Il lettore italiano è stato informato del processo sugli attacchi terroristici a Parigi del 13 novembre 2015[1] con dovizia di particolari dallo scrittore Emmanuel Carrère. I media hanno reso noti alcuni particolari sul comportamento tenuto dal maggiore imputato, Salah Abdeslam, è nota la sua condanna all’ergastolo “senza sconti”. Sono state riferite alcune vicende edificanti su contatti intervenuti tra parenti delle vittime e parenti degli accusati: molto meno si sa delle grida di rabbia, di dolore e di odio che hanno attraversato l’aula. Un certo spazio ha avuto la testimonianza della madre di una vittima italiana, la ricercatrice Valeria Solesin. Ha certamente sorpreso l’organizzazione di questo processo, conclusosi in un tempo record e nel rispetto delle più rosee previsioni e delle garanzie tanto per gli accusati quanto per le vittime. Questo processo è stato certamente una vittoria delle civiltà e della democrazia nella lotta al terrorismo in antitesi alla risposta voluta dagli Stati Uniti d’America all’attacco alle Torri Gemelle, vent’anni fa, fondata su una strategia totalmente extra ordinem.
Si conosce meno il “viaggio” compiuto dalle vittime sopravvissute e dai parenti e famigliari di coloro che non ci sono più. Da decenni in Francia – come in altri paesi d’Europa (Germania, Regno Unito, Spagna, Portogallo) – esistono servizi di assistenza per le vittime (qualunque tipo di vittima) che hanno il compito di assicurare informazione sui diritti, sostegno emotivo, orientamento sociale agli offesi, sia che essi partecipino al processo penale sia che ne rimangano estranei. Certamente non mancano le associazioni di vittime e dei loro famigliari. Ma ciò che fa la differenza rispetto a quanto accade nel nostro paese è proprio l’esistenza di una rete pubblica o privata convenzionata – in ogni caso integrata con le amministrazioni dello Stato – la cui finalità è essenzialmente quella di occuparsi dei bisogni, anche quelli elementari, delle vittime. La cura delle vittime è così pensata e realizzata non in contrapposizione alle garanzia dell’accusato ma come un diritto autonomo delle vittime, anche a prescindere dall’esistenza di un procedimento penale. Nondimeno questo aspetto della “cura” può anche essere complementare allo svolgimento delle indagini e del processo.
Il processo cd. Bataclan è stato un banco di prova importante per valutare e apprezzare questo sistema di assistenza alle vittime[2]. In occasione della conclusione del processo ho pensato di rivolgere alcune domande ad una delle protagoniste del lavoro svolto con le vittime sopravvissute e i famigliari: Carole Damiani è la direttrice di Paris Aide aux Victimes (PAV75), il servizio di assistenza alle vittime che ha seguito le parti civili e, in generale, le persone offese e i famigliari nel corso del processo che si è concluso, in primo grado, il 29 giugno scorso.
Il PAV75 è nato nel 1987 ed è una delle molte associazioni che hanno aderito all’Istituto Nazionale per l’Assistenza alle Vittime e Mediazione (INAVEM), una federazione di associazioni di assistenza alle vittime fondata nel 1986 e che oggi ha il nome di France Victimes[3].
Chiedo a Carole Damiani, innanzitutto, di conoscere il suo percorso professionale
Ho cominciato a lavorare come psicologa nell’assistenza alle vittime di reati circa 30 anni fa. Inizialmente lavoravo all’interno dell’INAVEM (poi trasformatosi in France Victimes nel 2017). Poi ho lavorato per Paris Aide aux Victimes. Sono stata nominata Direttrice dell’associazione parigina nel 2014 e conseguentemente ho abbandonato il mio posto all’interno di France Victimes.
Qual è il rapporto che si istituisce tra France Victimes e i servizi locali come Paris Aide aux Victimes?
France Victimes è una struttura amministrativa. Le associazioni locali (come PAV) accolgono le vittime (i giuristi assicurano l’informazione sui diritti, gli psicologhi fanno il sostegno emotivo e psicologico e l’assistente sociale orienta le vittime in base ai loro bisogni e le segue nelle loro pratiche). France Victimes lavora con i diversi Ministeri – in particolare con quello della Giustizia -, garantisce la formazione degli operatori, offre un sostegno tecnico alle associazioni, mette in relazione tra loro le diverse associazioni locali. Inoltre la Francia dispone del numero verde europeo 116006[4] che consente agli operatori di indirizzare le vittime alle varie associazioni locali.
Come vengono finanziati i servizi locali di assistenza? Sono sottoposti ad un controllo sull’uso corretto dei fondi, sulla qualità del servizio e sulla formazione degli operatori?
I servizi locali di assistenza alle vittime sono finanziati dal Ministero della Giustizia, dalle municipalità e dalla Prefettura, essenzialmente. Ogni anno presentano una rendicontazione delle attività e un bilancio economico che permette di verificare l’impiego dei fondi e la qualità delle prestazioni.
Leggendo alcune interviste sui quotidiani francesi sono rimasto molto colpito dall’attenzione che è stata dedicata alle vittime durante tutte le fasi del procedimento penale cd. “Bataclan”, compresa la fase delle indagini: vorrei capire se è stata un’eccezione straordinaria o se è il risultato di lunghi anni di crescente impegno verso le vittime.
Non si è trattato per nulla di un’eccezione. La nostra associazione (come gli altri servizi locali) riceve una segnalazione da parte della Procura della Repubblica (come prevede l’art. 41 del codice di procedura penale[5]). L’équipe di psicologi, giuristi e di assistenti sociali sono mobilitati e garantiscono il loro sostegno alle vittime fino all’inizio del processo. La sola differenza con il processo per gli attentati del novembre 2015 è che è stato molto più lungo e complesso degli altri. D’altra parte noi lavoriamo con le vittime da oltre 30 anni.
Credo sia molto importante capire com’è scattata, da subito, la mobilitazione in favore delle vittime. Se succedesse un evento simile in Italia interverrebbe la protezione civile e gli “psicologi dell’emergenza” che non hanno però una preparazione specifica di lavoro con le vittime.
Come ho detto è il Pubblico ministero che segnala, nell’immediatezza dei fatti, al servizio locale di assistenza alle vittime l’eventuale necessità di un intervento di sostegno. L’équipe del servizio di assistenza si coordina con la protezione civile e con gli psicologi dell’emergenza. Le vittime non necessitano solo di un sostegno psicologico ma anche di informazioni sui loro diritti e di accompagnamento nelle loro pratiche (ad es. connettersi con un’assicurazione, trovare un legale, cambiare casa perché a seguito delle ferite riportate non possono accedervi, ottenere un indennizzo per pagare le spese sostenute…).
Come avete impostato il lavoro all’inizio? Quali erano le richieste delle vittime e dei loro famigliari?
È l’esperienza accanto alle vittime che ci ha permesso di evolvere nelle nostre pratiche. Le famiglie ci chiedevano un sostegno psicologico ma ci chiedevano anche di essere aiutate ad avere dei punti di riferimento nel corso della procedura penale.
Come si è sviluppato il rapporto con le istituzioni (polizia, procura, servizi sanitari…)?
L’assistenza alle vittime in Francia è interministeriale. Ogni Ministero è coinvolto. Abbiamo delle convenzioni con ognuno dei partner (polizia, procura, servizi sanitari, servizi sociali). A Parigi facciamo un incontro almeno una volta l’anno per fare il punto della situazione e una volta al mese in ogni arrondissement[6]. Di fatto ci conosciamo molto bene e le nostre convenzioni ci permettono di essere operativi tutte le volte che si verifica una fatto di una certa importanza e ci facilita nel nostro lavoro quotidiano accanto alla vittime.
Com’è, invece, il rapporto con le associazioni delle vittime?
Lavoriamo insieme a loro nella misura del possibile.
Ho letto delle interviste in francese sul rapporto vittime-processo: è vero che il processo non è terapeutico? Ho letto però che una delle vittime – Aurélie – che inizialmente non voleva rendere dichiarazioni nel dibattimento, ha poi deciso di testimoniare e alla fine del processo ha usato l’immagine di un viaggio a bordo di una nave. La fine del processo le ha dato la sensazione di uno “sbarco”. Che ne pensa?
Il processo non è terapeutico, il processo non cura e, tuttavia, può avere una funzione di sollievo, una funzione di "scopo". Generalmente le vittime si sentono alleggerite dopo il processo perché la conclusione di quel percorso dà la sensazione del compimento di una tappa, di modo che non avranno più bisogno di pensarci e di parlarne pubblicamente. Per contro se si tratta di vittime traumatizzate non è certo il processo che potrà loro offrire un’occasione di cura. Tuttavia resta una tappa importante nel loro percorso.
So che è stato dato uno spazio a dichiarazioni spontanee delle vittime nel dibattimento. Da noi sarebbe stato impensabile. Gli avvocati si sarebbero opposti.
In Francia le parti civili hanno un tempo per parlare, in ogni processo d’assise: questo è previsto. La particolarità di questo processo sta nel fatto che è stato concesso alle parti civili un tempo particolarmente lungo per le loro dichiarazioni[7].
Ho letto di un ottimo rapporto tra avvocati degli imputati e delle parti civili. È vero ?
Si si sono rispettati gli uni gli altri. D’altra parte molti tra di loro si conoscono molto bene.
Cosa mi dice dell’organizzazione del processo? Chi ha organizzato il tutto? Come si è comportato il Presidente?
Ci siamo preparati a questo processo da diversi anni. Il motore è stato la Procura di Parigi come Procura generale e Procura nazionale antiterrorista[8]. Per anni abbiamo avuto regolarmente delle riunioni con tutti i soggetti coinvolti (Procura, magistrati, cancellieri, servizi di sicurezza, uffici economici, assistenza alle vittime…) e in alcuni casi anche con gli avvocati e le associazioni delle vittime. Abbiamo lavorato con tutte le modalità possibili, non solo con delle riunioni ma anche attraverso delle simulazioni di processo. La corte d’assise ha preparato a lungo questo processo. Il Presidente, come tutti gli altri attori del processo, ha svolto i suoi compiti nel miglior modo possibile.
Come si sono comportati i media secondo lei nel corso del processo?
Hanno rispettato le consegne che erano state concordate: avevamo previsto che le vittime disponibili ad essere intervistate indossassero un badge verde mentre quelle indisponibili indossassero un badge rosso. Anche gli articoli di giornale e i reportages sono stati fedeli nel riferire le vicende processuali e rispettosi delle vittime.
Questo processo le suggerisce delle considerazioni generali sulla giustizia, sul rapporto cura/giustizia, sul rapporto tra vittime e fiducia verso le istituzioni?
Oggi c’è un reale coordinamento tra i diversi ministeri. La DIAV[9], vale a dire la Delegazione Interministeriale per l’Assistenza alle Vittime, funziona bene. Non tutto è perfetto ma il coordinamento ha migliorato molto il percorso di cura e di giustizia per le vittime
In Italia c’è un gran parlare di giustizia riparativa quasi che questo approccio garantisse le vittime e il loro buon coinvolgimento. Che ne pensa?
Nella struttura che io dirigo abbiamo affrontato l’argomento delle misure e dei programmi di giustizia riparativa. In realtà li utilizziamo soltanto per le vittime di violenza sessuale per fatti che sono prescritti o quando l’autore è deceduto: in altri termini quando il processo penale non è possibile.
In Francia, in effetti, la giustizia riparativa ha avuto uno sviluppo non paragonabile ai servizi di assistenza alle vittime anche se fin dalla nascita le associazioni locali federate nell’INAVEM hanno sempre offerto anche un servizio di mediazione autore-vittima. La l. 15 agosto 2014, n. 896 ha introdotto l’art. 10-1 nel codice di procedura penale che permette all’autorità giudiziaria, a determinate condizioni, di far ricorso a delle misure riparative[10]. Tra il 2017 e il 2020 è stata condotta una ricerca nazionale sulla realizzazione di programmi e sull’applicazione di misure riparative curata dall’Istitut Français pour la Justice Restaurative. L’aggiornamento del 2021 riferisce un numero estremamente contenuto di misure (83) con complessivamente 131 partecipanti[11]. Gli autori della ricerca, sotto la guida del criminologo Robert Cairo, ritengono che la giustizia riparativa potrebbe avere un largo successo se vi fosse un preciso orientamento in quella direzione proprio da parte dei servizi di assistenza alle vittime.
[1] Il cd. processo “Bataclan” dal nome della sala da spettacolo dove si è verificato l’eccidio più tragico.
[2] Alcune informazioni e alcuni dati sul lavoro svolto dai servizi di assistenza erano stati forniti nell’articolo, pubblicato da questa rivista, di Marco Bouchard, Il processo può curare il trauma del crimine?, 21.9.2021.
[3] France Victimes raccoglie 130 associazioni locali e conta su 850 luoghi di accoglienza con 1610 operatori. Nel 2021 ha offerto assistenza a 292.927 vittime e condotto 747.416 incontri. Nel 67,3% dei casi si è trattato di reati contro la persona e per il 21,5% di reati contro il patrimonio (dal rapporto d’attività del 2022 scaricabile dal sito https://france-victimes.fr/index.php/categories-inavem/105-actualites/1209-decouvrez-le-rapport-d-activite-france-victimes-de-2021).
[4] Il 116006 è un numero gratuito operativo 7 giorni su 7, per 365 giorni l’anno. Permette a qualunque persona che ritiene di essere stata vittima di un reato (contro il patrimonio o contro la persona, un incidente stradale, un attentato) o di una catastrofe naturale di essere aiutata da un operatore professionale in tempo reale e nel rispetto del suo anonimato. Nel 2021 ci sono state 61.477 chiamate.
[5] «Le procureur de la République peut également recourir à une association d'aide aux victimes agréée par le ministre de la justice dans des conditions définies par décret, afin qu'il soit porté aide à la victime de l'infraction». Il Pubblico ministero può rivolgersi ad una associazione di assistenza alle vittime accreditata dal Ministro della Giustizia secondo i criteri stabiliti con decreto, al fine di assicurare assistenza alla vittima di un reato (trad. dell’autore).
[6] Gli arrondissements - a Parigi sono 20 - sono una divisione amministrativa del territorio con un proprio consiglio di amministrazione e un proprio “sindaco”.
[7] Suppongo che Carole Damiani si riferisca all’art. 310 del codice di procedura penale secondo cui il Presidente del collegio è investito di un potere discrezionale in virtù del quale può, «en son honneur et en sa coscience», prendere ogni misura che crede utile per scoprire la verità. Nell’ultimo comma si precisa che i testimoni possono, in questo caso, essere citati senza prestare giuramento e le loro dichiarazioni non sono considerate se non come informazioni.
[8] Fin dal 1986 il Tribunale di grande istanza di Parigi ha una competenza nazionale sui reati di terrorismo, sui crimini contro l’umanità e i crimini di guerra. Nel 2019 è stata istituita la Procura nazionale antiterrorista (Parquet national antiterroriste – PNAT).
[9] Si tratta di un organismo che incarna la politica interministeriale per l’assistenza alle vittime. È ora disciplinato dal decreto del 7 agosto 2017, n. 1240 ed ha sede presso il Ministero della Giustizia. Ha competenza sugli atti di terrorismo, sugli incidenti collettivi, sui disastri ambientali e su altri crimini. Coordina l’azione dei diversi Ministeri con le associazioni di vittime e con i servizi di assistenza.
[10] Oltre al consenso libero e informato dell’accusato e della vittima è prevista la regola della confidenzialità e del segreto professionale per i facilitatori/mediatori. La fattibilità è, comunque, condizionata dal riconoscimento essenziale dei fatti dalle parti e da un controllo di conformità della misura da parte dell’autorità giudiziaria e dell’amministrazione penitenziaria.
[11] http://www.justicerestaurative.org/wp-content/uploads/2022/05/EN-2021.pdf