1. Nell’opera Nevrosi e sviluppo della personalità (1950) della psichiatra e psicanalista Karen Horney, si legge che subire violenza da un altro essere umano presenta un potenziale traumatico che mina sino alle fondamenta l’assetto cognitivo ed emotivo della vittima, interferendo con lo sviluppo e il mantenimento delle sue capacità reali e potenziali. L’effetto è la devitalizzazione della persona che, intaccando i sistemi di significato, il valore di sé, la possibilità di nutrire fiducia nei confronti degli altri, registra l’alterarsi di passato, presente e futuro.
La violenza, in tutte le sue possibili espressioni e soprattutto nei confronti della donna, è uno strumento di potere e di controllo che rivelatosi, solitamente, si rifugia nella negazione e nella normalizzazione dell’accaduto. Quando questi meccanismi vengono messi in discussione da denunce e testimoni allora la difesa dell’aggressore scivola, per consolidata consuetudine, nella colpevolizzazione della vittima. Secondo la Horney, l’offended (femmina o maschio che sia) adotta fatalmente dei patterns comportamentali per sfuggire all’ansietà di base che possono riassumersi in tre modi di disporsi verso gli altri: verso, contro, lontano.
Nel primo caso la persona svilisce sé stessa nel tentativo – spesso vano - di conquistare l’affetto e all’approvazione degli altri.
Nel secondo caso, con l’obiettivo di acquisire potere e dominio, compie atti anche aggressivi e di sopraffazione nei confronti del prossimo.
Nell’ultimo caso la persona cerca di costruire spazi invalicabili dove affermare la propria autonomia e indipendenza, con il rischio di sfociare nell’assoluto di una ricerca di perfezione.
Evidentemente, non è prevista, pur dando per buono un proficuo lavoro psicoterapeutico e di sostegno sulla vittima, una restitutio ad integrum della stessa.
Per questa e altre ragioni, il sostegno rispetto alle ragioni della vittima necessita di un contesto socio-culturale scevro da pregiudizi e stereotipi (Herman, 1992; Yule, 2000).
Purtroppo, e troppo spesso, non è così.
Purtroppo, e troppo spesso, coesistendo consumo di sostanza stupefacente, il pensiero dominante si consegna all’assenza del, sia pur opportuno e atteso, generale sdegno.
Purtroppo e sempre, se l’uso della vittima è volontario, allora la stessa è sottoposta a processo morale e mediatico. L’offender comunque beneficia di attenuanti, alcune volte anche in un’aula di tribunale, certamente per l’usuale, e difficile da eradicare, pensiero stereotipato e sessista.
Nonostante la prevalenza dei consumatori di sostanze psicotrope inclini verso il genere maschile, non sono meno preoccupanti i numeri che si riferiscono a quello femminile. Per le donne che usano droghe sono differenti i dati epidemiologici, i fattori biologici e psico-sociali che sottendono l’esperienza e le sue conseguenze, non ultima la precocità dell’insorgenza dello stato di dipendente patologica (Burroni et al., 2007; Tuchman, 2010).
Certamente la rappresentazione e la conseguente narrazione mainstream risentono di una stigmatizzazione più feroce rispetto al consumatore uomo, esponendo, la donna a ulteriori rischi socio-sanitari oltre alla sempre immancabilmente, ma in questo caso più alta, probabilità di subire violenza sessuale.
La maggior parte delle donne con problemi legati all’uso di sostanze hanno già patito e/o patiscono violenza e maltrattamenti che, spesso, costituiscono il fattore predisponente all’uso di alcol e droghe (Covington, 2008).
L’utilizzo di queste ultime accentua, dunque, il rischio del perpetuarsi della sopraffazione, rendendo lo stato di alterazione la condizione per fare delle consumatrici le vittime perfette.
Disvalore di sé, discredito sociale, condanna morale, vulnerabilità fisica e mentale, il corpo della donna che consuma sostanza è un terreno di conquista dove l’aggressore vive una quasi totale percezione di impunibilità.
2. Se è già indubbia la difficoltà della donna – di tutte le età - a denunciare le prevaricazioni subite, a questa si aggiunge la consapevolezza di vedersi assegnata l’ulteriore scarsa credibilità che solitamente si attribuisce all’uso di sostanze.
Vittimizzazione primaria, vittimizzazione secondaria, vittimizzazione perpetua.
Se la donna in generale e il suo diritto al consenso o al diniego ancora non gode pienamente del rispetto del partner – occasionale o consueto che sia -, la donna sotto effetto di sostanze è considerata a disposizione di chiunque.
Se ha fatto uso di sostanze nella mente dell’offender vale di meno.
Se si serve di qualcuno per arrivare alle sostanze, quel qualcuno sembra arrogarsi il diritto a pagamenti extra…
Se è l’offender a somministrarle sostanze a sua insaputa, comunque è lei a subirne le conseguenze più dolorose fisicamente e psicologicamente.
Colpevolizzazione primaria, colpevolizzazione secondaria, colpevolizzazione perpetua.
La violenza sessuale è definita come un atto sessuale commesso o tentato da un’altra persona senza un consenso dato liberamente o contro qualcuno che risulti incapace di dare il consenso o di rifiutare. La stessa si può verificare anche quando un perpetratore forza o obbliga una vittima a coinvolgersi in atti sessuali con terzi. Comprende una mancanza di consenso dato liberamente così come situazioni in cui la vittima è incapace a prestare consenso o di rifiutare.
L’ art. 61 n. 5 c.p. disciplina l'aggravante della minorata difesa e del reato commesso «in tempo di notte» (comma I), che ricorre ogniqualvolta l'autore del reato approfitta di «circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all'età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa».
Per i giudici della Corte di Cassazione della terza sezione penale, con la sentenza n. 32462/2018, deve rilevarsi che l'assunzione volontaria esclude la sussistenza dell'aggravante ex art. 609-ter, comma 1, n. 2, c.p.
Secondo la citata sentenza, dunque, l'uso volontario incide sulla valutazione del valido consenso, ma non (anche) sulla sussistenza dell'aggravante.
Ė purtroppo in crescita il trend relativo alle violenze sessuali in Italia, come deducibile dal report del marzo 2023, “Donne vittime di violenza”, curato Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Viminale, così come non meno preoccupante è l’andamento costantemente in crescita, e ormai da oltre venticinque anni, della prevalenza stimata degli episodi di maltrattamento e abuso nei confronti di donne consumatrici di sostanze (Brewer et al, 1998; Chermack et al, 2000; El-Bassel, 2005).
Da un’analisi relativa agli stili di vita condotta dall’Istituto Superiore di Sanità, il consumo di sostanze e soprattutto di alcol sono molto spesso correlati alla violenza sulle donne.
3. Ci sarebbe da farsi alcune domande in proposito, tra queste: perché un uomo per avere un rapporto sessuale arriva ad alterare lo stato di coscienza di una donna?
Al di là di possibili cause organiche non viste e di specifici disturbi dell’area psichica alle quali alcuni uomini non intendono dare risposte ricorrendo a specialisti del settore, un certo humus culturale, non di meno, alimenta distorsioni cognitive atte a giustificare e minimizzare la gravità e i danni di particolari condotte.
Il mito della quantità di donne “avute” nella propria vita, poi, la facile reperibilità di “aiutini chimici” assunti a scopo ricreativo correlano spesso il comportamento sessuale violento tra giovani e meno giovani (fonte: https://poliziamoderna.poliziadistato.it/articolo/56c4912db4aee416783237).
La cultura del consumo e del liberismo imperante non ammette il consenso che cancella la centralità di sé e della propria inderogabile urgenza, non riconosce la possibilità di ritardi nella soddisfazione delle proprie gratificazioni – sempre impellenti e irrinunciabili - non concepisce l’attesa, il rifiuto, la sconfitta. Inneggia alla prestazione, all’abolizione delle domande e delle incertezze, alla prontezza della performance.
Perché un uomo si serve a proprio vantaggio dello stato alterato di coscienza di una donna?
Vivere la vulnerabilità della partner, sia pur appena conosciuta, come un’opportunità, approfittarsi di una condizione di mancanza di lucidità come un’occasione, aggirare l’imprescindibilità del consenso o pensare che lo stesso sia sotteso al desiderio di divertimento e leggerezza – non è in questa chiave che un’intera società insegna a declinare il piacere? – sono segnali di una fragilità parallela ma contraria.
Sottovalutare un rischio non legittima chi sta intorno a trasformare quell’atteggiamento in preludio di un agito doveroso. Se una donna non è presente a sé stessa non significa che legittimi il tutto è possibile.
Abusare di un’altra persona non è un obbligo così come la fragilità di qualcuno non deve necessariamente essere l’antidoto alla propria.
La mancanza di empatia, di compassione o l’inadeguatezza ad amare sinceramente un'altra persona, non può che condurre ad un’intimità assente, angosciosa o al più simulata, imitata, fisico-atletica, ricercata per impressionare sé stessi senza concessione di sé.
Quanta fragilità, quanto imbarazzo, quanta vergogna domicilia nella mente di un offender prima del suo sconsiderato agito, almeno quanta ne è rimossa, con l’aiuto di una società irresponsabile, dopo la commissione del suo crimine.
Spesso colui che somministra sostanze all’insaputa della vittima (flunitrazepam, acido gamma-idrossibutirrico, ecc.) assume in prima persona alcol, cocaina, bonner bluster, loto blu, viagra ideali per intensificare le prestazioni acutizzando le sensazioni.
Se l’assunzione volontaria nella vittima esclude la sussistenza dell'aggravante ex art. 609-ter, comma 1, n. 2, c.p., l’assunzione dell’offender potrebbe risultare un attenuante (da stabilire se consumo occasionale o dipendenza patologica).
Forse sarebbe il caso di prevedere una specifica fattispecie di reato che elimini quelle ambiguità e zone d’ombra entro le quali non è così difficile costruire improbabili difese del predatore.
Il reato di violenza sessuale è stato sottratto alla moralità pubblica e al buon costume, centrandosi sulla persona umana e sulla sua libertà personale. Poi si legge, però, la sentenza del 13 luglio u.s., che riduce a 30 anni la richiesta di ergastolo per l’omicida «molto innamorato» di una donna definita «giovane e disinibita», allontanatasi «scaricandolo» e riaffiora più di qualche dubbio in merito.
Quando la medesima sentenza a proposito di una donna - Carol Montesi - uccisa a martellate, sgozzata, fatta a pezzi, gettata in un burrone dopo il tentativo di bruciarne i resti, conclude che «l’uomo non ha agito con crudeltà e premeditazione», è evidente che l’intera società sia culturalmente nel “tempo di notte”.
Una notte talmente buia dove, con massimo rammarico kantiano, mancano il cielo stellato sopra di noi e la legge morale – quella capace di far distinguere ancora il bene dal male – dentro di noi.
Bibliografia
Brewer DD, Fleming CB, Haggerty KP, Catalano RF. 1998. Drug use predictors of partner violence in opiate-dependent women, in Violence Vict. 13:107-15.
Burroni P, Vigna-Taglianti F, Versino E, Beccaria F, Garneri M, et al. 2007. Differenze di genere nello studio, VEdeTTE, Torino.
Chermack ST, Fuller BE, Blow FC. 2000. Predictors of expressed partner and non-partner violence among patients in substance abuse treatment, in Drug Alcohol Depend 58:43-54.
Covington SS. 2008. Women and addiction: a trauma-informed approach, in J Psychoactive Drugs Suppl 5:377-85.
El-Bassel N, Gilbert L, Wu E, Go H, Hill J. 2005. Relationship between drug abuse and intimate partner violence: a longitudinal study among women receiving methadone, in Am J Public Health 95:465-70.
Herman, J. (1992). Trauma and Recovery, New York: Basic Books.
Horney K. (1950), Nevrosi e sviluppo della personalità. La lotta per l’autorealizzazione, Astrolabio, Roma 1981.
Tuchman E. 2010. Women and addiction: the importance of gender issues in substance abuse research, J Addict Dis 29:127-38.
Yule W., (2000) Disturbo Post Traumatico da Stress, McGraw-Hill, Milano.