Il 25 novembre non è una data casuale[1]. Quel giorno, correva l’anno 1960, furono uccise tre donne della Repubblica Dominicana. Patria, Minerva e Teresa, meglio conosciute come le sorelle Mirabal o Mariposas («le farfalle»), erano tre attiviste che combatterono per la libertà politica del loro paese contro la dittatura di Rafael Leònidas Trujillo (1930-1961). Una causa nobile che ben presto sarebbe stata messa a tacere dal dittatore con una morte cruenta. Mentre si dirigevano a far visita ai loro mariti al carcere di Puerto Plata, furono intercettate sulla strada del ritorno dagli agenti del Sim (Servico de inteligencia militar) e condotte in un canneto per essere malmenate, violentate, strangolate e infine gettate in un fosso, nel tentativo di far sembrare la loro morte un tragico incidente[2]. Così ebbe luogo quello che è considerato il crimine più odioso della storia dominicana: tre donne uccise per le loro idee politiche e perché reputavano un dovere l’esporsi per sostenerle[3]. Quarant’anni dopo l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, tramite la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999, sceglie proprio il 25 novembre come Giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne, in omaggio alla strenua militanza politica delle sorelle Mirabal.
1. Il richiamo alla storia
Negli ultimi decenni la ricerca storica ha progressivamente incluso la violenza di genere, quella maschile contro le donne in particolare, nelle proprie traiettorie d’indagine. Molto è stato prodotto, sia in termini quantitativi che qualitativi, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso quando, ad opera di una crescente mobilitazione femminile e femminista, il tema inizia a diventare di pubblica ed elevata priorità sociale. Una prima grande rivoluzione si registra allorché la «questione femminile», lemma di sintesi dell’insieme delle condizioni sociali di svantaggio sociale delle donne, viene abbandonata a favore di un più complesso dibattito sul rapporto tra i sessi[4]. Fortemente condizionata da questi impulsi, la quasi contemporanea diffusione del concetto di «genere», in un fortunato saggio dell’antropologa Gayle Rubin[5], ha avuto il merito di recidere quel legame deterministico che fino ad allora aveva fatto conseguire alle differenze anatomiche tra i sessi una serie di attitudini e ruoli sociali specifici per il maschile e per il femminile, per rimandare il discorso a un quadro interpretativo più ampio, fatto di rapporti di potere storicamente costruiti.
Nel solco della riflessione condotta dalle storiche e dagli storici in questa direzione, si considera la violenza maschile contro le donne come un fenomeno che contiene in sé il carattere della durata e quello del mutamento: trascende confini geografici e barriere culturali, di classe e religiose, dimostrandosi resistente ai cambiamenti, adattandosi a diverse epoche e manifestandosi in forme plurime. Il modo in cui il fenomeno è stato percepito a livello sociale, recepito nel contesto giuridico, affrontato politicamente e narrato si è trasformato più volte nel corso della storia, assumendo caratteristiche specifiche a seconda dei contesti. Lo stesso susseguirsi di nuove ed eterogenee definizioni di violenza sessuale dimostra lo sforzo di concettualizzare il fenomeno a fronte di una realtà in rapida trasformazione: il lento e complesso passaggio da «stupro» alla più recente «violenza di genere» «è un processo denso di significati», che esemplifica i cambiamenti intervenuti nel pensare la violenza contro le donne[6].
Il richiamo alla storia è evocato nel Preambolo della Dichiarazione sull’Eliminazione della violenza contro le donne, adottata nel 1993 dall’Assemblea Generale dell’Onu, laddove si riconosce il fenomeno come «una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne»[7]. Oltre a costituire un ulteriore tentativo di interpretazione e di messa a punto di specifiche politiche di contrasto rispetto alla precedente Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw, 1979), la Dichiarazione compie un indubbio passo in avanti laddove riconosce come «atto violento» qualsiasi forma di violenza «fondata sul genere» che abbia come risultato una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata[8]. Analogamente, in ambito europeo, la più recente Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul, 2011), ribadisce l’idea della natura strutturale della violenza «in quanto basata sul genere»[9].
In tal senso, la dimensione storica assume un ruolo politico cruciale[10] nel decostruire e denaturalizzare la violenza, sottraendola al «reame di una natura maschile che sarebbe istintivamente o essenzialmente violenta»[11]. Contrariamente alla tendenza diffusa a trattare la questione in termini emergenziali e spettacolarizzanti[12], tale prospettiva si rivela preziosa non solo per la progettazione di efficaci politiche, ma anche per la sua capacità di approfondire i processi socio-culturali che consentono al fenomeno di manifestarsi e perpetuarsi nel tempo. Evitare le insidie di narrazioni semplicistiche e generalizzanti – come quelle basate sul concetto di "raptus" o sulla figura del "mostro" – costituisce un passaggio essenziale. A partire da una definizione condivisa dalle scienze sociali del termine “emergenza” – «situazione improvvisa di difficoltà o pericolo, di carattere transitorio, anche se non necessariamente di breve durata»[13] – emerge l’urgenza di superare una rappresentazione improntata al sensazionalismo, che ostacola la comprensione della sistematicità del fenomeno, o come è stato definito, della sua «tragica condizione di normalità»[14], a favore di una più ampia riflessione che lo inquadri come parte integrante di complesse dinamiche strutturali.
2. La narrazione che intrattiene e legittima: il caso Giulia Tramontano
Come ogni fenomeno sociale, anche il femminicidio[15] si configura attraverso una propria dimensione linguistica e discorsiva, che non solo è socialmente determinata, ma agisce essa stessa come forza socialmente determinante[16]. In questo senso, le rappresentazioni mediali della violenza di genere assumono un ruolo cruciale nella costruzione di un senso comune, nel plasmare le percezioni collettive e, conseguentemente, le risposte sociali al fenomeno.
Numerosi studi hanno evidenziato come le caratteristiche distintive della rappresentazione mediatica della violenza di genere si allineino alla logica dell’infotainment. Seguendo tendenze simili a quelle osservate in Europa e negli Stati Uniti, a partire dagli anni Novanta anche il sistema informativo italiano ha visto emergere processi di «patemizzazione e spettacolarizzazione della realtà», che hanno avuto come esito la diffusione di resoconti informativi tanto emozionanti e teatralizzanti, quanto parziali e banalizzanti dei fatti[17].
Lo scorso 25 novembre 2024, la Corte d’Assise di Milano ha emesso la condanna in primo grado per Alessandro Impagniatello. Dopo tredici udienze svoltesi nell’arco di dieci mesi, la sentenza, pronunciata con rito immediato, ha sancito la pena dell’ergastolo per il femminicidio di Giulia Tramontano, avvenuto il 27 maggio 2023.
Quando un caso di cronaca come questo conquista le prime pagine dei giornali, l’interesse pubblico si accende rapidamente. Insieme alla vicenda di Giulia Cecchetin, il caso si è imposto con enorme visibilità nel dibattito pubblico, anche grazie e attraverso il coverage dei media mainstream e dei social. Sin dalla denuncia della sua scomparsa il volto di Giulia inizia a circolare sui social media e nei programmi televisivi, amplificando il collettivo coinvolgimento emotivo. L’inserimento di Alessandro Impagnatiello nel registro degli indagati accresce ulteriormente la tensione, culminata nella sua confessione, in data 31 maggio 2023. Le indagini di lì a poco portano alla luce una fitta trama di bugie, tradimenti, “vite parallele” e un epilogo drammatico. Ulteriori accertamenti hanno rivelato che Giulia era stata avvelenata ripetutamente nei mesi precedenti, un dettaglio che oltre a confermare la premeditazione del crimine, ha amplificato l'indignazione collettiva. La copertura mediatica della vicenda ha generato una narrazione fortemente drammatizzata, coinvolgendo i lettori al punto da farli immergere nelle vite dei protagonisti, quasi fossero personaggi di una fiction. Tale racconto, suscitando empatia nei confronti della vittima e indignazione verso l'autore del crimine, solleva una questione fondamentale: narrazioni così costruite favoriscono una comprensione autentica e approfondita delle dinamiche della violenza di genere, o rischiano di ridurre i fatti in semplici prodotti di intrattenimento?
Quello di Giulia Tramontano, per le sue caratteristiche specifiche, costituisce un esempio paradigmatico di femminicidio ad "alto grado di notiziabilità". Uno di quei casi che, rileva un’indagine dell’Osservatorio di ricerca sul femminicidio, si distingue per la straordinaria capacità di catalizzare l’attenzione mediatica e generare un volume consistente di notizie. Tre fattori spiegano questa dinamica. In primo luogo, la presenza di un elemento di mistero, assimilabile a un "giallo" da risolvere, conferisce alla vicenda una struttura narrativa in continua evoluzione, che consente ai media di mantenere vivo l’interesse del pubblico ritornando periodicamente sulla storia. Questo processo favorisce quella che può essere definita «settimanalizzazione» della notizia, in cui il resoconto giornalistico si intreccia con elementi narrativi dal sapore letterario, come avviene in un feuilleton. In secondo luogo, l’esposizione di dettagli cruenti cavalca l’ambiguità, «il particolare scabroso che si presume appassioni il lettore in cerca di emozioni extra-ordinarie». Infine, il pathos tragico: il coinvolgimento di protagonisti molto giovani, o la condizione di gravidanza della vittima, intensificano l’interesse collettivo[18].
La vicenda di Senago si inserisce in modo emblematico all'interno di una narrazione mediatica dal taglio fortemente romanzato, che tende a isolare il femminicidio come un evento singolare, ignorandone le profonde radici strutturali. Nel caso di Alessandro Impagnatiello, la costruzione narrativa iniziale ha puntato sulla sua presunta normalità, descrivendolo come un giovane "insospettabile", persino come "il papà perfetto", che avrebbe improvvisamente perso il controllo. Con l'avanzare delle indagini questo racconto si è progressivamente trasformato, configurando Impagnatiello come una figura "mostruosa": “bugiardo,” “manipolatore,” “narcisista”, delineando un’immagine che consente al pubblico di percepire il crimine come un’anomalia individuale, slegata dalle dinamiche sistemiche che invece ne costituiscono il fondamento. Espressioni come "Giulia sapeva del tradimento da gennaio" e "il rientro nella casa di Senago" veicolano, attraverso un linguaggio implicitamente prescrittivo, una narrazione che rischia di suggerire un senso di "inevitabilità" o persino di "predestinazione" della tragedia, contribuendo a deresponsabilizzare culturalmente il crimine e insinuare un certo grado di corresponsabilità della vittima. Un ulteriore elemento di criticità è rappresentato dall’estetizzazione della violenza. Gli aspetti più cruenti della vicenda, come il numero delle coltellate, i tentativi di occultare il corpo e l’utilizzo del veleno, vengono sovente enfatizzati, privilegiando il sensazionalismo rispetto a un’analisi più profonda delle dinamiche sociali sottese. Inoltre, il ricorso a immagini della vittima e del carnefice risulta tutt’altro che neutrale. Giulia Tramontano è stata spesso rappresentata attraverso fotografie che esaltano tratti stereotipicamente associati alla femminilità, quali dolcezza, maternità e sensualità, mentre Alessandro Impagnatiello appare frequentemente ritratto in contesti professionali, contribuendo implicitamente a rafforzare un’immagine di autorevolezza e razionalità. Questa contrapposizione iconografica contribuisce a riprodurre il dualismo uomo razionale/donna vulnerabile, consolidando una lettura che polarizza i ruoli e, ancora una volta, sottrae attenzione alle implicazioni culturali e sistemiche che sottendono al complesso fenomeno[19].
3. «Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre»[20]
Tali racconti finiscono per enfatizzarne gli elementi soggettivi e psicologici al fine di catturare l’attenzione di platee sempre più ampie, divenendo al tempo stesso moltiplicatori e solidificatori di immagini stereotipate preesistenti e persistenti[21].
L’etimologia stessa della parola "stereotipo" – coniata alla fine del Settecento dall’incisore francese Firmin Didot (1764-1836) – derivante dalle radici greche stereos ("duro", "solido") e typos ("impronta"), offre una chiara indicazione della sua natura statica e ripetitiva. Nell’uso standard della lingua italiana (ma anche francese, inglese e tedesca), il termine indica un’opinione generalizzata, sommaria e precostituita, che prescinde dall’osservazione diretta dei casi singoli e si applica in modo indiscriminato a oggetti, persone o gruppi sociali[22]. Benché la nozione di stereotipo non implichi necessariamente un giudizio di valore, nel linguaggio corrente è spesso utilizzata con connotazione negativa – diremmo "disforica" in linguaggio semiotico – in quanto allude a una discrepanza tra lo stereotipo stesso e la realtà concreta. La meccanicità dell’assunzione di stereotipi, il puro fatto di tramandarsi nello spazio e nel tempo, costituisce la loro «cauzione di legittimità» e il loro valore di verità. Tale meccanicità pone in qualche modo in secondo piano la dimensione del consenso. Nel caso degli stereotipi di genere, è stato notato come essi siano veicolati anche da chi non sembra concordare con il valore semantico da questi espresso, a causa di un particolare processo inconscio di internazionalizzazione. Il ricorso a questa sorta di «grammatica di senso comune», proprio per la capacità semplificatoria di cui è dotata, accompagna da sempre l’elaborazione di contenuti, garantendo una certa stabilità cognitiva[23].
Stando al sondaggio condotto dall’Istat nel 2018, reso noto il 25 novembre 2019 e denominato Stereotipi sui ruoli di genere e l’immaginazione sociale della violenza sessuale, il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è perfettamente in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole; anche la percentuale di chi reputa che le donne possano istigare alla violenza sessuale, con uno specifico modo di vestire o di comportarsi, risulta significativa (il 23,9%); circa il 15 % è dell’opinione che una donna vittima di violenza, quando ubriaca o sotto effetto di droghe, sia almeno in parte responsabile e per il 10,3% della popolazione intervistata, infine, le accuse mosse per violenza sessuale costituiscono calunnie e falsità (più uomini, il 12,7%, che donne il 7,9%)[24]. Stando ai dati della stessa indagine, relativi al periodo maggio-luglio 2023, sebbene possano dirsi ridotti gli stereotipi sui ruoli di genere, sembra allargarsi la distanza tra le opinioni degli uomini e delle donne: il 39,3% degli uomini ritiene che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole, contro il 29,7% delle donne; un uomo su cinque (il 19,7%) pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire, rispetto al 14,6% delle donne. Corrispondono, invece, le opinioni di uomini e donne sulla responsabilità attribuita alla donna in alcune circostanze. Circa l’11% degli intervistati ritiene che la vittima ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile; il 10% attribuisce una dose di responsabilità anche a colei che, accettando l’invito di un uomo conosciuto poco prima ad una festa, ne subisce maltrattamenti sessuali[25].
Tali statistiche rivelano la resilienza degli stereotipi come strumenti interpretativi abbracciati dai membri della società – anche quelli che occupano posizioni centrali nella creazione della cultura comune (giornalisti, politici, magistrati nelle aule di giustizia) – per esaminare il fenomeno violento. Sebbene prive di fondamento, ingiustificate e manifestamente fallaci, credenze errate e irrazionali che contaminano la percezione di ciò che è davanti a noi e, sovente, ne oscurano parti essenziali, permeano e perdurano nell'immaginario collettivo, stabilendosi come supposte verità nell'opinione pubblica[26]. In questo senso, un ruolo di non poca entità è rivestito in primis dalle parole: «language is not an exterior medium»[27]. Si tratta pertanto di riconoscere l’impossibile neutralità delle pratiche discorsive e interrogarci quotidianamente sul loro impatto nel plasmare l’immaginario collettivo:
«Il taglio con cui si racconta la violenza maschile contro le donne non è mai neutro. Il punto di vista di chi scrive, le storie raccontate e le immagini che spesso le corredano, rispondono a costruzioni retoriche e atti narrativi precisi che hanno come conseguenza quella di plasmare il nostro immaginario. […] Articoli, servizi televisivi, ma anche campagne di sensibilizzazione e discorsi pubblici, pur con le migliori intenzioni, attingono spesso a un repertorio comune che fa appello a un immaginario granitico, cristallizzato in copioni e figure stereotipate[28]».
[1] M. P. Mazza, Perché la giornata contro la violenza sulle donne si celebra oggi? La storia delle tre sorelle Mirabal, in Open, 25 Novembre 2019, https://www.open.online/2019/11/25/perche-la-giornata-contro-la-violenza-sulle-donne-si-celebra-il-25-novembre-la-storia-delle-sorelle-mirabal-le-farfalle-che-rovesciarono-la-dittatura-della-repubblica-domenicana/, consultato il 6 dicembre 2024.
[2] M. Gargiulo, Sorelle Mirabal, in Enciclopedia delle donne, https://www.enciclopediadelledonne.it/edd.nsf/biografie/sorelle-mirabal, consultato il 6 dicembre 2024.
[3] J. Alvarez, Il tempo delle farfalle, Giunti, Firenze 2019, che in forma romanzata ricostruisce la vicenda.
[4] L. Melandri, Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, p. 58.
[5] G. Rubin, The traffic in Women. Notes on the “Political Economy” of Sex, in Toward and Anthropology of Women, a cura di R.R. Reiter, Monthly Review Press, New York, 1975, pp. 157-210. Tuttavia, la prima formalizzazione sistemica di gender come categoria analitica nella teoria femminista si fa risalire a A. Oakley, Sex, Gender and Society, Ashgate Pub. Co., London, 1972. Joan Scott, nel rifiutare qualsiasi forma di determinismo biologico, insisteva sul concetto di genere come terreno fondamentale al cui interno, e per mezzo del quale, veniva elaborato il potere; J. Scott, Gender. A Useful Category of Historical Analysis, in The American Historical Review, 91, 5, 1986, pp. 1053-1075.
[6] S. Feci, L. Schettini, (a cura di), La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secoli XV-XXI), Viella, Roma, 2017, pp. 10-11.
[7] Dichiarazione, p. 1, https://fidu.it/wp-content/uploads/2017/03/DICHIARAZIONE-SULL%E2%80%99ELIMINAZIONE-DELLA-VIOLENZA-CONTRO-LE-DONNE-1993-.pdf, consultato il 6 dicembre 2024.
[8] Art.1 della Dichiarazione, cit.
[9] Convenzione di Istanbul, https://www.istat.it/it/files/2017/11/ISTANBUL-Convenzione-Consiglio-Europa.pdf, consultato il 6 dicembre 2024.
[10] Feci, Schettini, La violenza contro le donne nella storia, cit., pp. 7-39.
[11] D. Rizzo, L. Schettini (a cura di), Maschilità e violenza di genere, num. monografico di Genesis, 2, 2019, p. 5.
[12] In proposito, S. Ciccone, Una riflessione politica sulla violenza maschile contro le donne: spunti per una pratica di trasformazione, in S. Magaraggia, D. Cherubini, Uomini contro le donne? Le radici della violenza maschile, Utet, Novara, 2013, pp. 38-61 (38).
[13] A. Pizzorusso, Emergenza, stati di, in Enciclopedia delle scienze sociali, 1993, https://www.treccani.it/enciclopedia/stato-di-emergenza_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/, consultato il 6 dicembre 2024
[14] P. Violi, Femminicidio: chi ha paura della differenza? in Gender/Sexuality/ Italy, 2, 2015, pp. 140-143 (141).
[15] J. Radford, D. E. H. Russell (Eds.), Femicide: The Politics of Woman Killing, Twayne Publishers, New York, 1994.
[16] Moscovici, The phenomenon of social representations, in R. Farr, S. Moscovici (Eds.), Social Representations, Cambridge University Press, Cambridge, 1984, pp. 3-69; S. Abis, P. Orrù, Il femminicidio nella stampa italiana: Un’indagine linguistica, in Gender/Sexuality/ Italy, 3, 2016, pp. 17-33.
[17] A. M. Rapisarda Mattarella, F. Rizzuto, Il femminicidio in rete: social media e copertura informativa del caso Cecchettin. Nuove sfide per la media education, in Media Education 15, 2024, pp. 17-32 (20).
[18] Raccontare il femminicidio: cronaca, tribunali, politiche, Blue paper della Ricerca Prin-Miur, 2015, https://amsacta.unibo.it/id/eprint/6888/1/BLU_PAPER.pdf, consultato il 6 dicembre 2024.
[19] In proposito anche, C. Molinari, Caso Giulia Tramontano, una narrazione distorta, in Vulcanostatale.it, 27 giugno 2023, https://vulcanostatale.it/2023/06/caso-giulia-tramontano-una-narrazione-distorta/, consultato il 6 dicembre 2024.
[20] Salustio, Sugli Dèi e il Mondo, a cura di R. Di Giuseppe, Adelphi, Milano, 2000, p. 5.
[21] V. Auriemma, Digitization of empathy: Vital subsumption and digitization of the person, in Media Education, 14 (1), 2023, pp. 15-25; F. Rizzuto, Reality versus emotions in italian journalism, in Soft Power. Revista Euroamericana de teoria, historia de la politica y del derecho, 6, 2019, pp. 229-245.
[22] G. Cosenza, Stereotipi e pregiudizi. Dalle scienze sociali alla semiotica, in Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, 37, 2023, pp. 243-257.
[23] M. Borello, Non arrendersi all’ovvio. Considerazioni sugli stereotipi di genere in margine alla sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 2022 sull’attribuzione del cognome, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 15, 2022, pp. 19-46 (24-25).
[24] https://www.istat.it/wp-content/uploads/2019/11/Report-stereotipi-di-genere.pdf, consultato il 6 dicembre 2024.
[25] https://www.istat.it/it/files/2023/11/STAT_TODAY_Stereotipi.pdf, consultato il 6 dicembre 2024.
[26] I. Benevieri, Cosa indossavi? Le parole nei processi penali per violenza di genere, Tab, Roma, 2022, p. 19.
[27] J. Butler, Gender trouble: feminism and the subversion of identity, Routledge, New York-London, 1990, p. 196.
[28] C. Gamberi, L’alfabeto della violenza. Lo spettacolo Doppio Taglio e le rappresentazioni del femminicidio nei media italiani, in G / S / I - Gender / Sexuality / Italy, 2, 2015, pp. 149-165.