare il ricovero, non avendo completato né l’analisi dei sintomi né la terapia farmacologica. Il ricorrente reagiva aggredendo il padre, la madre e il primario, sicché il personale medico lo sedava e gli applicava la contenzione meccanica.

Accolta la richiesta di trattamento sanitario obbligatorio (TSO), il 14 ottobre, due psichiatri comunicavano l’accaduto alla direzione dell’ASL di Melzo, alla Procura di Milano e ai carabinieri, rilevando che la contenzione meccanica, pur se necessaria, sarebbe risultata problematica nel lungo periodo, dovendosi allora individuare altra struttura di degenza.

La contenzione meccanica s’interrompeva il 15 ottobre e, il successivo 27 ottobre, il ricorrente veniva  ricoverato in altro ospedale.

Nel 2015, il ricorrente denunciava due medici dell’ospedale di Melzo per maltrattamenti, arresto illegale e violenza privata.

Con l’avvio delle indagini, nel 2016, il pubblico ministero presso il Tribunale di Milano nominava un consulente per valutare l’osservanza delle linee guida e del protocollo sulla contenzione fisica, l’idoneità del trattamento farmacologico, la necessità della contenzione. Il consulente sottolineava l’importanza del comportamento aggressivo manifestato dal ricorrente, le lesioni provocate sia alla madre che a un medico, l’aderenza del trattamento alle linee guida, il controllo giornaliero dello stato del ricorrente, ma anche la durata «insolitamente prolungata» della contenzione; concludeva, in definitiva, per un eccesso di interventismo che tuttavia non denotava negligenza e imprudenza gravi.

Nel 2019, il pubblico ministero presentava al GIP una richiesta di archiviazione rilevando che la contenzione era finalizzata a evitare un pericolo imminente di danni a sé o altri, era stata applicata per il tempo necessario, era risultata conforme alle linee guida nonché supervisionata quotidianamente dal personale infermieristico.

La difesa del ricorrente presentava opposizione rilevando come il pubblico ministero si fosse appiattito alle considerazioni del consulente e che non avesse applicato i criteri sulla contenzione meccanica individuati dalla Corte di Cassazione n. 50497 del 20 giugno 2018 (di seguito “sentenza Mastrogiovanni ”), indispensabili ai fini della scriminante di cui all’art. 54 c.p.

Con ordinanza del luglio 2020, il GIP accoglieva la richiesta della parte pubblica riferendosi alle valutazioni di merito del perito, giustificando il periodo di contenzione alla luce delle condizioni effettive (adeguatamente monitorate) del paziente.

Dinanzi alla Corte Edu il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 3 della Convenzione.

Sotto il profilo dell’ammissibilità, la Corte rigetta l’eccezione di mancato esaurimento dell’azione ex art. 2043 c.c., in quanto finalizzata a risarcire i danni piuttosto che a identificare e punire i responsabili dell’azione illecita. Anche gli altri rimedi proposti dal governo convenuto (impugnazione del TSO o dell’ordinanza di archiviazione, richiesta di avocazione delle indagini) concernono aspetti parziali della doglianza o comunque non risultano effettivi nel caso di specie.

Nel merito, la Corte si sofferma innanzitutto sulla legittimità e necessità del trattamento, alla luce degli obblighi sostanziali derivanti dall’art. 3 della Convenzione.

Sul punto, la Corte richiama, da una parte, i propri precedenti sull’uso della forza, ammesso solo se strettamente necessario (Bouyid c. Belgio [GC], n. 23380/09, §§ 100-01, 2015); dall’altra, quelli sugli obblighi di vigilanza dello Stato nel trattare persone affette da malattie mentali, stante la posizione di particolare vulnerabilità, inferiorità e impotenza (Aggerholm c. Danimarca, n. 45439/18, § 84, 2020). Ne discende l’uso residuale della contenzione fisica, in mancanza di mezzi alternativi per prevenire un danno immediato o imminente al paziente o ad altri, fintanto che tale pericolo permanga. I pazienti devono vantare adeguate garanzie procedurali, essere tenuti sotto stretta sorveglianza, con aggiornamento sistematico del diario clinico (Bureš c. Repubblica Ceca, n. 37679/08, §§ 101-103, 2012).

Nel caso di specie, il ricorrente è stato immobilizzato meccanicamente al suo letto dal 7 al 15 ottobre 2014; l’applicazione di cinghie per polsi e caviglie è avvenuta, inizialmente, a tutti e quattro gli arti e, dal secondo giorno, a intermittenza, per igiene personale, alimentazione o fisioterapia. 

Secondo la Corte, la contenzione meccanica era necessaria e giustificata nella sua applicazione iniziale, posto che l’aggressività manifestata dal ricorrente dimostrava l’imminente rischio auto ed etero lesivo. Non invece la sua prosecuzione. Il secondo e il terzo giorno di contenzione, il personale medico aveva giustificato il pericolo in virtù della mancata rivalutazione critica, da parte del ricorrente, del proprio comportamento violento; una giustificazione di per sé poco significativa e, comunque, poco dettagliata. Nei giorni successivi, il diario clinico non riportava alcun riesame del pericolo. Inoltre, i medici del reparto psichiatrico avevano evidenziato sin da subito l’opportunità di trasferire il ricorrente in altra struttura idonea.

A confermare il giudizio di illegittimità o non necessità, anche la valutazione compiuta dalle autorità nazionali: la richiesta di archiviazione si focalizzava sulla legittimità iniziale della contenzione e ne giustificava il mantenimento in forza delle condizioni psicopatologiche; la relazione del consulente del pubblico ministero aveva evidenziato l’eccesso di prudenza del personale medico, un timore «forse eccessivo e infondato»; l’ordinanza del GIP non affrontava gli argomenti sollevati nell’opposizione circa la mancata applicazione della sentenza Mastrogiovanni e la presenza o meno di mezzi alternativi.

A ciò si aggiunga che, nel 2022, il Comitato contro la tortura aveva rilevato, oltre all’assenza di limiti temporali ex lege alla contenzione psichiatrica, una giurisprudenza interna poco rigorosa sul criterio del pericolo imminente ex art. 54 c.p.

La Corte affronta altresì la questione dell’osservanza degli obblighi procedurali derivanti dall’art. 3 della Convenzione, quindi l’adeguatezza delle indagini condotte su eventuali profili di responsabilità nel trattamento illegittimo. 

L’intervallo temporale tra il deposito della denuncia e la richiesta di archiviazione, tre anni e quattro mesi, non sembra giustificato dall’audizione di testimoni o dalla ricerca di prove nuove; il compendio probatorio era circoscritto alla documentazione ospedaliera e alla relazione del consulente. Oltre ai ritardi, le indagini appaiono lacunose, non avendo chiarito l’esistenza e praticabilità di mezzi alternativi alla contenzione meccanica, nonché le effettive ragioni del mantenimento della contenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Terza Sezione), 26 novembre 2024, ric. nn. 49282/19 e 50346/19, Kotov c. Russia

Oggetto: Artt. 10 e 11 della Convenzione (libertà di espressione e di riunione pacifica) – mancata motivazione da parte dei tribunali nazionali delle condanne amministrative per la partecipazione a manifestazioni pubbliche non autorizzate ma pacifiche e per l’affissione di inviti a partecipare a una di queste manifestazioni – ingerenza non «necessaria in una società democratica» – condanna penale sproporzionata per ripetute violazioni della procedura stabilita per l’organizzazione e lo svolgimento di manifestazioni pubbliche pacifiche – carenza di prevedibilità della condanna – mancato bilanciamento degli interessi in gioco.

Il ricorrente è un cittadino russo che ha partecipato a diversi «eventi pubblici non autorizzati» di natura politica nell’area di Mosca e ha lanciato appelli online per protestare e partecipare a tali eventi. Di conseguenza, è stato condannato ai sensi della legge amministrativa e multato o sottoposto a brevi periodi di detenzione. Tali sentenze, impugnate in appello, sono state confermate. 

A seguito di questi comportamenti il ricorrente è stato arrestato e poi condannato a quattro anni di reclusione con l’accusa di ripetute violazioni delle procedure per l’organizzazione o lo svolgimento di eventi pubblici. Il ricorrente ha presentato un ricorso costituzionale che ha portato a un nuovo processo, all’esito del quale è stata confermata la condanna. In questa sede si precisava che il ricorrente aveva ignorato i legittimi ordini degli agenti di polizia di disperdersi durante le proteste. Il Tribunale ha previsto una pena di un anno e sei mesi di reclusione, sostenendo che era «improbabile che il suo comportamento cambiasse senza l’isolamento sociale».

Di fronte alla Corte EDU, il ricorrente ha invocato gli articoli 10 (libertà di espressione) e 11 (libertà di riunione e di associazione), lamentando, in particolare, che le sue condanne avevano leso i suoi diritti di partecipazione e promozione di manifestazioni convenzionalmente protetti.

In via preliminare, la Corte ha dichiarato la sua giurisdizione ratione temporis, poiché i fatti che hanno dato origine alle presunte violazioni della Convenzione si sono verificati prima del 16 settembre 2022, data in cui la Russia ha cessato di essere parte della Convenzione Europea.

Nel merito, rispetto alla violazione dell’Articolo 11 considerato isolatamente, la Corte ha stabilito che la condanna penale del ricorrente per aver partecipato a eventi pubblici non autorizzati ha costituito un’interferenza con il suo diritto alla libertà di riunione. 

Quanto alla legalità di tale interferenza, la Corte ha valutato la prevedibilità delle disposizioni su cui la condanna penale del ricorrente si fondava. Le disposizioni rilevanti non contenevano alcun riferimento dettagliato alle azioni specifiche che costituiscono il reato di ripetuta violazione della procedura per l’organizzazione o lo svolgimento di eventi pubblici, ma un riferimento generico alla disciplina delle sanzioni amministrative. 

Sebbene l’utilizzo della tecnica del «riferimento generale» o della «legislazione per riferimento» per criminalizzare atti o omissioni non sia di per sé incompatibile con la Convenzione, tuttavia affinché vi sia prevedibilità è necessario che la disposizione di rinvio e la disposizione di riferimento, lette insieme, consentano all’individuo interessato di prevedere, se necessario con l’aiuto di un’adeguata consulenza legale, quale condotta lo renderebbe penalmente responsabile. Il modo più efficace per garantire la chiarezza e la prevedibilità è che il rinvio sia esplicito e che la disposizione di rinvio definisca gli elementi costitutivi del reato. Inoltre, le disposizioni richiamate non possono estendere la portata dell’incriminazione stabilita dalla disposizione di riferimento. In ogni caso, spetta al giudice che applica sia la disposizione di rinvio sia la disposizione di riferimento valutare se la responsabilità penale fosse prevedibile nelle circostanze del caso (cfr. Parere consultivo relativo all’uso della tecnica del «rinvio generale» o della «legislazione di rinvio» nella definizione di un reato e agli standard di comparazione tra la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e la legge penale modificata [GC], richiesta no. P16-2019-001, Corte costituzionale armena, 29 maggio 2020).

I tribunali nazionali avevano interpretato le disposizioni nazionali rilevanti in modo molto ampio, senza considerare la situazione individuale e senza riconoscere che alcune delle azioni imputate al Ricorrente rientravano sotto la protezione degli articoli 10 e 11 della Convenzione. I tribunali nazionali non avevano indicato quali azioni del Ricorrente avessero causato un danno o se vi fosse stata una reale minaccia di danno, né hanno spiegato adeguatamente perché gli eventi in cui il Ricorrente era coinvolto non fossero pacifici. Questa applicazione delle norme di diritto interno lasciava aperto il dubbio circa la prevedibilità della loro applicazione nel caso di specie.

Per quanto riguarda la necessità dell’interferenza, la Corte ha ribadito che una situazione illegale, come l’organizzazione di una manifestazione non autorizzata, non giustifica necessariamente una reazione statale che risulti lesiva del diritto alla libertà di riunione. In particolare, quando i manifestanti non compiono atti di violenza, la Corte richiede che le autorità pubbliche mostrino un certo grado di tolleranza nei confronti degli assembramenti pacifici, a meno di non voler privare di ogni sostanza la libertà di riunione garantita dall’articolo 11 della Convenzione. La legittimità delle contromisure che la polizia può adottare deve dipendere principalmente dalla gravità del disturbo che è stato arrecato in concreto. Al fine di stabilire se è possibile rivendicare la protezione dell’articolo 11, la Corte prende in considerazione (i) se l’assemblea era intesa come pacifica o se gli organizzatori avevano intenzioni violente; (ii) se il singolo interessato ha dimostrato intenzioni violente quando si è unito all’assemblea; e (iii) se il singolo ha inflitto danni fisici a qualcuno. Rileva che quando entrambe le parti - manifestanti e polizia - sono state coinvolte in atti di violenza, a volte è necessario esaminare chi ha iniziato la violenza. 

Sebbene le azioni del Ricorrente non sembrino essere state violente (ad esempio, il blocco del traffico), e sebbene la Corte costituzionale russa avesse stabilito che la reclusione fosse riservata a proteste non pacifiche, i tribunali di grado inferiore non avevano fornito alcuna giustificazione per la pena detentiva, affermando semplicemente che «l’isolamento» era «necessario». La Corte ha osservato che l’imprevedibilità della condanna penale risultasse anche dal mancato rispetto da parte dei tribunali nazionali delle linee guida fornite dalla Corte costituzionale. 

Inoltre, l’arresto, la detenzione e la successiva condanna penale del Ricorrente per ripetute violazioni della procedura di organizzazione e svolgimento di eventi pubblici lo avevano dissuaso, insieme ad altri, dal partecipare al dibattito politico aperto, soprattutto considerando che era già stato condannato e punito in base alla legge amministrativa per gli stessi eventi. Pertanto, quella sanzione era stata sproporzionata.

Anche accettando la sussistenza di uno scopo legittimo, la pena inflitta al Ricorrente era del tutto sproporzionata rispetto a tale obiettivo. 

Rispetto alla violazione degli articoli 10 e 11 della Convenzione, la Corte ha osservato che anche le condanne amministrative del Ricorrente fossero carenti di motivazioni sufficienti per considerare violente le manifestazioni in questione, né avevano analizzato adeguatamente il comportamento del Ricorrente durante quegli eventi. Inoltre, i tribunali non avevano spiegato adeguatamente perché il Ricorrente dovesse essere punito per aver invitato a partecipare a un’assemblea pacifica.

Oltre a queste violazioni, la Corte ha riscontrato molteplici violazioni ai sensi degli articoli 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza), 6 (diritto a un equo processo) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione, nonché dell’Articolo 1 del Protocollo n. 1 (protezione della proprietà), in conformità con la sua consolidata giurisprudenza.

 

Sentenza della Corte Edu (Terza Sezione), 26 novembre 2024, ric. n. 2669/19, Ferrero Quintana c. Spagna

Oggetto: art. 1 Protocollo n. 12 (divieto generale di discriminazione) – limite di età di 35 anni imposto a un concorso pubblico per l’assunzione di agenti di polizia di primo grado – mansioni di natura operativa o esecutiva comportanti un’idoneità fisica particolarmente elevata prevista in funzione degli anni di servizio da prestare dopo l’assunzione – differenza di trattamento in base all’età - obiettivo di garantire il carattere operativo e il buon funzionamento del servizio di polizia Ampio margine di discrezionalità – motivi pertinenti e sufficienti

Il ricorrente ha partecipato a un concorso pubblico relativo al grado più basso nella forza di polizia della Comunità Autonoma dei Paesi Baschi (Ertzaintza). Tra i requisiti per partecipare al concorso vi era la condizione che i candidati dovessero avere un’età superiore ai 18 anni e inferiore ai 35 anni al momento della presentazione della domanda.

Nonostante, avesse compiuto 35 anni l’anno precedente, il ricorrente e altri individui nella stessa situazione furono autorizzati provvisoriamente a partecipare al concorso, in attesa della decisione definitiva dei tribunali su un’azione intentata da un altro candidato per contestare la validità del limite di età. Il ricorrente superò con successo le varie prove del concorso e gli fu quindi concesso, sempre in via provvisoria, di completare un corso di formazione e un tirocinio. Tuttavia, al termine della formazione e del tirocinio, non fu assunto a causa del superamento del limite di età. I ricorsi interni presentati contro questa decisione non ebbero successo.

Il ricorrente fu comunque inserito in una lista di riserva (bolsa de trabajo) per agenti temporanei della polizia locale dei Paesi Baschi e lavorò come agente a tempo determinato per un breve periodo.

A seguito di una modifica legislativa alla Legge sulla Polizia dei Paesi Baschi il limite di età fu innalzato da 35 a 38 anni con applicazione retroattiva in favore dei candidati che erano stati respinti a causa del precedente limite di età. Di conseguenza, il ricorrente fu nominato agente di polizia.

Di fronte alla Corte EDU, il Ricorrente invocava l’Articolo 1 del Protocollo n. 12 (divieto generale di discriminazione), lamentando di non essere stato assunto a causa di una discriminazione basata sull’età, nonostante le visite mediche e le prove fisiche a cui si era sottoposto avevano confermato la sua idoneità fisica a ricoprire la posizione in questione.

La Corte ha innanzitutto dichiarato l’applicabilità dell’articolo invocato dal ricorrente, osservando che, con il superamento sia delle prove mediche sia di quelle fisiche del concorso, il Ricorrente aveva ottenuto risultati che lo qualificavano per una delle posizioni disponibili ed era stato escluso esclusivamente in ragione della sua età. Era stato quindi trattato in modo diverso per ragioni di età, che costituisce uno “status” protetto ai sensi dell’Articolo 1 del Protocollo n. 12. La discriminazione era identificabile tra due categorie comparabili di individui: coloro che avevano fino a 35 anni e desideravano partecipare al concorso e coloro che avevano superato tale limite di età con la stessa aspirazione. 

La regolamentazione dell’accesso all’impiego pubblico, incluse le forze di polizia, è una materia per cui gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento. Le autorità nazionali sono più adatte a stabilire un limite di età per l’ammissione ai servizi di polizia. L’ampiezza del margine di apprezzamento in tale materia è influenzata da altri fattori rilevanti quali: l’esistenza di altre forze e corpi militari nello Stato per cui vengono fatte distinzioni simili in base all’età; la presenza o l’assenza di un denominatore comune negli ordinamenti giuridici degli Stati contraenti; il rispetto della direttiva 2000/78/CE che ha creato un quadro generale all’interno dell’Unione europea per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Inoltre, la Corte ha individuato anche uno scopo legittimo nella decisione di non ammettere il Ricorrente come agente di polizia diverso dalla mera volontà di escluderlo. Tale finalità era stata già individuata correttamente in una pronuncia della Corte di Giustizia UE relativa a un altro candidato del medesimo concorso. L’obiettivo di garantire il buon rendimento fisico degli ufficiali della polizia autonoma basca e l’efficienza e il buon funzionamento di tale istituzione in relazione ai compiti ad essa affidati è dunque un fine legittimo, ai sensi dell’Articolo 1 del Protocollo n. 12.

Quanto alla proporzionalità della giustificazione posta alla base della disparità di trattamento, la Corte ha chiarito che l’età può essere un fattore rilevante per determinare l’idoneità fisica di una persona, in quanto gli agenti della polizia svolgono compiti non di natura amministrativa, ma operativa o esecutiva, che richiedono particolari capacità fisiche

Il possesso di capacità fisiche particolarmente elevate deve essere considerato non in modo statico, solo al momento delle prove del concorso di assunzione, ma in modo dinamico, tenendo conto degli anni di servizio che l’agente dovrà svolgere dopo l’assunzione. Pertanto, anche ipotizzando che il Ricorrente e altri candidati con più di 35 anni fossero in condizioni fisiche ottimali al momento delle prove, era ragionevole considerare l’importanza di mantenere tali capacità fisiche per il maggior numero possibile di anni.

A tal proposito, la Corte ha ammesso che le statistiche fornite dal Governo giustificavano il timore di un invecchiamento generale del personale dell’Ertzaintza. Ha riconosciuto che il periodo di piena attività operativa degli agenti di grado più basso era più breve rispetto ad altre professioni. Ciò aveva un impatto significativo sulla natura operativa della forza di polizia. Pertanto, misure come quella in questione potevano essere appropriate per garantire la presenza di un numero sufficiente di agenti “giovani” per svolgere compiti fisicamente impegnativi.

Considerando l’ampio margine di apprezzamento, le autorità nazionali avevano fornito ragioni rilevanti e sufficienti per giustificare la necessità del diverso trattamento. Di conseguenza, la Corte ha concluso che la limitazione dell’accesso ai posti di agente di grado più basso con un limite di età di 35 anni era da considerarsi, da un lato, adeguata all’obiettivo di garantire il carattere operativo e il buon funzionamento del servizio di polizia in questione e, dall’altro, non andava oltre quanto necessario per raggiungere tale obiettivo.

Pertanto, non vi era stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 12 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Seconda Sezione), 19 novembre 2024, ric. n. 17106/18, Vieru c. Moldavia 

Oggetto: art. 2 della Convenzione (diritto alla vita) – violazione del parametro convenzionale nel suo profilo procedurale ) – art. 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) – violazione del parametro nei suoi profili sostanziali e procedurali – violenza domestica – violenza di genere – violazione dell’art. 14 in relazione agli artt. 2 e 3 – tolleranza istituzionale rispetto alla violenza di genere di natura strutturale.

A partire dal 2012, T., sorella del ricorrente, subiva ripetuti episodi di violenza da parte del marito I.C., sia di natura fisica che psicologica, spesso avvenuti alla presenza dei figli minori  e proseguiti anche dopo il divorzio dei coniugi, nel 2014.

Nei confronti di I.C., tra il 2014 e il 2016, il Tribunale distrettuale di Buiucani emetteva, su richiesta di T., numerosi ordini di protezione. A seguito di un ultimo episodio di violenza, nell’agosto 2016 T. cadeva dal quinto piano e decedeva pochi mesi dopo, a causa delle lesioni riportate.

Per tali condotte, I.C. risultava indagato e poi imputato in due procedimenti penali per distinti episodi di violenza domestica e in un procedimento penale concernente l’inosservanza dei provvedimenti emessi a suo carico da parte dell’autorità giudiziaria. I tre procedimenti venivano riuniti e, all’esito dell’iter giudiziario, il reato di violazione degli ordini di protezione risultava prescritto, mentre la contestazione di violenza domestica, a seguito delle modifiche intervenute nel quadro normativo interno, veniva derubricata nell’ illecito amministrativo di inflizione di lesioni corporali di modesta entità. 

Avverso la decisione, il ricorrente proponeva ricorso per cassazione, rilevando, tra l’altro, come  la Corte d’appello non avesse considerato la violenza di natura psicologica subita da T. Il ricorso veniva respinto.

Con riferimento, infine, all’episodio che aveva determinato la morte di T., veniva avviato un procedimento penale per istigazione al suicidio, conclusosi favorevolmente all’imputato in quanto l’autorità giudiziaria riteneva che si fosse trattato di un incidente. Avverso il provvedimento di archiviazione, il ricorrente non aveva presentato opposizione non perché ne avesse concordato le conclusioni, ma perché non si fidava più delle autorità per stabilire la verità.

Egli ricorreva, quindi, alla Corte di Strasburgo, lamentando la violazione degli articoli 2, 3, 6 e 8 della Convenzione, in quanto le autorità moldave non erano riuscite a prevenire la violenza domestica nei confronti di sua sorella, T., né a proteggere la stessa dal continuum di episodi aggressivi che era culminato con il suo verosimile suicidio, e che non erano riuscite a indagare efficacemente sulle circostanze della violenza che aveva portato alla sua morte. 

Il Giudice europeo procede a esaminare il ricorso nella prospettiva degli artt. 2 e 3 della Convenzione, attesoché esisteva, in capo alle autorità nazionali, un obbligo indiscusso, ai sensi del primo parametro invocato, di indagare sulle circostanze sospette della morte di T. e, inoltre, che il modello di violenza domestica che emerge nel ricorso rientra nell’ambito del secondo parametro.

Tanto chiarito, la Corte opera una ricognizione dei principi elaborati in tema di violenza domestica. Come evidenziato nella sentenza Kurt c. Austria [GC] e ribadito in Y e altri c. Bulgaria, le autorità nazionali: (a) devono rispondere con tempestività alle denunce di violenza domestica; (b) effettuare una valutazione del rischio completa, autonoma, proattiva ed esaustiva, che tenga conto del contesto concreto e, ove  (c) tale valutazione riveli che sussiste un rischio reale e immediato per la vita della vittima, devono adottare misure preventive e protettive adeguate e proporzionate per scongiurarlo (v. anche De Giorgi c. Italia).

La Corte ricorda, poi, che l’obbligo di condurre un’indagine efficace in tutti i casi di violenza domestica rappresenta un elemento fondamentale degli obblighi procedurali posti a carico dello Stato ai sensi degli articoli 2, 3 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Tale obbligo richiede che: (a) l’indagine sia tempestiva, approfondita e indipendente; (b) le autorità adottino tutte le misure ragionevoli per raccogliere e conservare le prove, garantendo un approccio proattivo; (c) venga applicata una diligenza particolare nella gestione dei casi di violenza domestica, tenendo conto della loro specifica natura e delle dinamiche di genere che li caratterizzano; (d) la protezione offerta dal diritto interno non sia solo formale, ma si traduca in un’applicazione pratica ed efficace delle misure di tutela; (e) le autorità giudiziarie assicurino che i responsabili non rimangano impuniti, riconoscendo e sanzionando adeguatamente le sofferenze fisiche e psicologiche inflitte. Pertanto, lo Stato ha il dovere di predisporre un sistema giudiziario che risponda con prontezza ed efficienza, evitando ogni forma di tolleranza nei confronti della violenza di genere.

La Corte procede, dunque, ad applicare i principi evocati al caso in esame, analizzando, innanzitutto, la condotta delle autorità nazionali con riferimento ai procedimenti avviati a seguito delle accuse di violenza domestica mosse da T., inclusi quelli relativi all’adozione degli ordini di protezione. 

A tal proposito, la Corte rileva che, nonostante fossero stati tempestivamente avviati numerosi procedimenti contro l’ex marito della sorella del ricorrente, le autorità non avevano mai compiuto un serio tentativo di considerare il caso di T. nella sua totalità: approccio, questo, indispensabile nel contesto in esame.

In particolare, la Corte osserva che non è stata condotta alcuna indagine approfondita in merito alle violenze psicologiche o alle aggressioni fisiche denunciate, avvenute nel novembre 2013 e nei mesi di giugno e novembre 2015, così come per le violazioni degli ordini di protezione, eccetto quella occorso il 26 settembre 2014. Inoltre, le autorità non hanno analizzato le varie forme di violenza denunciate da T., quali le presunte violenze psicologiche, lo stalking e le molestie, segnalate più volte alle forze dell’ordine. In questo senso, ribadisce che gli episodi di violenza domestica non dovrebbero mai essere trattati isolatamente, ma devono essere piuttosto considerati come parte di un comportamento sistematico o come una serie di episodi correlati.

La successiva archiviazione del procedimento penale de quo è stata il risultato di una sfortunata combinazione di fattori, tra cui la mancata considerazione delle manifestazioni di violenza diverse dalle lesioni fisiche gravi, l’applicazione di una legge penale più indulgente e l’intervenuta prescrizione del reato.

Vi è stata, quindi, una violazione dell’art. 3 della Convenzione nei suoi profili procedurali (i).

Ciò posto, la Corte procede a esaminare, alla luce degli obblighi procedurali sanciti dall’art. 2 della Convenzione (ii), la condotta delle autorità relativamente al procedimento penale per la morte di T. 

In proposito, la Corte evidenzia una serie di carenze e di incongruenze investigative, sottolineando, ad esempio, come il Pubblico Ministero, nella richiesta di archiviazione, avesse fatto riferimento al fatto che T., durante il ricovero, non avesse ricordo dei fatti, pur non avendo neppure tentato di interrogare direttamente la vittima, deceduta più di un mese dopo l’avvio delle indagini. Oppure, alla supposta intossicazione da alcol di T., smentita nell’ordine di protezione emesso su richiesta della donna all’indomani del fatto.

La Corte osserva, altresì, che la storia di violenza domestica protrattasi per un lungo periodo ai danni di T., che denotava gli elementi tipici della violenza di genere, avrebbe richiesto alle autorità di agire con particolare diligenza nello svolgimento delle indagini, considerando la morte della donna alla luce di tale contesto ed eventualmente riconoscendo la concreta possibilità di trovarsi di fronte a un caso di femminicidio e agire di conseguenza. 

Invero, la Corte ribadisce che, ogniqualvolta sussiste il sospetto che un decesso o un incidente possano essere scaturiti nel quadro di violenza domestica, è indispensabile che le indagini vengano condotte con rigore, tempestività ed efficacia, operando un’adeguata contestualizzazione dell’evento infausto.

In merito alla mancata opposizione della decisione di archiviazione da parte del ricorrente, la Corte osserva che nei casi riguardanti un decesso o un infortunio mortale in circostanze che possono dare origine alla responsabilità dello Stato, le autorità devono agire d’ufficio una volta che la questione sia giunta alla loro attenzione, non potendo lasciare all’iniziativa dei parenti più prossimi né la presentazione di una denuncia formale né l’assunzione della responsabilità per lo svolgimento di eventuali procedure investigative.

Sulla scorta di tali rilievi, la Corte rileva, pertanto, una violazione dell’art. 2 nel suo profilo procedurale, mentre esclude di poter esaminare la questione nella prospettiva del profilo sostanziale della disposizione in parola, non essendo stato possibile trarre conclusioni definitive sulla responsabilità dello Stato convenuto ai sensi della Convenzione per quanto riguarda la morte della sorella del ricorrente.

La Corte passa, dunque, a esaminare la violazione dell’art. 3 (iv) della Convenzione nel suo profilo sostanziale.

A questo riguardo, la Corte riscontra, in primo luogo, la sussistenza di significative carenze nel quadro normativo interno e nella sua applicazione, evidenziando, tra l’altro, alla luce delle criticità espresse del rapporto GREVIO nel 2023 (https://www.coe.int/en/web/chisinau/-/grevio-publishes-its-report-on-the-republic-of-moldova), come il caso in esame denoti l’incapacità del sistema moldavo di contrastare un modello di violenza caratterizzato da violenza fisica a lungo termine ma di bassa intensità e di violenza psicologica perpetrata, nella vicenda in esame, anche dopo il divorzio dei coniugi, nonostante i ripetuti ordini di protezione.

La Corte evidenzia come le autorità, considerate le numerose denunce presentate da T. e le ripetute richieste di adozione di ordini di protezione, fossero pienamente consapevoli della situazione di violenza domestica a cui la donna era sottoposta e, pertanto, avevano il dovere di proteggere T. attraverso una valutazione regolare e approfondita del rischio, considerando la natura ricorrente della violenza e la possibilità di escalation. Le stesse si sono invece limitate ad esaminare la gravità di singoli episodi, trascurando il contesto complessivo in cui si collocavano e le dinamiche della violenza domestica. Peraltro, anche ipotizzando che qualche valutazione informale sia stata effettuata, essa non è stata né autonoma né proattiva. 

La mancanza di un efficace meccanismo di monitoraggio dei provvedimenti di protezione, nonché di un’adeguata valutazione del rischio ha portato alla sottovalutazione del pericolo, all’interruzione delle indagini e al rifiuto di misure protettive in un momento critico, come dimostrato dal rifiuto di prorogare l’efficacia dell’ordine di protezione nel 2016, a ridosso dell’episodio che ha determinato la morte di T.. Non risulta, d’altra parte, che coloro che hanno preso in carico le denunce di T. fossero stati specificamente formati sulle dinamiche della violenza domestica, come richiesto, invece, dalla giurisprudenza della Corte.

In definitiva, le autorità inquirenti non hanno agito in modo rapido, diligente e coerente rispetto a tutti i casi di violenza domestica denunciati da T. e, soprattutto, non hanno valutato la natura reale e immediata del rischio di recidiva della violenza, né tenuto debitamente conto del contesto specifico in cui sono maturati i singoli episodi, sì da poter adottare misure preventive e protettive per scongiurare il verificarsi dell’esito letale.

La Corte ritiene, pertanto, che lo Stato convenuto abbia violato i suoi obblighi positivi sostanziali ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione

La Corte conclude, altresì, che vi è stata una violazione dell’art. 14 della Convenzione, letto in combinato disposto con gli articoli 2 e 3 della stessa.

In questo senso, rileva, infatti, che la mancata protezione di T. costituisce il riflesso di una più ampia tolleranza istituzionale della violenza domestica e di genere in Moldavia, come emerge anche dal già citato rapporto GREVIO 2023.

Invero, pur riconoscendo il problema, il governo moldavo non è riuscito a dimostrare di aver adottato misure correttive adeguate a fronteggiare  la natura sistemica della violenza domestica, privando molte donne di una protezione effettiva.

In questa prospettiva, peraltro, ritiene di dover sottolineare come il linguaggio e le motivazioni addotte dal tribunale nel respingere l’estensione del quinto ordine di protezione nell’agosto 2016 dimostrino l’incapacità delle autorità di considerare ciascun episodio nel contesto necessariamente più ampio che caratterizza la violenza di genere.

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
 
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

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