Magistratura democratica
Magistratura e società

Giornata della Giustizia, in memoria di Guido Galli *

di Daniela Padoan
presidente Libertà e Giustizia, scrittrice e saggista

È ancora vivo, a 45 anni dalla sua spietata esecuzione, il ricordo di Guido Galli, ucciso il 19 marzo 1980 da un nucleo di Prima Linea con tre colpi alla schiena e alla nuca nel corridoio davanti all'aula 309 dell’Università Statale, dove il magistrato si apprestava a tenere la consueta lezione di criminologia. Un anno prima, il 24 gennaio 1979, era stato assassinato Guido Rossa, operaio sindacalista dell'Italsider di Cornigliano. Due figure lontane eppure simili. Integerrime. Una parola dimenticata. Superlativo di integro, intatto, recita il vocabolario Treccani: «di rettitudine morale assoluta». Venivano, in quella stagione di tentato sovvertimento della democrazia, colpiti gli integerrimi. Perché? Le parole della moglie e delle figlie di Guido Galli, impresse su una targa al secondo piano del palazzo di Giustizia di Milano, restano come il più abissale e letterario dei giudizi: «A quelli che hanno ucciso mio marito e nostro padre: Abbiamo letto il vostro volantino. Non lo abbiamo capito».

È l’impossibilità della comprensione che separa – come ponendola su un diverso pianeta – la comunità dei parlanti in cui ci riconosciamo, da chi, ciecamente, la distrugge. È l’impossibilità di un linguaggio comune. Di una logica. Di un senso. Le parole contenute in quel comunicato di rivendicazione rappresentavano il mondo che si rovesciava nell’insensatezza, dove ciò che è bene diventa male, ciò che è merito diventa sentenza di morte. 

«Galli appartiene alla frazione riformista e garantista della magistratura», era scritto su quel volantino, «impegnato in prima persona nella battaglia per ricostruire l'ufficio istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente, adeguato alle necessità di ristrutturazione, di nuova divisione del lavoro dell'apparato giudiziario, alla necessità di far fronte alle contraddizioni crescenti del lavoro dei magistrati di fronte all'allargamento dei terreni d'intervento, di fronte alla contemporanea crescente paralisi del lavoro di produzione legislativa delle Camere».

Dobbiamo avere timore delle parole che rovesciano il mondo. Anche oggi sentiamo parole sgangherate, incomprensibili, da questa e dall’altra parte dell’oceano, che ci disorientano, che mettono in discussione i nostri punti fermi. Le sentiamo pronunciare e agire da governi che si dicono democratici mentre svuotano la democrazia dall’interno. Parole che rivendicano l’espulsione dagli Stati Uniti di migranti incatenati a favore di telecamera; immagini in cui il presidente americano oltraggia i sopravvissuti di Gaza con un video che fa delle macerie ancora disseminate di corpi insepolti una nuova Las Vegas. Pareva impossibile. Ogni giorno, però, la soglia dell’impossibile viene spostata. In Italia, un criminale libico imputato per torture e stupri viene rimpatriato con un volo di Stato e un disegno di legge chiamato orwellianamente “Sicurezza” prevede che le agenzie di intelligence possano controllare i cittadini acquisendo informazioni presso scuole, università e luoghi di lavoro.

È proprio quando i nostri punti di riferimento traballano – e ancora di più quando a farli traballare sono i governi – che restano i Giusti a indicare la strada, con il loro comportamento, la loro testimonianza, la loro memoria. Guido Galli è uno di questi: un magistrato di chiari sentimenti democratici, profondamente convinto dell’importanza di adeguare il nostro sistema processuale alla Costituzione e alle Convenzioni internazionali sui diritti dell'uomo. 

Lo ricordiamo oggi, mentre in tutto il mondo la regressione verso regimi autoritari che mantengono le spoglie della democrazia investe innanzitutto i giuristi, che si trovano in prima linea nella difesa delle Costituzioni proprio perché il diritto è il principale strumento del quale si avvalgono i nuovi autocrati, che non hanno bisogno di colpi di Stato per legittimare la propria presa sul potere.

Lo ricordiamo oggi, mentre le istituzioni sovranazionali erette dopo l’abisso della Seconda guerra mondiale e dei campi di sterminio a protezione dei cittadini dallo strapotere degli Stati sovrani sono sotto i colpi di quanti sentono il diritto umanitario internazionale come una camicia di forza di cui liberarsi, a cominciare dall’ONU e dalle sue agenzie – dall’OMS alle COP sul cambiamento climatico – e dalla Corte Penale Internazionale. Ben 79 paesi hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta a sostegno dell'indipendenza, dell’imparzialità e dell’integrità della Corte Penale Internazionale, giudicandola un pilastro per la democrazia, ma tra questi non figura il governo italiano, con una scelta in conflitto con gli articoli 10 e 11 della Costituzione e con l’orientamento espresso dal Presidente della Repubblica.

Non sono una giurista. Mi occupo di storia. Di memoria. Ricorre quest’anno l’ottantesimo anniversario della Liberazione, che è fondamento della Repubblica e presupposto della Costituzione: a dirlo è stato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di fine d’anno. «Questi 80 anni portano», ha continuato, «il richiamo alla liberazione da tutto ciò che ostacola libertà, democrazia, dignità di ciascuno, lavoro, giustizia». 

È lo spirito della nostra commemorazione che si stringe attorno alla Repubblica, che non è patria identitaria ma patto di cittadinanza nato dalla Resistenza e dalla memoria ancora viva delle persecuzioni fasciste, degli abusi dei Tribunali speciali, delle vessazioni dei procuratori e dall’accondiscendenza dei giudici piegati al fascismo. Avevano ben chiara nella memoria, i nostri e le nostre Costituenti, la protervia con cui, il 10 giugno 1925 – tra poco saranno cent’anni – il ministro fascista della Giustizia Alfredo Rocco aveva esposto davanti alla Camera il progetto del regime sulla Giustizia: «La magistratura non deve far politica di nessun genere; non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista».

La magistratura si era posta fin da subito in radicale contrasto con le autorità fasciste, accusandole di intromettersi nell’amministrazione della giustizia e di ostacolare “quotidianamente” l’attività giurisdizionale dei magistrati; e, nel dicembre di quello stesso 1925, l’Associazione nazionale dei magistrati (l’AGMI, fondata già nel 1909) deliberò il proprio scioglimento, pur di non essere costretta a trasformarsi in sindacato fascista. 

I suoi dirigenti furono dapprima trasferiti in sedi disagiate e nel corso del 1926 “epurati” con l’accusa di aver assunto «un indirizzo antistatale, sovvertitore della disciplina e della dignità dell’Ordine giudiziario».

In pochi anni, la commistione tra magistratura e regime divenne pressoché totale, tanto che, nel 1929, Alfredo Rocco poté affermare: «Lo spirito del Fascismo è entrato nella magistratura più rapidamente che in ogni altra categoria di funzionari e di professionisti». Fu a causa della cacciata e della persecuzione dei dissidenti, dell’obbligo di iscrizione al partito, ma anche dello spontaneo adeguamento di chi rimase. I costituenti sapevano che i sistemi democratici hanno necessità di essere protetti, e che la democrazia costituzionale va riguadagnata e risignificata ogni giorno. 

Dopo la caduta del fascismo, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura tornarono ad essere un presidio fondamentale della nostra democrazia. Per questo oggi è necessario difenderla davanti a un progetto di Riforma della giustizia e di separazione delle carriere che molti magistrati – scesi in sciopero davanti ai tribunali di tutta Italia in una manifestazione epocale, benché grandemente oscurata – ritengono più preciso chiamare «separazione della magistratura». Sino ad oggi, nessun intervento di revisione costituzionale ha riguardato l’assetto di uno dei tre poteri dello Stato. Corollario della separazione dei poteri dello Stato è stato il principio che «i giudici sono soggetti soltanto alla legge».

Oggi assistiamo a un crescente processo di delegittimazione della magistratura, con attacchi diretti, ad personam, rivolti contro magistrati che hanno indagato su esponenti politici o su temi sensibili come l’immigrazione e la corruzione, e con la prassi, davanti alle sentenze che danno torto al Governo, di accusare la magistratura di politicizzazione, mettendo così in discussione la divisione dei poteri su cui si fonda lo Stato di diritto.

D’altra parte, secondo il rapporto di Liberties appena pubblicato, l’Italia è tra i cinque paesi responsabili della recessione democratica europea, con Bulgaria, Croazia, Romania e Slovacchia, proprio a cominciare della volontà di procedere a modifiche al sistema giudiziario che toccherebbero direttamente lo Stato di diritto con un controllo politico sulla magistratura. Ai giudici, a tutti i giudici che hanno costruito la nostra democrazia, va il nostro grazie, la nostra vicinanza e la nostra solidarietà attiva.

[*]

Intervento svolto presso l'Università Statale di Milano il 19 marzo 2025

26/03/2025
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