Non ho conosciuto personalmente Guido Galli.
Sono entrato in magistratura nel febbraio '78; Galli era in magistratura dal ‘59. Facevamo parte di due diverse generazioni di magistrati e lavoravamo in sedi diverse.
Eppure ebbi modo di conoscerne il lavoro e, soprattutto, di apprezzarlo.
Nel settembre del ‘78, in un periodo in cui l’attacco terroristico aveva già fatto molti morti (e molti ne avrebbe fatti ancora negli anni immediatamente successivi), dopo che si era concluso tragicamente il sequestro Moro, era stata arrestata a Milano una persona ricercata come latitante da anni, in quanto già identificata, pur in un periodo in cui le indagini erano difficilissime, come appartenente all’area della eversione armata.
La base (il c.d. covo) che nella stessa circostanza era stata scoperta si era rivelata una fonte di notizie di grande interesse investigativo. L’istruttoria che ne era seguita, complessa ma definita in tempi assai rapidi tenuto conto proprio della sua complessità e dell’elevato numero dei soggetti inquisiti, aveva consentito di mettere a fuoco - tra l’altro - l’attività di una organizzazione terroristica meno nota delle due principali (Brigate Rosse e Prima Linea), le FCC (Formazioni Comuniste Combattenti), risultate più vicine a PL che alle BR. Tra l’altro, dell’arrestato, Corrado Alunni, si accertò in quella occasione che non era più un militante delle BR, come si era a lungo pensato sulla base di precedenti indagini.
Di quella istruttoria lessi l’atto conclusivo, l’ordinanza di rinvio a giudizio. Nel frattempo, anche io avevo iniziato ad occuparmi di processi per fatti di terrorismo.
Dell’ordinanza di rinvio a giudizio mi colpirono alcune caratteristiche, che suscitarono in me grande ammirazione per chi l’aveva scritta.
In primo luogo, la chiarezza espositiva: era un documento lungo, ma facile da leggere e da seguire, sia nelle parti che davano conto dei risultati investigativi, che in quelle dedicate all’analisi ed alla valutazione dei medesimi. Queste ultime - ed era la seconda ragione di apprezzamento - erano sviluppate con rigore assoluto.
La natura di prova indiziaria, propria del materiale rinvenuto nel covo di via Negroli (dalle armi ai documenti), aveva impegnato il giudice istruttore in una disamina tanto rigorosa (cioè priva di forzature o di affermazioni apodittiche), quanto penetrante rispetto alle implicazioni che i reperti, insieme alle risultanze delle indagini svolte dalla PG dopo la scoperta del covo, avevano per ciascuno degli imputati. Altrettanto pregevole era la parte dedicata alle problematiche di ordine giuridico che il giudice istruttore aveva dovuto affrontare, dovendo misurarsi con le figure dei reati contro la personalità dello Stato (che allora si contestavano in relazione all’attività delle organizzazioni terroristiche), già di per sé non facilmente adattabili alle organizzazioni terroristiche degli anni ’70, per di più riferiti ad una realtà della quale fino a quel momento si sapeva poco.
Il tutto, molto ponderoso, era stato esaurito in meno di un anno, a riprova di un impegno straordinario che si percepiva essere stato tale per aspetti di quantità e di qualità.
Ci fu, poi, un altro Guido Galli che conobbi a distanza di poco tempo ed apprezzai. Fu il Guido Galli giurista, fine processual-penalista, autore di una pubblicazione sulla nuova legislazione di emergenza che era, in quel periodo, continuamente sfornata senza che ciò consentisse di fare passi in avanti alle indagini. Galli, giurista moderno, ne percepiva sia gli aspetti di disarmonia che essa introduceva nell’ordinamento penale, sia - forte della sua esperienza professionale di magistrato penale - gli aspetti illusori rispetto all’obiettivo proclamato, di agevolare le indagini.
Dal momento che anche negli uffici giudiziari torinesi si affermò il modello organizzativo fondato sulla specializzazione, accadde poi che, nel 1983, fossi proprio io a svolgere le funzioni di PM di udienza nel dibattimento per l’assassinio di Guido Galli. Dopo l’esplosione del fenomeno delle collaborazioni, la ricostruzione della preparazione, organizzazione ed esecuzione del delitto, della via di fuga e della rivendicazione non presentarono particolari problemi, nel senso che l’apporto dei collaboratori consentì di accertare i fatti e identificare i concorrenti a vario titolo nell’omicidio. Il dibattimento, per questa parte, si svolse regolarmente. Ricordo solo la posizione di uno degli imputati, più difficile da decidere rispetto alle altre.
Ma due fatti mi colpirono studiando il processo e poi partecipando al dibattimento.
Il primo fu il volantino di rivendicazione dell’omicidio. Guido Galli, al pari di Emilio Alessandrini prima di lui, fu ucciso perché magistrato efficiente, che con il suo impegno dava credibilità agli uffici giudiziari milanesi, quindi allo Stato. Era l’ammissione indiretta di una sconfitta e di un sostanziale fallimento: del progetto politico dell’org.ne PL, che aveva operato in quei casi, ma in generale della complessiva attività della galassia terroristica. Era la dimostrazione che un altro mondo era possibile, diverso, anzi opposto a quello auspicato dai terroristi: fatto di efficienza, di leggi serie ma non inutilmente restrittive, applicate seriamente, con rigore intellettuale ed avendo come stella polare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e i diritti delle parti nel processo. Era la riprova del fatto che lo Stato poteva cambiare, diventare moderno e giusto, grazie all’impegno di quanti lo rappresentavano con il loro impegno professionale. Era la dimostrazione che il progetto rivoluzionario, prima ancora che per il fatto di essere fondato sulla violenza, doveva essere respinto perché intrinsecamente sbagliato.
Il secondo aspetto riguardò la figura di Guido Galli, uomo e magistrato. Ricordo l’arringa del difensore delle parti civili. Guido Galli magistrato ne usciva come un giudice che concepiva il suo lavoro anche come servizio a favore dei soggetti deboli: così era stato da pretore, quando era sempre pronto a ricevere persone umili per ascoltarle e spiegare loro i diritti che avevano.
Guido Galli giudice completo, quindi. Di grande cultura giuridica; ma anche capace di leggere la realtà che si muoveva intorno a sé, da giurista e da cittadino fedele ai valori dello Stato democratico di diritto. Fortemente dedito al lavoro su processi impegnativi e di forte impatto sociale e politico, oltre che di grande risonanza mediatica; ma con un’idea della giustizia come servizio per tutta la comunità, senza distinzioni al suo interno di persone di serie A e di serie B.
Uno dei migliori giudici della storia della Repubblica. Purtroppo, ucciso per questo.
*discorso pronunciato in occasione della commemorazione che si è tenuta a Torino il 16 marzo 2016
(Bergamo, 28 giugno 1932 - Milano, 19 marzo 1980)
Magistrato dell'Ufficio istruzione di Milano
Trent'anni dopo l'assassinio, Vittorio Grevi, sul Corriere della Sera, definirà Galli "un magistrato moderno, di idee aperte e liberali, di sicuri sentimenti democratici, che si sforzava anzitutto di svolgere bene il suo lavoro, in silenzio, giorno per giorno: così da assicurare il buon funzionamento della macchina giudiziaria, pur operando sempre nel pieno rispetto delle garanzie degli imputati. Ma era anche, nel contempo, un magistrato aperto sul futuro, sensibile alla esigenza di adeguamento del nostro sistema processuale alla Costituzione ed alle Carte internazionali sui diritti dell'uomo".
Un ritratto che non si discosta da quello che di Galli ha più volte fatto Armando Spataro che da sempre ha visto in lui il maestro e" il fratello maggiore che non ho mai avuto"e che, con Galli, svolse dal 1978 la prima maxi inchiesta milanese sul terrorismo seguita all'arresto di Corrado Alunni. Fu Spataro il primo ad accorrere quel 19 maggio alla Statale dove lo aveva chiamato la Digos obbedendo all'ultima richiesta del magistrato ucciso. In un'agendina trovata accanto al suo corpo privo di vita Galli aveva infatti scritto "dovesse succedere qualcosa avvisate il dott. Spataro".
Gli assassini di Galli saranno fermati a pochi mesi dall'omicidio; qualche anno dopo saranno condannati. A loro, la moglie e i figli del Magistrato ucciso risposero con una lettera che è incisa su una targa, posta su un muro del secondo piano del Palazzo di Giustizia di Milano. "A quelli che hanno ucciso mio marito e nostro padre. Abbiamo letto il vostro volantino: non l'abbiamo capito. Sentiamo ugualmente il dovere di scrivere queste righe, anche perché altri possano leggerle. Capiamo solo che il 19 marzo avete fatto di Guido un eroe e lui non avrebbe mai voluto esserlo, in alcun modo: voleva solo continuare a lavorare nell'anonimato, umilmente e onestamente come sempre ha fatto. Avete semplicemente annientato il suo corpo, ma non riuscirete mai a distruggere quello che ha oramai dato per il lavoro, la famiglia, la società. La luce del suo spirito brillerà sempre annientando le tenebre nelle quali vi dibattete".
(Estratto dalla pubblicazione del Csm "Nel loro segno").