Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di maggio 2022

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di maggio 2022

Le sentenze di maggio della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, qui selezionate, riguardano la facoltà dei rappresentanti sindacali di negare l’adesione di nuovi membri; il disaccordo di genitori separati quanto a scelte educative, in particolare religiose; l’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine; l’impegno degli Stati nel garantire l’accessibilità dei luoghi per le persone disabili.

In particolare, la sentenza Vlahov c. Croazia si occupa di definire il rapporto tra la libertà di associazione e i limiti che i rappresentanti sindacali incontrano nel negare l’accesso ad aspiranti membri.

Il caso T.C. c. Italia sottende il tema dell’educazione religiosa dei figli in ipotesi di disaccordo dei genitori, una volta separati. La Corte, nella prospettiva di una disparità di trattamento nel godimento dell’articolo 8, esclude l’esistenza di una violazione nella decisione con cui i giudici nazionali hanno indicato al ricorrente di non coinvolgere attivamente la figlia nelle iniziative dei Testimoni di Geova. In un’opinione concorde, il giudice Sabato mostra come, col medesimo risultato, sarebbe stato preferibile sussumere il caso nell’articolo 9 della Convenzione, sulla libertà di religione, e interrogarsi sul “recepimento” del criterio nazionale della “continuità” nelle scelte educative.

Il caso Bouras c. Francia concerne l’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine. La giurisprudenza sovranazionale formatasi con riguardo all’operatività dell’articolo 2 della Convenzione si allinea, tendenzialmente, ai criteri nazionali di assoluta necessità e proporzionalità. La Corte, nel caso di specie, richiama l’articolo 2 § 2 (a), norma cui corrisponde, nell’ordinamento italiano, la scriminante della difesa legittima ex articolo 52 c.p. Assoluta necessità e proporzionalità sono però criteri validi anche per valutare l’operato delle forze dell’ordine nell’ambito dell’articolo 53 c.p. La sentenza viene qui segnalata per aver circoscritto, da una parte, la responsabilità dello Stato secondo un onere “realistico” quanto a mezzi di cui dotare le forze dell’ordine; dall’altra, la responsabilità dei gendarmi quanto a esigibilità di un comportamento diverso, accordando rilevanza a profili soggettivi quali la percezione del pericolo e l’esperienza personale del gendarme autore dell’omicidio.

Infine, nella sentenza Arnar Helgi Lárusson c. Islanda, la Corte delinea il contenuto degli obblighi positivi gravanti sugli Stati per la rimozione degli ostacoli (discriminatori) all’accessibilità degli spazi pubblici per le persone disabili.

 

Sentenza della Corte Edu (Terza Sezione), 5 maggio 2022, ric. n. 31163/13, Vlahov c. Croazia

Oggetto: articolo 11 della Convenzione. Libertà di associazione – condanna penale di un rappresentante sindacale per aver rifiutato di ammettere aspiranti membri – mancanza di necessità in una società democratica – mancanza di motivazione nelle decisioni dei giudici nazionali.  

Il ricorrente era rappresentante di un sindacato locale croato dei funzionari doganali, uno dei due sindacati che operavano all’interno dell’Ufficio doganale, un’organizzazione relativamente piccola che all’epoca della violazione contava circa 30 membri, tutti aderenti volontariamente. Il ricorrente respingeva le domande di iscrizione di 15 dipendenti dell’Ufficio doganale, motivando la propria decisione in una lettera indirizzata agli interessati, affermando di aver agito, in accordo con altri membri del sindacato, con l’intento di non voler estendere il numero di aderenti al sindacato. Allo stesso tempo, però, il presidente del sindacato, che aveva avuto divergenze con il ricorrente sulla gestione, iscriveva i 15 aspiranti membri. Nel corso di un’assemblea generale straordinaria tenutasi a marzo, il rifiuto del ricorrente di accettare i 15 membri veniva discusso e si decideva di rimuoverlo dalla carica di rappresentante sindacale.

Il sindacato presentava quindi una denuncia penale contro il ricorrente ai sensi dell’articolo 109 del codice penale, con l’accusa di aver impedito immotivatamente a 15 aspiranti membri di iscriversi al sindacato. Il tribunale municipale lo riconosceva colpevole e gli infliggeva una pena detentiva di quattro mesi con sospensione condizionale. Il tribunale riteneva, in particolare, che il ricorrente avesse agito in contrasto con la Costituzione, il diritto nazionale pertinente e lo statuto del sindacato stesso. Rigettava inoltre come irrilevante la sua richiesta di interrogare tre testimoni. La decisione del tribunale municipale veniva confermata dal Tribunale di contea e, successivamente, dalla Corte costituzionale.

Di fronte alla Corte di Strasburgo il ricorrente invocava l’articolo 11 (libertà di associazione) della Convenzione lamentando l’arbitrarietà e l’eccessività della sua condanna e sostenendo di aver agito nell’interesse dei membri esistenti del sindacato, che all’epoca non avevano voluto estendere l’adesione. Il ricorrente invocava, inoltre, l’articolo 6, paragrafi 1 e 3 (d) (diritto a un processo equo e diritto a ottenere la presenza e l’esame di testimoni), sostenendo che il procedimento penale contro di lui era stato ingiusto perché la sua proposta di ascoltare alcune testimonianze difensive era stata ingiustamente respinta.

La Corte Edu in primo luogo, ritiene che la condanna del ricorrente costituisce un’ingerenza nel diritto dei sindacati - in quanto associazioni formate da persone - di controllare i propri membri, come garantito dall’articolo 11 della Convenzione.

Rispetto al principio di legalità e allo scopo legittimo perseguito, la Corte riconosce che tale ingerenza fosse prevista dalla legge, ossia dall’articolo 109 del codice penale, e che fosse finalizzata a tutelare il diritto degli aspiranti sindacalisti di esercitare la propria libertà di associazione.

Tuttavia, sotto il profilo della proporzionalità dell’ingerenza, la Corte rileva che le decisioni dei tribunali nazionali non fossero state adeguatamente motivate. Le decisioni non erano state dettagliate e, alla luce dei principi rilevanti sanciti dall’articolo 11 della Convenzione, non avevano sufficientemente tenuto in considerazione il rispetto da parte del ricorrente dei regolamenti e degli statuti interni del sindacato, il fatto che il ricorrente avesse il diritto, all’epoca, in qualità di rappresentante sindacale, di intraprendere azioni per proteggere gli interessi dei suoi membri. Inoltre, i giudici avevano respinto la richiesta del ricorrente di assumere ulteriori prove, senza una decisione adeguatamente motivata.

In ogni caso, la Corte rileva che gli aspiranti soci non avevano apparentemente subito alcun disagio identificabile, poiché non vi era stato alcun accordo di chiusura. Inoltre, erano stati liberi di iscriversi all’altro sindacato o di intentare un'azione legale in merito alle loro condizioni di lavoro.

La Corte non rinviene alcun motivo discriminatorio dietro le azioni del ricorrente. In effetti, egli non intendeva negare l’ammissione degli aspiranti membri in quanto tale, ma ritardare la decisione sull'estensione dell'adesione al sindacato fino alla successiva assemblea generale annuale.

La Corte ritiene che l’ingerenza denunciata non fosse necessaria in una società democratica, dunque che non vi sia una violazione dell’articolo 11 della Convenzione.

La dedotta violazione dell’articolo 6, paragrafi 1 e 3 (d), della Convenzione risulta totalmente assorbita dal riconoscimento della violazione dell’articolo 11 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 19 maggio 2022, ric. n. 54032/18, T.C. c. Italia

Oggetto: articolo 14 (divieto di discriminazione) in relazione agli articoli 8 (diritto al rispetto della vita private e familiare), 9 (libertà di pensiero, coscienza e religione) della Convenzione, nonché articolo 5 Prot. 7 (parità tra i coniugi). Convivenza di fatto, suo scioglimento e affidamento congiunto della figlia minorenne – crescita ed educazione di stampo tendenzialmente cattolico fino alla separazione – adesione del ricorrente, dopo la separazione, ai Testimoni di Geova e coinvolgimento della figlia alle iniziative di questi ultimi – interesse superiore della minore e sua prevalenza rispetto al principio di parità tra i genitori quanto a scelte educative – rilevanza di criteri quali continuità, contesto sociale di riferimento, opinioni espresse dal minore.

Il ricorrente e S.G., genitori di E., concludevano la loro convivenza di fatto nel 2008.

L’anno successivo, il ricorrente iniziava a frequentare le riunioni dei Testimoni di Geova, di cui diventava membro nel 2011, mediante battesimo.

Nel settembre 2013, S.G. avviava un procedimento non contenzioso dinanzi al Tribunale di Livorno in quanto, senza il suo consenso, il ricorrente portava la figlia alle funzioni dei Testimoni di Geova nonché a distribuire riviste religiose per strada, impedendole di frequentare le lezioni di danza classica. La bambina, ascoltata dal Tribunale, confessava di sentirsi a disagio in tali occasioni.

Sebbene S.G. non fosse cattolica praticante, i genitori, di comune accordo, avevano iscritto la bambina presso un asilo privato cattolico romano, consentendole di partecipare alle feste di compleanno e di Carnevale di altri bambini, nonché di frequentare lezioni di danza classica e catechismo in vista di un’eventuale futura prima comunione.

Il Tribunale, dopo aver stabilito l’affidamento congiunto, la residenza presso l’abitazione della madre, il diritto del padre a trascorrere con la figlia almeno 12 giorni al mese, incaricava i servizi sociali di valutare l’influenza che le attività religiose di entrambe le parti avevano sulla bimba dal punto di vista psicologico e comportamentale.

In seguito il ricorrente, dopo aver acconsentito a che la figlia partecipasse allo spettacolo di danza classica e prendesse il sacramento della prima comunione, chiedeva che la medesima frequentasse la Sala del Regno. Il perito nominato dal Tribunale riteneva che la diversità di credenze religiose dei genitori non fosse pregiudizievole per la bambina ma che, viceversa, lo fosse l’atteggiamento del ricorrente, nella misura in cui costringeva la figlia a cambiare abitudini e partecipare attivamente alle attività religiose, senza coinvolgere la madre, anzi tenendo il tutto nascosto.

Il Tribunale suggeriva di non farla partecipare attivamente alle iniziative dei Testimoni di Geova, in quanto il contesto familiare e sociale in cui era cresciuta era quello della Chiesa cattolica (il ricorrente si era avvicinato a una diversa religione solo dopo la separazione). Il principio di parità tra i genitori e le loro religioni doveva essere rivalutato alla luce del superiore interesse del minore, secondo criteri di continuità nell’educazione, anche religiosa, al fine di evitare turbamenti e confusioni in un momento di ricerca e sviluppo della propria identità. La Corte d’Appello, nel confermare la decisione di primo grado,

specificava il dispositivo nel senso che il ricorrente, seppur astenendosi dal coinvolgere attivamente la figlia nelle sue attività religiose, avrebbe comunque potuto comunicarle le sue convinzioni.

Il ricorrente lamentava dinanzi alla Corte di Strasburgo di aver subito un trattamento differenziato quanto al godimento dei diritti al rispetto della vita privata e familiare e alla libertà di religione, in violazione degli articoli 8 e 9 della Convenzione, da soli e in combinato disposto con l’articolo 14, nonché la violazione del diritto di parità tra coniugi, anche nell’ambito della relazione coi figli, ai sensi dell’articolo 5 Prot. 7.

La Corte si concentra sugli articoli 14 e 8 della Convenzione, avvalendosi della libertà di religione solo come parametro di valutazione.

L’articolo 14 della Convenzione non ha un’esistenza autonoma, poiché ha effetto solo in relazione al “godimento dei diritti e delle libertà” tutelati dalle disposizioni sostanziali, benché non sia necessario accertare la violazione diretta di queste ultime. Inoltre, ai fini dell’articolo 14, una differenza di trattamento è discriminatoria se non ha giustificazione obiettiva e ragionevole, ossia se non persegue una finalità legittima o se non esiste un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e la finalità perseguita.

In relazione al godimento dell’articolo 8, anche qualora sia venuto meno il rapporto di coppia o coniugio tra genitori, è fondamentale garantire che il minore mantenga rapporto con entrambi e qualsiasi decisione nazionale che limiti o moduli tale rapporto rappresenta un’interferenza col diritto convenzionale. Interferenza volte a definire le modalità pratiche di esercizio della responsabilità genitoriale devono perseguire con priorità l’interesse dei figli, il che implica la conciliazione delle scelte educative di ciascun genitore senza giudizi di valore.

Secondo la Corte, la decisione dei tribunali nazionali, nella parte in cui indicava al ricorrente di astenersi dal coinvolgere la figlia nelle sue pratiche religiose, ha tenuto conto soprattutto degli interessi della bambina, in particolare della necessità di mantenere e promuovere il suo sviluppo in un ambiente aperto e pacifico, conciliando per quanto possibile i diritti e le convinzioni di ciascuno dei suoi genitori.

Siffatta decisione, finalizzata esclusivamente a risolvere il conflitto derivante dalla contrapposizione tra le concezioni educative dei due genitori, non ha determinato né una restrizione ai diritti di custodia e di visita della figlia né un vulnus alla libertà di religione del ricorrente, non essendogli stato inibito (bensì espressamente concesso) di utilizzare i propri principi educativi e religiosi. Si tratta poi di una decisione rebus sic stantibus, revocabile in qualsiasi momento. Ne discende la mancanza di violazioni della Convenzione, sia con riguardo al combinato disposto degli articoli 8 e 14 della Convenzione, che, singolarmente, dell’articolo 8.

In calce alla sentenza, è allegato innanzitutto il parere concorde del giudice Sabato. Dopo aver chiarito alcune circostanze di fatto (il ricorrente aveva impedito alla figlia di frequentare lezioni di danza, nonché di partecipare a feste di compleanno o di carnevale in quanto attività proibite secondo il nuovo credo ma a cui la bambina era stata abituata in passato) nonché di diritto (natura e funzioni della giurisdizione volontaria), il giudice commenta la scelta della maggioranza di esaminare le doglianze essenzialmente in base agli articoli 14 e 8 della Convenzione, ridimensionando l’incidenza dell’articolo 9, secondo un principio di diritto enunciato dalla Grande Camera nella sentenza Abdi Ibrahim c. Norvegia: quando il bambino vive coi genitori, questi possono esercitare i diritti dell’articolo 9 attraverso le modalità di godimento dei diritti dell’articolo 8.

Tuttavia, in quel caso, le autorità nazionali avevano impedito al ricorrente di avere contatti col figlio, per questa ragione la valutazione della “questione religiosa”, ossia il desiderio che il figlio venisse educato dai genitori affidatari in linea con la sua fede, risultava assorbita in quella più generale dell’interferenza nella vita privata e familiare del ricorrente. Viceversa, nel caso in esame, entrambi i genitori hanno esercitato senza restrizioni i loro diritti genitoriali per quanto riguarda sia i contatti con la bambina e che le scelte educative su questioni religiose; l’unica restrizione imposta al padre è stata quella di non poter far partecipare la figlia alle funzioni dei Testimoni di Geova, dunque di organizzarsi per assistere da solo alle funzioni religiose, il che non può in alcun modo incidere in modo significativo sulla sua vita privata e familiare in termini di rapporti con la figlia. Pertanto, la denuncia sollevata dal ricorrente sarebbe dovuta procedere principalmente, se non esclusivamente, sull’articolo 9 della Convenzione. La scelta della maggioranza ha impedito di sviluppare ulteriormente la giurisprudenza della Corte sul ruolo dell’accordo dei genitori nelle scelte religiose riguardanti quegli stessi figli e, in particolare, di stabilire se avallare il test di “continuità” o “status quo” di cui si sono avvalsi i giudici nazionali.

In netta antitesi, l’opinione dissenziente dei giudici Paczolay e Felici, secondo i quali il ricorrente avrebbe subito una violazione della Convenzione, quanto al combinato disposto degli articoli 8 e 14. I giudici nazionali hanno ignorato il fatto che la bambina aveva frequentato eventi e attività religiose col padre fin dall’età di tre anni. Inoltre, nel frattempo, il ricorrente aveva sposato E.B., una testimone di Geova, e da questa unione era nato un bambino, con cui la bambina sembra andasse d’accordo. Di conseguenza, l’ambiente sociale di quest’ultima era ugualmente legato ai Testimoni di Geova. Invero, le decisioni nazionali sembrano mostrare un pregiudizio nei confronti della religione del ricorrente. La Corte ha già sottolineato che esporre i giovani alle idee di diversità, uguaglianza e tolleranza non può che favorire la coesione sociale.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 19 maggio 2022, ric. n. 31754/18, Bouras c. France

Oggetto: articolo 2 della Convenzione (diritto alla vita – componente materiale). Uso della coazione fisica e delle armi da parte delle forze dell’ordine – trasferimento in macchina di un detenuto pericoloso, sua aggressione improvvisa, assoluta necessità e proporzionalità della difesa – quadro normativo completo e rispetto dei regolamenti.

Nel 2014, H.B. veniva accusato di rapina a mano armata e posto sotto custodia cautelare. Durante la detenzione, causava vari incidenti e tentava la fuga.

Due militari (M.R. e M.G.) venivano incaricati di prelevarlo dalla prigione perché fosse interrogato dal giudice istruttore: lo ammanettavano e collocavano nel sedile posteriore destro del veicolo di servizio. M.R. gli stava accanto sul sedile posteriore sinistro, M.G. guidava il veicolo. Ciascun gendarme portava un’arma d’ordinanza carica, con la prima cartuccia in canna; non avevano un taser, ma erano dotati di manganello e bomboletta di gas lacrimogeno.

Durante il viaggio in autostrada, H.B. spostava la cintura di sicurezza e apriva manualmente il finestrino posteriore destro, richiudendolo su richiesta di uno dei due militari. Quest’ultimi notavano che il detenuto aveva fatto cenno a un altro veicolo che, per un po’, aveva seguito la loro vettura. Improvvisamente H.B. aggrediva M.R. e cercava d’impossessarsi dell’arma. Seguiva una colluttazione, culminata in un unico colpo letale al detenuto, per mano di M.G. a difesa di M.R.

Lo stesso giorno, il pubblico ministero del tribunale di Strasburgo avviava le indagini: M.G. veniva posto sotto custodia e interrogato; M.R. veniva sentita come testimone in due occasioni. Gli investigatori interrogavano altresì un testimone che viaggiava sull’autostrada al momento della tragedia: dichiarava di aver visto il veicolo della gendarmeria, con lampeggiante acceso, accostarsi sulla corsia di emergenza, poi un uomo sdraiato sul fianco destro, con la donna gendarme sopra.

L’autopsia e l’esame patologico rivelavano tracce di colpi agli stinchi di H.B. e confermava quale causa della morte un’unica ferita da arma da fuoco.

L’analisi della videosorveglianza da parte degli investigatori dimostrava che un’auto nera aveva effettivamente seguito lo stesso percorso del veicolo dei gendarmi per quasi dieci minuti dalla prigione di Strasburgo, rimanendo a volte a venti metri di distanza.

Il caso veniva archiviato in quanto M.G. aveva agito per legittima difesa, a beneficio di M.R.: H.B. aveva aggredito fisicamente M.R. per impossessarsi della sua arma durante il suo trasferimento; quando M.G. si era reso conto del pericolo, dopo aver tentato invano di trattenere il detenuto, sparava, non trovando altra soluzione per preservare la vita della collega e di sé stesso.

I genitori di H.B. denunciavano dinanzi alla Corte di Strasburgo la violazione dell’articolo 2 della Convenzione.

Dopo una premessa sul proprio ruolo sussidiario e non sostitutivo, la Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso della madre per mancato esaurimento dei rimedi interni, non potendosi ritenere esperiti tramite le iniziative giudiziarie del marito.

Nel merito, il ricorrente sottolineava l’assenza di un rischio oggettivamente identificabile per la vita dei gendarmi, i quali avrebbero dovuto ricevere un addestramento migliore, ad esempio per l’utilizzo del candelotto lacrimogeno; inoltre, avrebbero dovuto essere dotati del taser elettrico.

In primo luogo, la Corte enuncia il principio di diritto in base al quale verificare l’esistenza di una violazione o meno della componente sostanziale dell’articolo 2 della Convenzione: valutare se la forza utilizzata fosse “assolutamente necessaria” e strettamente proporzionata, data la situazione in cui si trovava l’agente di polizia (M.G.). Sul punto rileva anche la ragionevolezza soggettiva del convincimento.

I risultati delle indagini mostrano convergenza tra le dichiarazioni dei due gendarmi, le quali hanno altresì trovato riscontro in esami balistici, genetici e forensi. Risulta accertato che, prima di sparare il colpo fatale, M.G. aveva tentato senza successo di porre fine all’aggressione di H.B. contro la sua collega con mezzi non letali (richiami, uso della forza fisica e del manganello). Vero è che M.G. non ha usato la bombola di gas lacrimogeno a sua disposizione e non era dotato di taser; tuttavia, la Corte non può speculare in astratto sull’opportunità di utilizzare altri mezzi, in quanto il suo compito non è quello di sostituire la propria valutazione della situazione a quella di un agente che ha dovuto reagire nella foga del momento: sebbene sia auspicabile che tali mezzi siano resi ampiamente disponibili per limitare l’uso di metodi potenzialmente letali, ritenere la responsabilità dello Stato per la mancata adozione dei medesimi significherebbe gravarlo di un onere irrealistico, a spese dell’incolumità dei funzionari pubblici. Inoltre, M.G. è dovuto intervenire a seguito di un attacco brusco e improvviso, che l’ha a reagire senza preparazione, soprattutto perché, in quanto assistente volontario, non aveva l’esperienza di un agente militare di carriera.

Alla luce del comportamento di H.B., dell’aggressione a M.R., degli iniziali tentativi di M.G. di dissuadere e trattenere il detenuto, la decisione di usare la sua arma da fuoco poteva, nelle circostanze del caso, essere considerata giustificata e assolutamente necessaria “per la difesa di qualsiasi persona contro la violenza illegale” ai sensi dell’articolo 2 § 2 (a) della Convenzione.

In conclusione, non v’è alcuna violazione della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Terza Sezione), 31 maggio 2022, ric. n. 23077/19, Arnar Helgi Lárusson c. Islanda

Oggetto: articolo 14 (+ articolo 8). Obblighi positivi – disabile su sedia a rotelle – impossibilità di accedere a edifici pubblici locali – ostacolo alla partecipazione del ricorrente alle attività culturali e agli eventi sociali – assenza di discriminazione – misure alternative adottate per realizzare gradualmente l'accessibilità universale – adeguamenti necessari e appropriati - onere sproporzionato per lo Stato.

Il ricorrente è un cittadino islandese che a seguito di un incidente ha dovuto utilizzare una sedia a rotelle per la sua mobilità.

A seguito delle difficoltà di accesso ai centri artistici e culturali comunali, insieme a un’associazione rappresentativa delle persone con lesioni spinali, agiva in tribunale contro il comune e una holding di sua proprietà, chiedendo di migliorare l'accesso agli edifici per le persone in sedia a rotelle, tramite la costruzione di rampe, ascensori e parcheggi per disabili, oltra al risarcimento dei danni subiti. Il ricorrente lamentava la lesione del suo diritto costituzionale alla non discriminazione e i diritti protetti dalla Convenzione.

Il tribunale distrettuale competente dava ragione agli enti convenuti, ritenendo che non vi fosse alcuna violazione del regolamento edilizio. Tuttavia, riconosceva l’obbligo del comune di migliorare gradualmente l’accesso agli edifici pubblici per le persone in sedia a rotelle in futuro. Il tribunale inoltre rilevava che il comune fosse dotato di una certa discrezionalità esecutiva nel modo in cui ottemperare al suddetto obbligo, per il cui assolvimento si era già attivato.

La decisione veniva confermata dalla Corte Suprema, che concordava sulla valutazione sella Corte distrettuale secondo cui i comuni hanno per legge un’ampia discrezionalità nel trattare le questioni relative alle disabilità. La Corte non affrontava però in maniera esplicita le argomentazioni relative alla Convenzione o alla non discriminazione del ricorrente.

Di fronte alla Corte di Strasburgo, il ricorrente lamentava la violazione dei suoi diritti ai sensi dell’articolo 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata). Egli sosteneva che la mancanza di accessibilità ai due edifici aveva ostacolato lo sviluppo della sua personalità e il suo diritto di stabilire e sviluppare relazioni con la comunità.

Innanzitutto, la Corte ritiene che le doglianze del ricorrente rientrino nella sfera della sua “vita privata”, poiché la mancanza di accesso agli edifici in questione poteva pregiudicare il diritto allo sviluppo personale e il diritto di stabilire e sviluppare relazioni con altre persone e con il mondo esterno. Pertanto, la Corte ritiene l’articolo 14, letto in combinazione con l’articolo 8, applicabile al ricorso del ricorrente.

La Corte successivamente ripercorre la sua giurisprudenza sulla definizione di “discriminazione” quale “trattamento diverso di persone in situazioni analoghe” e sulle condizioni per la legittimità di una misura discriminatoria (“giustificazione obiettiva e ragionevole” e uno “scopo legittimo”). Fa inoltre riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, in cui si afferma che la negazione dell’accesso delle persone con disabilità a strutture e servizi aperti al pubblico deve essere considerata una discriminazione.

Nel settore delle iniziative statali volte a garantire l’accesso alle persone disabili negli spazi pubblici, gli Stati godono di una certa discrezionalità. Tale discrezionalità si traduce nell’obbligo di agevolare le persone con disabilità, purché il relativo adempimento non determini un onere sproporzionato per lo Stato.

Nel caso concreto, la Corte valuta positivamente gli sforzi generali compiuti per migliorare l’accesso agli edifici comunali in Islanda ed esclude quindi l’esistenza di una mancanza discriminatoria tale da impedire al ricorrente di godere dell’accesso ai luoghi al pari dei consociati. Il comune, infatti, non ha omesso di migliorare l’accesso ai luoghi pubblici in generale ma ha scelto un ordine preciso di priorità degli immobili da migliorare, privilegiando le strutture sportive e scolastiche. Siffatta decisione appare ragionevole. D’altronde, l’autorità locale, in tempi recenti, ha apportato miglioramenti e manifestato l’impegno di continuare a potenziare l’accessibilità dei luoghi per i disabili.

Di conseguenza, la Corte ritiene che obbligare l’Islanda ad adottare misure immediate ulteriori rappresenti un “onere sproporzionato o indebito”. Nel complesso, il comune ha adottato misure adeguate ad affrontare il problema dell’accessibilità agli edifici pubblici, entro i limiti del bilancio disponibile, tenendo conto della protezione del patrimonio culturale degli edifici in questione.

In conclusione, poiché il ricorrente non ha subito una discriminazione, non vi è alcuna violazione dell’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8 della Convenzione.

Tale decisione non è approvata all’unanimità. Il giudice Zünd esprime un’opinione dissenziente ritenendo che nel caso di specie la violazione sussista. In particolare, il giudice ritiene che, pur nel rispetto del margine di apprezzamento garantito agli Stati in materia, sia mancata un’adeguata motivazione da parte dei giudici interni, delle autorità nazionali in generale, circa le misure adottate e l’impossibilità di agire più efficacemente senza oneri sproporzionati. Tale carenza di informazioni ha reso impossibile il controllo convenzionale della Corte.

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
 
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

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