1. Dopo il volume Vendetta Pubblica. Il Carcere in Italia, gli Autori Marcello Bortolato - magistrato - ed Edoardo Vigna - giornalista - regalano al pubblico una nuova opera Oltre la vendetta. La giustizia riparativa in Italia.
Come per il primo volume, recensito in questa Rivista dalla profonda penna di Elvio Fassone (https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-pensare-corrente-sul-carcere-e-i-suoi-antidoti) siamo di fronte a una nuova opera divulgativa, rivolta ai non addetti ai lavori, da un lato per mettere a nudo i molti luoghi comuni che circondano il grande tema della sanzione penale, dall’altro per spiegare, con un linguaggio semplice ma molto efficace, che cosa è la giustizia riparativa, introdotta nel nostro sistema penale dalla legge 150 del 2022, e come, da allora ad oggi, si stia cercando di applicarla nonostante le difficoltà culturali e pratiche che si frappongano alla sua effettiva attuazione.
Il volume non vuole essere un testo giuridico quanto piuttosto il tentativo di portare questi Istituti giuridici, che costituiscono delle vere e proprie rivoluzioni culturali, nella esperienza di tutti, per farli conoscere e far scoprire le potenzialità che potrebbero sprigionarsi da percorsi alternativi alla pena. Suggestiva anche la scelta di presentare il volume come un’opera teatrale, riservata, intima, senza pubblico, con il suo prologo, i suoi atti, i suoi interpreti, fino alla conclusione “giù il sipario”.
2. Un testo agile, piacevole nella lettura, descrittivo di come si è arrivati a questa legge che ha dato alla giustizia riparativa una disciplina organica (articoli da 42 a 67 del d.lgs. 150/2022) con riferimenti alle normative europee (Direttiva UE 29/2012, Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. 19/99, Dichiarazione di Venezia sul Ruolo della Giustizia riparativa in materia penale, Raccomandazione del Consiglio d’Europa relativa alla giustizia riparativa in materia penale, CM/Rec(2018)8)
e alle esperienze storiche svoltasi in Sudafrica post-apartheid, con l’albero del villaggio in Nigeria e la pace nell’Irlanda del nord, fino alla esperienza italiana che ha riguardato soprattutto gli autori dei reati commessi negli anni di piombo (settanta e ottanta); con una descrizione degli interpreti di questa nuova forma di riparazione - il giudice e la sua regia, il mediatore e la sua sensibilità, la vittima e le sue domande, l’autore dell’offesa e la sua responsabilità-, e con una presentazione dettagliata dell’evolversi dell’Istituto, dal momento iniziale fino alla sua conclusione.
3. Gli Autori sottolineano che la giustizia riparativa è una forma di risoluzione del conflitto, complementare, incidentale al processo, basata non sul pentimento e sul perdono ma sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altro con l’aiuto di un soggetto terzo imparziale: il “mediatore”. Si percorre il piano del sentimento di solidarietà nella consapevolezza della profonda insoddisfazione per la giustizia penale attuale.
Un istituto che non si sostituisce al processo penale ma, attraverso il contatto diretto tra le parti cerca di risanare quel legame con la società spezzato dal compimento dell’illecito. Fuori dai luoghi in cui tradizionalmente si svolge il processo, l’incontro tra le parti può consentire che l’imputato sia responsabilizzato rispetto al proprio agire e la persona offesa possa esprimere i propri sentimenti e le proprie emozioni in relazione alla lesione subita.
Lo sforzo del legislatore è stato quello di far dialogare due paradigmi, secondo un sistema fondato su una logica binaria.
Per i reati meno gravi (ossia quelli perseguibili a querela) la giustizia riparativa può configurarsi come vera e propria alternativa alla giustizia ordinaria: l’esito riparativo conduce infatti alla non proposizione della querela o alla sua remissione, espressa o tacita (secondo quanto previsto dal nuovo art. 152, comma 3, c.p.).
Per i reati procedibili d’ufficio invece la giustizia riparativa si colloca in una posizione di complementarità rispetto a quella tipica dell’accertamento penale della responsabilità.
E’ un paradigma rivoluzionario che implica la contaminazione tra due modelli culturali, retributivo e rieducativo, e il loro stesso superamento, a partire dalla prevenzione, dando un giusto ruolo alla vittima, collocandola in un luogo “neutro”, mentre nel sistema attuale risulta sempre più spesso essere la “cenerentola” del processo penale e oggetto di “vittimizzazione secondaria”. Non dimenticando che possono esservi anche altri importanti attori del percorso riparatorio: familiari, persone di supporto della vittima o della persona indicata come autore dell’offesa, enti e associazioni private, enti pubblici, servizi sociali: in altre parole, altri soggetti appartenenti alla comunità che abbiano interesse a partecipare al programma.
Nella definizione data dall’articolo 42 del d.lgs. 150/2022 vi è racchiuso il cuore dell’istituto che consiste in «ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore».
4. L’obiettivo del programma, evidenziato in più pagine del volume, è quello di ottenere un esito riparatorio (termine su cui gli Autori pongono l’accento differenziandolo da ripartivo), cioè la ricostruzione del legame spezzato tra vittima, reo e comunità. L’esito riparatorio può essere simbolico, e quindi consistente in dichiarazioni, scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o rivolti alla società, accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi, oppure materiale, come il risarcimento del danno, le restituzioni, l’adoperarsi per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori (art. 56 legge citata).
5. I programmi di giustizia riparativa si svolgono presso i centri per la giustizia riparativa, strutture istituite presso gli enti locali a cui competono le attività relative all’organizzazione, gestione, erogazione e svolgimento dei programmi. Presso ogni Corte d’appello è istituita la conferenza locale per la giustizia riparativa a cui partecipano, attraverso i propri rappresentanti: il ministero della giustizia, le regioni, le province, le città metropolitane e le province autonome sul territorio delle quali si estende il distretto di Corte di appello, i comuni sedi di uffici giudiziari compresi nel distretto di corte di appello e ogni altro comune compreso nel medesimo distretto e presso il quale sono in atto esperienze di giustizia riparativa. La conferenza, sentiti il Presidente della Corte di appello, il Procuratore generale presso la Corte di appello e il Presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati del comune sede dell’ufficio di Corte di appello, anche in rappresentanza degli Ordini distrettuali, individua, mediante protocollo d’intesa, uno o più enti locali cui affidare l’istituzione e la gestione dei centri per la giustizia riparativa. Entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore del suddetto decreto, la conferenza locale dovrà provvedere alla individuazione dei centri per la giustizia riparativa in cui svolgere i relativi programmi (art. 92 legge citata).
6. Si può accedere al programma riparativo per qualsiasi reato, a prescindere dalla gravità, e la richiesta può essere presentata in ogni stato e grado del procedimento, nella fase esecutiva della pena o della misura di sicurezza, dopo l’esecuzione delle stesse e all’esito di una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, per difetto della condizione di procedibilità, anche ai sensi dell’articolo 344-bis del codice di procedura penale, o per intervenuta causa estintiva del reato.
7. Gli Autori sottolineano il ruolo centrale attribuito al giudice, il quale è chiamato a svolgere una funzione di “regia” di tutto il procedimento e di “filtro” dei casi da trasmettere ai centri per la giustizia riparativa. Infatti, ai sensi dell’articolo 129 bis c.p.p. il giudice, con ordinanza, dispone l’invio dell’imputato e della vittima presso i centri di cui sopra per l’avvio di un programma di giustizia riparativa su richiesta dell’imputato, della vittima o d’ufficio, qualora reputi che lo svolgimento di un programma riparativo possa essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede e non comporti un pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti. Il magistrato è tenuto quindi a una triplice valutazione di ammissibilità. Innanzitutto, il programma riparativo deve essere «utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto»; in secondo luogo, il giudice dovrà assicurarsi dell’assenza di pericoli per gli interessati; infine, il percorso riparativo non dovrà pregiudicare l’eventuale successivo accertamento dei fatti.
Le parti partecipano al programma riparativo solo con il loro consenso libero, consapevole, informato ed espresso in forma scritta (art. 48 legge citata). Il giudice non può evidentemente costringere nessuno, però può disegnarsi questo ruolo di impulso offrendo un panorama di opzioni per cercare di invogliare le parti a certi comportamenti.
Durante lo svolgimento degli incontri, il giudice ha il potere di richiedere informazioni sullo stato e sui tempi del programma. L’articolo 45 ter disp. Att. c.p.p. individua il giudice competente a disporre l’invio al Centro per la giustizia riparativa. Al termine del programma viene trasmessa al giudice procedente una relazione redatta dal mediatore contenente la descrizione delle attività svolte e dell’esito riparativo raggiunto, oltreché la mancata effettuazione del programma, l’interruzione dello stesso o il mancato raggiungimento dell’esito riparativo; in questi ultimi casi, non si producono effetti sfavorevoli nei confronti della persona indicata come autore dell’offesa. Una previsione essenziale su cui spesso gli Autori si soffermano per smentire dei luoghi comuni che potrebbero tenere lontano l’imputato dal prestare il consenso a sperimentare il percorso di riparazione. Se, invece, il programma si è concluso con un esito riparativo, il giudice lo valuta: per graduare l’entità della pena ai sensi dell’art. 133 del codice penale, ai fini di riconoscere la circostanza attenuante di cui all’articolo 62 comma primo, n. 6, il quale prevede una diminuzione di pena per «aver partecipato a un programma di giustizia riparativa con la vittima del reato, concluso con esito riparativo»; come remissione tacita di querela ai sensi dell’articolo 152 comma 2, n. 2 c.p.; ai fini della sospensione condizionale della pena ex art. 163 c.p., il quale dispone che, qualora il colpevole abbia partecipato ad un programma di giustizia riparativa, concluso con esito positivo, il giudice può ordinare che l’esecuzione della pena rimanga sospesa per il termine di un anno.
8. Mentre l’autorità giudiziaria ha un ruolo decisivo “in entrata” (invio del caso) ed “in uscita” (valutazione processuale del suo esito) nell’ambito della giustizia riparativa un’importanza straordinaria assume il ruolo del mediatore.
Egli è facilitatore del dialogo, deve saper gestire le emozioni dei partecipanti, ma, prima ancora, deve capire se ci sono i presupposti per far incontrare le parti. Una figura nuova e strategica di cui gli Autori sottolineano il ruolo centrale. Il mediatore si cala dentro il conflitto, e non giudica. …Non si attribuiscono torti e ragioni, non si pronunciano sentenze e nemmeno si infliggono punizioni. Ecco perché si parla di una giustizia orizzontale, e non verticale come è invece la giustizia tradizionale, in cui lo Stato sta sopra, mentre sotto sta l’imputato che si deve difendere.
9. A Milano il 3.8.2023 è stato sottoscritto un protocollo per l’applicazione degli istituti di giustizia riparativa, individuando il centro di giustizia riparativa del comune di Milano come luogo in cui il giudice può inviare le parti, in attesa che la conferenza locale effettui la ricognizione dei centri esistenti implementando così lo stesso Protocollo. Da quel momento sono stati registrati come attivi oltre 20 procedimenti di cui la maggior parte per reati procedibili d’ufficio e molti per reati da codice rosso. Dei percorsi di giustizia riparativa attivati, alcuni sono ancora in corso mentre altri si sono già conclusi con esito positivo e conseguente concessione generiche/sospensione condizionale. L’Istituto comincia quindi ad essere applicato, anche se, come sottolineano gli Autori, è sul piano culturale che deve essere accettato, ed anche per questo il volume può svolgere una funzione importante. Anche la formazione è stata avviata, se si considera l’esperienza in corso sempre a Milano, dove la collaborazione tra la Formazione decentrata della Scuola della magistratura, l’Università, l’Ordine degli avvocati e la Camera Penale ha portato all’organizzazione di più giornate formative, anche con risvolti pratici, di notevole interesse come attesta la partecipazione fino ad oggi registrata. E’ la strada formativa che segnalano gli Autori quando, nel richiamare l’opinione di Marta Cartabia, ricordano che la giustizia riparativa non va spiegata, va vista, con giochi di ruolo in cui si simulano le mediazioni penali. Perché solo vedendola si capisce quanto sia importante.
10. Una delle questioni centrali poste negli incontri, richiamata anche dagli Autori nella descrizione di ciò che ha animato la legge nella sua elaborazione e che serpeggia ancora oggi quando si discute della applicazione concreta dell’Istituto, riguarda la sua compatibilità con ogni tipologia di reati. Sappiamo infatti che molte criticità sono state espresse non solo da una parte della dottrina ma anche in documenti ufficiali di organismi del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite in presenza di vicende di violenza relazionale connotata dal genere. Si pensi alle preoccupazioni che affiorano rispetto alle indicazioni contenute nella Convenzione di Istanbul e nei relativi report del G.R.E.V.I.O. quando si è di fronte ai casi caratterizzati da violenza domestica e da relazioni strette che rappresentano il terreno più difficile e scivoloso per una giustizia riparativa che intenda rispettare e mettere al centro i bisogni delle persone e, in particolare, delle vittime di tali reati. Al riguardo gli Autori ricordano, che il consenso delle parti ad avviare il percorso di giustizia riparativa è indispensabile e nulla può essere imposto. E’ però possibile procedere in assenza della presenza della vittima di quel reato specifico. Nel volume, ad esempio, viene richiamato un caso di riparazione con vittima surrogata. L’applicazione della mediazione riguardava un soggetto detenuto resosi responsabile di un omicidio di una prostituta transgender. I familiari della vittima straniera non erano reperibili e quindi la mediazione è stata portata avanti con una vittima “surrogata”. Il percorso si è concluso con la richiesta al condannato da parte della vittima aspecifica, attivista per i diritti Lgbtq+, di presenziare ad una giornata in cui si ricordavano le vittime e di portare una rosa sulla tomba di una delle donne uccise. Questo gesto simbolico, compiuto dall’omicida, è stato apprezzato per il suo valore riparatorio tanto che la vittima surrogata ha dichiarato «per me è stato un incontro importante perché adesso so che al mondo c’è una persona in meno che ci odia». Non è stata cancellata l’ingiustizia, come sottolineano gli Autori, ma si è riparato l’elemento relazionale.
11. Dopo aver letto il volume mi è tornata in mente la tecnica di Kintsugi o Kintsukuroi (“riparare con l’oro”) praticata in Giappone, che non è solo una forma d’arte, ma una vera e propria filosofia. Il dolore, per i giapponesi, non incarna un sentimento vergognoso, da estirpare o da occultare, così come l’imperfezione estetica non rappresenta un elemento capace di rovinare l’armonia di una figura; le crepe dell’oggetto rotto non vanno nascoste né mimetizzate ma valorizzate, esattamente come le cicatrici, i difetti fisici e le ferite dell’anima non vanno celate ma manifestate senza imbarazzo, essendo le stesse parte dell’essere umano e della sua storia. Il mio pensiero, leggendo di giustizia riparativa, è corso a quella esperienza così lontana dalla cultura occidentale, ma al tempo stesso così significativa, che ci dimostra come da una ferita ricomposta può scaturire una forma di rinascita. I segni impressi dalla vita sulla nostra pelle e nella nostra mente -sia se autori di reati sia se vittime- hanno comunque un significato, e da essi, dalla loro accettazione, dalla loro rimarginazione, prendono il via i processi di rigenerazione e di rinascita interiore che ci rendono comunque delle persone che possono, se lo vogliono, ricominciare a vivere. Se ragioniamo con questo paradigma riusciamo a comprendere fino in fondo la grande forza della posizione assunta da Agnese Moro e Manlio Minale, su cui gli Autori giustamente si soffermano nel libro, richiamando la loro preziosa testimonianza.